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Cronaca Nera

Renato Vallanzasca lascia il carcere dopo 50 anni: trasferito in RSA per motivi di salute

Il “Bel Renè” tra declino fisico e una nuova vita lontano dalle sbarre per arginare la sua Alzheimer.

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    Renato Vallanzasca ex boss della Banda della Comasina e icona della malavita milanese, è stato trasferito dall’istituto penitenziario di Bollate a una residenza sanitaria assistenziale (RSA). Dopo più di 50 anni trascorsi in carcere con condanne a più ergastoli, il tribunale di sorveglianza di Milano aveva già disposto a settembre il differimento della pena. Per lui quindi è stato deciso una detenzione domiciliare in provincia di Padova per incompatibilità con il carcere a causa delle sue condizioni di salute.

    Il trasferimento e la nuova vita in RSA

    Nei giorni scorsi il 74enne è stato accolto presso l’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, una struttura specializzata nella cura di pazienti affetti da Alzheimer e demenza. Un passaggio, ritardato da formalità burocratiche e certificazioni, è stato curato dai suoi avvocati Corrado Limentani e Paolo Muzzi. Renato Vallanzasca, che fatica a camminare, è seguito dai medici dell’istituto e sottoposto a fisioterapia per migliorare la sua condizione fisica.

    Renato Vallanzasca un simbolo della criminalità

    Il “Bel Renè“, famoso negli anni ’70 e ’80 per rapine, evasioni e omicidi, ha vissuto gran parte della sua vita in carcere. Ha accumulato una notorietà che ha diviso l’opinione pubblica tra chi lo considerava un personaggio carismatico e chi lo vedeva come un simbolo di violenza e illegalità. Ora, il declino fisico e mentale lo ha trasformato in un uomo fragile, lontano dall’immagine del boss spietato e affascinante del passato. Vallanzasca ha segnato la storia criminale italiana con una serie di rapine, omicidi e evasioni che lo hanno reso un personaggio iconico e controverso. Negli ultimi anni, la sua parabola ha subito un’inversione radicale, segnata da malattia e reclusione.

    Dalla notorietà al declino

    Dopo una vita ai margini della legge, caratterizzata da una fama quasi leggendaria, condannato a più ergastoli, ha trascorso decenni dietro le sbarre. Tuttavia, la sua salute si è progressivamente deteriorata, portandolo a una condizione fisica incompatibile con la detenzione.

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      Cronaca Nera

      Il killer, il film fantasma e il ministero che stacca assegni a occhi chiusi

      Con l’identità di un regista inventato e una casa di produzione inesistente, ha ottenuto 863.595 euro di tax credit dal Ministero della Cultura. Il progetto non è mai partito. Ma i soldi sono spariti. E nessuno ha mai controllato.

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        Il titolo l’aveva scelto bene: Stelle della notte. Suonava misterioso, prometteva noir. Ma non è mai diventato un film. Perché Rexal Ford, il regista, non esiste. Dietro quel nome si nasconde Francis Kaufmann, cittadino americano, 46 anni, oggi in carcere in Grecia, accusato di aver ucciso la compagna Anastasia Trofimova e la figlia Andromeda. I corpi sono stati ritrovati a Villa Pamphili, in un orrore che da giorni domina le cronache. Ma c’è un’altra storia, parallela, ancora più assurda: nel 2020, l’Italia ha finanziato Kaufmann con 863mila euro. Soldi pubblici. Per un film mai esistito.

        La scoperta è di Open. Un’indagine tra i documenti del Ministero della Cultura ha svelato il decreto 2872 del 27 novembre 2020. Firma: Nicola Borrelli, allora direttore generale cinema. Ministro: Dario Franceschini. Governo: Conte bis. Beneficiario: Tintagel Films Llc, casa di produzione con sede fittizia a Malta. Dietro, ovviamente, c’era sempre lui: Kaufmann, alias Ford, che ha presentato un progetto dettagliato con tanto di passaporto americano – falso – oggi agli atti dell’inchiesta.

        Ma da solo non ce l’avrebbe fatta. Il tassello italiano è fondamentale: la società Coevolutions, con sede a Roma, ha formalmente presentato la domanda. A guidarla Marco Perotti, co-produttore vero. Così la truffa è diventata credibile: produzione internazionale, set a Roma, budget realistico, burocrazia impeccabile. Mancava solo il film.

        Il ministero ha approvato. Nessun controllo reale. Il tax credit è stato poi ceduto a una banca, che ha dato via libera. I soldi sono stati erogati. Ma il progetto, ovviamente, mai partito. Perché la legge, all’epoca, non imponeva di dimostrare l’avvenuta realizzazione. Bastava la carta.

        Oggi, a danno compiuto, il Ministero annuncia verifiche e possibile revoca. Ma resta la domanda: com’è stato possibile che nessuno si accorgesse di nulla? Quando l’arte diventa pretesto e la cultura un alibi, forse serve più di una scusa.

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          Cronaca Nera

          Case degli orrori: quando tragedie e crimini diventano un affare immobiliare

          Da hotel di lusso a semplici abitazioni, le case degli orrori si trasformano in opportunità di guadagno. Il confine tra business e rispetto per le vittime.

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            Le case legate a eventi tragici o crimini violenti, definite spesso “case degli orrori”, hanno da sempre esercitato un fascino macabro su pubblico e mercato immobiliare. Dalla leggendaria villa di Gianni Versace a Miami, teatro del suo omicidio nel 1997, alla villetta di Cogne, dove fu commesso il delitto del piccolo Samuele Lorenzi nel 2002, queste proprietà diventano spesso oggetto di compravendite milionarie e trasformazioni redditizie.

            La villa di Gianni Versace: dal crimine al lusso

            A Miami, la “Casa Casuarina”, luogo dell’omicidio dello stilista Gianni Versace, rappresenta un caso emblematico. Nel 2013, la villa è stata venduta all’asta per 41,5 milioni di dollari e successivamente trasformata in un hotel di lusso. Nonostante il suo passato oscuro, l’immobile è oggi una destinazione turistica e un simbolo di glamour, dimostrando che il fascino del macabro può generare profitti nel settore immobiliare.

            La villetta di Cogne: l’orrore all’asta

            Anche in Italia il fenomeno si ripete. La villetta di Cogne, teatro di uno dei delitti più discussi della cronaca italiana, è stata recentemente messa all’asta con un prezzo base di circa 800.000 euro. L’abitazione, pignorata su richiesta dell’avvocato Carlo Taormina per onorari non pagati da Annamaria Franzoni, continua ad attirare interesse, confermando che il passato non sempre scoraggia gli acquirenti.

            Un mercato in espansione: il fenomeno del “murderabilia”

            Questi casi si inseriscono nel più ampio fenomeno del murderabilia, l’interesse per oggetti o proprietà legati a crimini violenti. Dalla vendita di memorabilia appartenuti a serial killer fino alle case di famosi omicidi, il murderabilia rappresenta un mercato controverso e in crescita.

            Non mancano le critiche: monetizzare tragedie personali può essere percepito come una mancanza di rispetto verso le vittime e le loro famiglie. Allo stesso tempo, c’è chi sostiene che queste proprietà abbiano il diritto di essere reintegrate nel mercato e utilizzate.

            Questioni etiche e il turismo macabro

            La commercializzazione di immobili legati a tragedie pone inevitabilmente interrogativi etici. Da un lato, c’è l’opportunità economica; dall’altro, il rischio di alimentare un turismo macabro che potrebbe ulteriormente traumatizzare le comunità colpite.

            Nel caso della villetta di Cogne, ad esempio, le polemiche sulla vendita si intrecciano con la memoria di un evento che ha segnato profondamente l’opinione pubblica italiana. A Miami, invece, la villa di Versace è riuscita a trasformare il proprio passato oscuro in un simbolo di lusso e raffinatezza.

            Il confine tra business e rispetto

            Se il mercato immobiliare dimostra che anche le proprietà con un passato oscuro possono trovare acquirenti, resta da capire dove tracciare il confine tra guadagno e rispetto. Come bilanciare la monetizzazione di queste case con la memoria delle vittime e il rispetto per le comunità coinvolte?

            Mentre queste proprietà continuano a circolare, il dibattito su etica e profitto rimane aperto, dividendo chi vede in queste transazioni un’opportunità e chi, invece, le percepisce come una speculazione sul dolore umano.

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              Il mistero del pc di Chiara Poggi: foto intime, siti porno e ricerche inquietanti

              Nel computer della vittima, oltre 4000 accessi a siti per adulti e una cartella segreta con video privati. Tra i frequentatori del pc, anche amici del fratello Marco: c’era pure Andrea Sempio?

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                Nel 2007, quando Chiara Poggi fu trovata senza vita nella villetta di Garlasco, i carabinieri del Ris sequestrarono tutto quello che poteva parlare per lei. A cominciare dal suo computer. Un oggetto quotidiano diventato improvvisamente cruciale. Dentro, più di 4000 accessi a siti pornografici, alcuni dei quali specializzati in “donne mature”.

                Una quantità impressionante. Ma davvero appartenevano a Chiara? Secondo i legali della famiglia Poggi, la ragazza era al lavoro in molte delle fasce orarie in cui venivano effettuate quelle ricerche. La tesi è che a usare il computer fossero stati il fratello Marco e alcuni amici, tra cui anche Andrea Sempio, nome oggi tornato sotto i riflettori con forza.

                Chiara, raccontò la madre, si era accorta che qualcuno stava usando il suo pc per navigazioni “strane”. E aveva confidato il disagio. Il dettaglio che agita più di una coscienza, però, è un altro: il gruppo di ragazzi aveva accesso anche alla cartella “Tatina”, dove la giovane custodiva foto intime e tre video privati girati con il fidanzato Alberto Stasi.

                Non solo: in quella stessa memoria sono state trovate ricerche inquietanti su pedofilia e abusi. Chi le ha fatte? E perché dal computer di Chiara?

                In una mail indirizzata a una collega, la ragazza accennava a una crisi nella relazione con Alberto, scrivendo: “Stanno vivendo un periodo di stasi. Il mio piccione è…”. Una frase spezzata che oggi suona quasi come un indizio lasciato a metà.

                Il materiale raccolto nel 2007 venne archiviato, ma mai del tutto chiarito. Oggi, nel nuovo clima investigativo che ruota attorno al caso, quel pc torna a far parlare di sé.

                Forse è lì, tra file dimenticati e accessi condivisi, che si nasconde una verità mai raccontata.

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