Cronaca Nera
Saviano accusa: «Coca, escort e soldi facili, così la Gintoneria ripropone il copione delle mafie al Nord»
«Il locale di Milano segue la logica criminale che la ‘Ndrangheta ha esportato negli anni Ottanta: oggi tutto è amplificato dai social e dalla ricerca della fama»
Roberto Saviano lancia un affondo preciso e durissimo dal suo profilo Instagram: l’affaire Gintoneria, il locale milanese travolto dall’inchiesta per droga e prostituzione, è il riflesso di una dinamica che parla direttamente alle viscere del potere criminale in Lombardia. Non si limita a leggere i fatti giudiziari: Saviano scava nella cultura che li rende possibili, evocando i legami storici tra la ‘Ndrangheta e la gestione dei locali notturni nel Nord Italia, da sempre terreno fertile per affari illeciti e riciclaggio.
Il night club, spiega lo scrittore, è stato per anni un baluardo delle mafie in trasferta, in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le cosche calabresi e campane misero radici solide tra Milano e l’hinterland. “Per loro – racconta Saviano – questi locali erano come ristoranti sotto controllo: vendere droga sì, ma senza dare nell’occhio, con una regola aurea di clandestinità e discrezione”. Poi però è arrivata un’altra scuola, quella incarnata da Francis Turatello, il boss milanese che comprese come il crimine potesse cambiare pelle: ostentare il malaffare e renderlo parte integrante del business.
Oggi, in piena era social, Saviano vede nel modello “Turatello 2.0” la chiave per capire l’attrattiva morbosa di posti come la Gintoneria. “Lacerenza non fa altro che riproporre questa dinamica: espone il peccato, lo rende marketing, sa che l’illegalità ostentata è un valore aggiunto per i suoi clienti”, affonda lo scrittore. E prosegue: “Il male, anche per chi lo disprezza, appare più autentico del bene. E la Gintoneria è la versione pacchiana e Instagram-friendly di questo vecchio copione”.
Ma chi frequenta davvero il “tempio” della Gintoneria, incastonato tra i palazzi dietro la Stazione Centrale di Milano? Non certo l’élite della finanza o gli imprenditori della Milano che conta. I frequentatori abituali sono piccoli borghesi in cerca di status symbol da emulare: champagne spruzzato sulle tavolate, escort da esibire come trofei, cocaina spacciata come ingrediente della scalata sociale. “Il fruitore-tipo di quel locale è un parvenu con portafoglio da business class, ma anima da emarginato”, scrive Saviano, cogliendo la sottile distanza che separa questo mondo da quello dei veri circoli esclusivi della metropoli.
Le cronache raccontano di personaggi come il leggendario “Lucione”, capace di bruciare 600mila euro in pochi anni in gin e serate ad alto tasso di eccessi. Il tutto giustificato alla Guardia di Finanza con la solita causale: “Champagne”. Ma in realtà serviva ad acquistare i “pacchetti Lacerenza”, vere e proprie combo di alcol e sesso recapitate anche a domicilio dal fido “Righello”, altra figura chiave dell’inchiesta.
Dietro a questa apparente farsa da “Milano by night” si cela però un sistema ben più preoccupante. Per la Procura l’interesse è puntato su reati pesanti come lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio e, soprattutto, l’autoriciclaggio. Gli inquirenti sospettano che parte dei proventi – ben 2 milioni di euro nel 2023 – siano finiti in Albania, patria d’adozione di Stefania Nobile e Wanna Marchi, partner in affari di Lacerenza con la Ginco Eventi Spa. Un tesoretto che, secondo gli investigatori, potrebbe essere stato reinvestito nei locali gemelli della Gintoneria aperti a Tirana e Durazzo.
L’inchiesta disegna così la parabola di una Milano deformata, dove l’ostentazione cafonal, l’alcol e le “notti senza regole” sostituiscono l’eleganza del passato. E dove, come scrive Saviano, il crimine non si limita più a nascondersi: “Ora ti mostra in faccia ciò che è, e questo basta a renderlo irresistibile per chi ha bisogno di sentirsi qualcuno, anche solo per una notte”.
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Cronaca Nera
Caso Yara, la difesa di Bossetti ottiene i tracciati del Dna: dopo sei anni arrivano i dati grezzi e riparte la caccia all’identità di “Ignoto 1”
Gli avvocati di Bossetti hanno ricevuto i tracciati delle analisi genetiche raccolti in Val Brembana durante l’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio. Si tratta di dati mai entrati nel fascicolo dibattimentale e ora riconosciuti come “potenzialmente nuovi”. La difesa prepara una revisione.
Dopo anni di richieste rimaste senza risposta, la difesa di Massimo Bossetti ha finalmente ottenuto copia dei tracciati del Dna raccolti durante l’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio. Un hard disk capiente, consegnato questa mattina all’avvocato Claudio Salvagni, contiene gli elettroferogrammi e i grafici ad alta definizione prodotti nel corso di quella che è stata definita l’indagine genetica più vasta della storia italiana. I dati riguardano il profilo genetico della vittima e quelli, in forma anonima, delle migliaia di campioni prelevati in Val Brembana alla ricerca dell’identità di “Ignoto 1”.
Il materiale comprende anche le immagini fotografiche dei reperti analizzati dal Ris di Parma e le caratterizzazioni genetiche anonime effettuate nel corso dell’inchiesta. Documenti che lo stesso Tribunale definisce “non acquisiti al fascicolo dibattimentale” e dotati del carattere di “potenziale novità della prova”, un passaggio formale che potrebbe assumere un peso importante nell’eventuale richiesta di revisione.
Per Salvagni, l’obiettivo è chiaro: individuare elementi che possano rimettere in discussione la condanna all’ergastolo di Bossetti, diventata definitiva nel 2018. “Le stringhe – spiega all’Adnkronos – riempiono 70 pagine fronte-retro stampate su fogli A3. È una mole enorme di dati grezzi. Saranno necessari mesi di lavoro per uno screening completo e per capire se tra queste sequenze si nascondono elementi utili a dimostrare l’innocenza di Massimo Bossetti”.
Non si tratta dell’accesso ai reperti fisici — un nodo che resta ancora aperto dopo il rigetto delle precedenti richieste — ma delle tracce numeriche prodotte all’epoca della maxi-inchiesta, conservate per anni e oggi rese disponibili. Secondo la difesa, il pacchetto di informazioni potrebbe consentire nuove verifiche tecniche su un Dna che, nel processo, ha rappresentato il perno dell’accusa e della condanna.
A distanza di quattordici anni dalla scomparsa di Yara, la vicenda giudiziaria continua dunque a muoversi tra atti, ricorsi e controanalisi. Con l’arrivo dei tracciati, la partita sembra appena riaperta, almeno sul piano tecnico-scientifico. Resta ora da capire se il lavoro dei consulenti porterà davvero elementi tali da sostenere un’istanza di revisione del processo.
Cronaca Nera
Omicidio Meredith, parla Mignini: «Una nuova pista, un nome mai emerso». E riapre il caso di Amanda Knox e Raffaele Sollecito
Giuliano Mignini rivela di aver trasmesso alla Procura un nome inedito. L’ex magistrato non assolve Knox e Sollecito: «Erano gli unici presenti. Circostanze fortunate per loro». Mentre la nuova pista prende forma, tornano dubbi, ferite e domande su uno dei casi più mediatici della cronaca italiana.
Diciotto anni dopo, il caso Meredith Kercher torna a farsi sentire come un eco che non si spegne mai. A riaccendere la miccia è Giuliano Mignini, il magistrato che coordinò le indagini sull’omicidio della studentessa inglese uccisa a Perugia nel 2007. Una dichiarazione, una suggestione, e il fascicolo rientra nell’immaginario di un Paese che quel delitto non l’ha mai davvero archiviato.
Mignini parla di una nuova informazione arrivata di recente: «Una fonte che ritengo affidabile mi ha fatto il nome di un individuo, mai preso in considerazione prima d’ora. Una persona che potrebbe essere implicata nell’omicidio e che scappò all’estero pochi giorni dopo il delitto». Una frase che pesa, perché arriva da chi quella storia l’ha vissuta dall’interno. E perché, per la prima volta, si cita un potenziale nuovo protagonista.
La Procura di Perugia, per ora, non conferma l’apertura di un nuovo fascicolo. Ma Mignini specifica: «Ci sono elementi che potrebbero far pensare che questa persona abbia un qualche coinvolgimento nella vicenda. Ho segnalato la cosa alla Procura di Perugia». Poi un retroscena: «Se avessi conosciuto certi particolari all’epoca, avrei sicuramente approfondito. Purtroppo, per anni, chi sapeva non ha parlato per paura».
Nel frattempo, la storia resta segnata dalla condanna di Rudy Guede — oggi libero — e dall’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito dopo un percorso giudiziario infinito. Una conclusione che Mignini non ha mai considerato soddisfacente. «Le circostanze sono state fortunate per loro», osserva. E aggiunge: «Sicuramente Knox e Sollecito pensano di aver “stravinto” ma la realtà è ben diversa. Bastava che l’avvocato Biscotti non chiedesse il rito abbreviato per Guede e la condanna sarebbe stata certa anche per loro».
Non un’accusa esplicita, ma un’ombra che torna. «Sono stati assolti con formula dubitativa», ricorda l’ex pm. «Gli unici presenti sul luogo del delitto erano con certezza conclamata Amanda Knox e quasi certamente Raffaele Sollecito. Il dubbio è su quello che hanno fatto. Hanno partecipato o sono stati solo spettatori?». Una domanda che sembra avere perso i confini del processo per diventare terreno di memoria, convinzioni personali, ferite istituzionali.
Diciotto anni dopo, Meredith Kercher resta al centro di una storia giudiziaria che continua a interrogare più che a rassicurare. E nell’Italia che osserva questi ritorni, c’è una sensazione sospesa: come se il tempo avesse provato a chiudere una porta che qualcuno, ancora oggi, non riesce a sigillare.
Cronaca Nera
Garlasco, tensione in diretta tra Sciarelli e l’avvocato di Stasi: «Se l’è presa…» E Savu dal carcere accusa: «Andava con tutte»
Durante la puntata è tornato anche l’ex avvocato di Sempio, Massimo Lovati, che ha commentato le indagini sulla presunta corruzione dell’ex pm Venditti: «Un’accusa che fa ridere»
A Chi l’ha visto?, la puntata di mercoledì 5 novembre si è trasformata in un confronto acceso sul caso Garlasco, a 17 anni dall’omicidio di Chiara Poggi.
La conduttrice Federica Sciarelli ha ospitato in studio Antonio De Rensis, avvocato di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata. Ma il clima si è surriscaldato dopo le parole di Flavius Savu, il cittadino romeno rientrato in Italia dopo un mandato di arresto internazionale per estorsione aggravata ai danni dell’ex rettore don Gregorio Vitali.
Le accuse di Savu
Dalla cella, in un audio mandato in onda in esclusiva, Savu ha puntato il dito contro Stasi: «Perché l’ha uccisa? Lui andava con tutte. Chiara Poggi l’ha scoperto e gli aveva detto che avrebbe parlato».
Parole pesanti, che hanno provocato la reazione immediata del legale.
La replica dell’avvocato De Rensis
«La vita di Alberto Stasi è stata vivisezionata durante le indagini – ha detto De Rensis – mentre altre cose sono state guardate velocemente. Alberto era tutto il giorno all’università, impegnato con la tesi. Se avesse avuto un’altra relazione, nel clima colpevolista del 2007 lo avremmo saputo dopo due secondi».
Quando Sciarelli, notando la sua irritazione, gli ha detto «Avvocato, lei se l’è presa», il legale ha ribattuto con fermezza: «No, sono tranquillissimo. Non vedo l’ora che questo signore vada in procura. Credo che non sarà importante ciò che potrà dire, ma ciò che potrà dare. Se ha davvero delle informazioni, le comunichi. Magari se all’epoca fossero state scandagliate tutte le vite come quella di Alberto, oggi non saremmo qui».
Il ritorno di Lovati
La serata ha visto anche il ritorno in video di Massimo Lovati, ex legale di Andrea Sempio, finito di recente al centro di un’indagine per presunta corruzione dell’ex pm Vincenzo Venditti, che nel 2017 aveva archiviato la posizione del suo assistito.
«Non riesco a capire come possa profilarsi un’accusa del genere verso quell’uomo – ha dichiarato Lovati –. Questa indagine è solo un apripista, un grimaldello per arrivare ad altro. Per me, fa ridere».
L’avvocato ha poi ammesso di aver ricevuto compensi per circa 15-16 mila euro dal team difensivo di Sempio: «Andavo a ritirare la mia parte, che veniva consegnata allo studio Soldani. Dividevamo per tre, la matematica non è un’opinione».
Una versione smentita dagli avvocati Soldani e Grassi, che hanno ribadito di non aver mai ricevuto soldi dal loro assistito, ma solo “visibilità”.
A 17 anni dal delitto, il caso di Garlasco continua a sollevare domande, sospetti e nuove tensioni, anche in diretta tv.
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