Cronaca Nera
Todd Kohlhepp, il serial killer delle recensioni su Amazon: il macabro gioco dell’”Amazon Review Killer”
Todd Kohlhepp, agente immobiliare di successo e uomo apparentemente rispettabile, è in realtà un feroce serial killer. Tra il 2003 e il 2016 ha ucciso almeno sette persone, lasciando online recensioni inquietanti sugli strumenti dei suoi crimini. La sua cattura è avvenuta quasi per caso, grazie alla tecnologia e all’intuito degli investigatori.
Todd Kohlhepp era un uomo che, agli occhi di tutti, conduceva una vita di successo. Laureato, agente immobiliare con una carriera in ascesa, carismatico e benvoluto dai colleghi. Ma dietro la maschera dell’uomo d’affari si celava un assassino spietato. Per oltre un decennio ha ucciso senza essere scoperto, riuscendo a nascondere la sua doppia vita fino al 2016, quando un dettaglio inaspettato ha portato gli inquirenti sulle sue tracce: le recensioni lasciate su Amazon.
Sotto nickname anonimi, Kohlhepp recensiva strumenti di tortura, armi, lucchetti e pale con commenti sinistri che, col senno di poi, si sono rivelati vere e proprie confessioni. Frasi come “Perfetta per scavare buche, nessuno troverà mai nulla” o “Tiene bene una persona all’interno, nessuno si è mai lamentato” erano passate inosservate per anni, fino alla sua cattura.
Un’infanzia violenta e un destino segnato
Todd Kohlhepp nasce il 7 marzo 1971 in Florida e cresce tra la Carolina del Sud e la Georgia. L’infanzia è segnata dal divorzio dei genitori e da un rapporto conflittuale con il patrigno. Fin da piccolo mostra un’indole violenta e un’aggressività fuori dal comune: attacca i compagni di scuola, tortura animali, uccide il pesce rosso della famiglia con la candeggina. A nove anni viene ricoverato per tre mesi in una struttura psichiatrica, ma ne esce ancora più isolato e pericoloso.
A 15 anni compie il primo grave crimine: rapisce e stupra una ragazza di 14 anni, Kristie Granado. Dopo averla minacciata con una pistola e legata, la violenta e poi la riporta a casa, minacciandola di morte se avesse parlato. La ragazza trova il coraggio di denunciarlo e Kohlhepp viene arrestato. Nel 1987, riconosciuto colpevole di rapimento aggravato, viene condannato a 15 anni di prigione.
Dal carcere al successo: la vita segreta di un assassino
Nel 2001, dopo aver scontato la pena, Kohlhepp esce di prigione e riesce incredibilmente a rifarsi una vita. Si laurea con il massimo dei voti, ottiene una licenza immobiliare (nonostante il suo passato da stupratore) e diventa uno degli agenti più affermati della Carolina del Sud. Ma dietro l’apparenza di uomo di successo, l’istinto omicida continua a crescere.
Il 6 novembre 2003 commette la sua prima strage: entra nel negozio di motociclette Superbike Motorsports e apre il fuoco, uccidendo quattro persone a sangue freddo. Tra le vittime ci sono il proprietario Scott Ponder, la madre-contabile Beverly Guy, il meccanico Chris Sherbert e l’impiegato Brian Lucas.
Dopo la strage, Kohlhepp non scompare. Anzi, la sua carriera migliora: apre una propria agenzia immobiliare, assume dipendenti e diventa ancora più ricco. Il suo passato violento rimane sepolto, mentre lui continua a seminare morte nell’ombra.
Il rapimento di Kala Brown e la scoperta dell’orrore
L’inizio della fine arriva nel 2016. Il 31 agosto, Kala Brown e il suo fidanzato Charles David Carver scompaiono nel nulla. Le indagini portano alla proprietà di Kohlhepp, dove la polizia fa una scoperta agghiacciante: Kala Brown è ancora viva, incatenata in un container di metallo, prigioniera dell’uomo da settimane.
Accanto alla struttura, il corpo del suo fidanzato giace sepolto. È stato ucciso con diversi colpi di arma da fuoco. Kohlhepp viene arrestato, ma le indagini non sono finite: gli agenti scavano nel terreno e trovano altri due cadaveri, quelli di Johnny Joe Coxie e sua moglie Meagan Leigh McCraw-Coxie, scomparsi nel 2015.
Le recensioni su Amazon: il diario di un assassino
Dopo il suo arresto, gli investigatori analizzano il suo profilo online e fanno una scoperta ancora più inquietante. Kohlhepp aveva lasciato recensioni su Amazon che sembravano veri e propri indizi sui suoi crimini:
- Mazza e pala pieghevole: “Eccellente per scavare buche. Se scavate bene, nessuno troverà mai nulla.”
- Coltello da caccia: “Affilato e letale. Ha tagliato la carne come burro.”
- Lucchetti industriali: “Tiene bene una persona all’interno. Nessuno si è mai lamentato.”
Le recensioni, lette all’epoca con un sorriso, oggi fanno gelare il sangue.
La condanna e la rivelazione finale
Di fronte alle prove schiaccianti, Kohlhepp confessa sette omicidi. In cambio di poter parlare con la madre e trasferire denaro al figlio di un amico, accetta un patteggiamento ed evita la pena di morte.
Condannato a sette ergastoli senza possibilità di libertà vigilata, l’uomo viene rinchiuso nel Broad River Correctional Institution. Tuttavia, prima di essere trasferito in carcere, fa una rivelazione inquietante alla madre: “Non hai abbastanza dita per contare tutte le mie vittime.”
Un dettaglio che lascia aperto il dubbio che ci siano altre vittime mai scoperte.
Le recensioni del killer: la docuserie su Sky Crime
Martedì 21 gennaio, alle 22.00, su Sky Crime e in streaming su Now, andrà in onda Le recensioni del killer, una docuserie in due episodi che ricostruisce la storia di Todd Kohlhepp.
Il documentario esplora il lato oscuro del web e il modo in cui un uomo può nascondersi in bella vista, usando strumenti digitali per confessare senza confessare. Un’indagine che mette i brividi e che spinge a riflettere su come il male possa celarsi ovunque, persino dietro un’innocua recensione online.
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Cronaca Nera
“Corona aveva rapporti con i clan”: le rivelazioni del pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”
William Alfonso Cerbo, 43 anni, ex collettore economico del clan Mazzei di Catania, ha raccontato ai pm della Dda di Milano che Fabrizio Corona “si rivolgeva a Gaetano Cantarella quando aveva problemi su Milano”. Tra i ricordi, una richiesta di “recupero di 70mila euro a Palermo” e una cena con Lele Mora legata all’Ortomercato.
Il pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”, ha chiamato in causa Fabrizio Corona nel corso del maxi processo “Hydra” sulla presunta alleanza tra Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra in Lombardia. Davanti ai pm della Dda di Milano Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, Cerbo ha raccontato di essere stato “collettore economico a Milano del clan Mazzei di Catania” e di aver avuto contatti diretti con il mondo dello spettacolo.
Secondo quanto emerge dai verbali, l’ex re dei paparazzi “si rivolgeva a Gaetano Cantarella, storico affiliato al clan Mazzei, quando aveva problemi su Milano o per un recupero credito di 70mila euro a Palermo legato a una truffa subita da un suo amico”. Cerbo ha anche ricordato che “Corona e Cecilia Rodriguez vennero nella mia discoteca a Catania”, sottolineando come Cantarella avesse rapporti con “diversi personaggi dello spettacolo”.
Nel corso dei sei interrogatori, tra settembre e ottobre, Cerbo – oggi 43enne – ha ammesso la propria “partecipazione al reato associativo” e depositato una memoria di 27 pagine in cui elenca i punti della sua collaborazione con la giustizia. Tra questi, la scomparsa di Cantarella, ucciso nel 2020 in un episodio di lupara bianca su cui indagano i magistrati milanesi.
In un altro capitolo della memoria, Cerbo parla anche di Lele Mora. “Una domenica sera andammo a cena a casa di Lele Mora a discutere di affari all’Ortomercato”, ha raccontato. “Voleva sapere che tipo di frutta avrei potuto fornire, le quantità e i prezzi. Mi disse di avere rapporti stretti con il presidente della Sogemi e che sarei potuto essere utile grazie ai miei prezzi”.
Cerbo sostiene di aver inviato all’ex agente dei vip “il package della frutta in arrivo”, che Mora avrebbe poi girato a contatti all’interno del mercato ortofrutticolo milanese.
L’inchiesta “Hydra” coordinata dalla Dda di Milano mira a ricostruire le connessioni economiche e criminali tra le principali organizzazioni mafiose in Lombardia. E le parole di “Scarface” – tra imprenditori, personaggi televisivi e affari illeciti – aggiungono un tassello inquietante alla trama di rapporti tra mondi apparentemente lontani.
Cronaca Nera
Il mistero del guanto scomparso nel delitto Mattarella: arrestato un ex funzionario per depistaggio
Era una delle prove più importanti dell’inchiesta sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Ma quel guanto, repertato nel 1980 e mai più ritrovato, è ora al centro di un presunto depistaggio. Arrestato l’ex funzionario di polizia Filippo Piritore, presente al sopralluogo.
Un guanto di pelle marrone, da mano destra, ritrovato davanti al sedile passeggero della Fiat 127 usata dai killer di Piersanti Mattarella. È questo il dettaglio che, a 45 anni di distanza, riaccende i riflettori su uno dei delitti più oscuri della storia repubblicana. Secondo la procura di Palermo, quel guanto sarebbe stato fatto sparire da un ex funzionario della Squadra Mobile, Filippo Piritore, arrestato con l’accusa di depistaggio.

La presenza di Piritore sulla scena è attestata da una fotografia della Scientifica scattata durante il sopralluogo, subito dopo il ritrovamento dell’auto utilizzata per la fuga. Secondo la prassi, l’indumento avrebbe dovuto essere repertato e sottoposto ad analisi, ma ciò non avvenne.
E qui inizia la zona d’ombra. Il giorno successivo, il 7 gennaio 1980, Piritore — già in possesso degli oggetti trovati sulla vettura — attribuì al guanto una “destinazione diversa” rispetto al resto del materiale, che venne invece riconsegnato al proprietario della macchina.

Dalla documentazione rinvenuta oggi dalla Squadra Mobile emerge che l’ex funzionario avrebbe inviato il guanto all’allora sostituto procuratore Pietro Grasso, titolare delle indagini, tramite un agente della Scientifica. Una procedura anomala, secondo i magistrati, perché un reperto di quel tipo avrebbe dovuto restare agli esperti della polizia tecnica per le analisi balistiche e biologiche.
“La prassi adottata presenta diverse preoccupanti stranezze”, sottolineano i pm palermitani. Non solo il guanto è sparito, ma non esiste traccia di alcun verbale di consegna o ricevuta firmata dal magistrato o dal suo ufficio.




Per gli inquirenti, quella mancata registrazione rappresenta un passaggio cruciale in un possibile depistaggio volto a cancellare elementi utili per risalire agli autori materiali e ai mandanti del delitto. E quel piccolo oggetto di pelle scura, svanito nel nulla, torna oggi a pesare come un simbolo della verità mancata.
Cronaca Nera
Pamela Genini: il sangue di Milano. Red flag, segnali d’allarme e come intervenire prima che sia troppo tardi
L’omicidio della 29enne modella e imprenditrice ha riaperto il dibattito sui segnali che precedono un femminicidio. Ecco i “campanelli” che non vanno ignorati e cosa fare per proteggersi.
La morte di Pamela Genini, uccisa giovedì sera 14 ottobre nella sua casa a Milano da un uomo che avrebbe cercato di strapparle la vita dopo una discussione degenerata, ha scioccato l’opinione pubblica. I primi elementi, ricostruiti da Sky TG24, da Il Fatto Quotidiano e da altri quotidiani nazionali, riportano che Pamela aveva manifestato la volontà di interrompere la relazione. ‒ L’aggressore, Gianluca Soncin, 52 anni, avrebbe approfittato dell’accesso all’appartamento per poi trascinarla sul balcone e colpirla più volte con un coltello. I vicini hanno sentito le urla e hanno chiamato le forze dell’ordine.
Dietro questa tragedia ci sono segnali già emersi nel passato, che sono spesso ignorati finché non è troppo tardi. Come in molti casi di femminicidio, esistono red flag ‒ segnali d’allarme ‒ che, se riconosciuti, possono permettere un intervento precoce. Ecco quali sono, da cosa derivano e cosa si può fare per prevenirli.
I red flag: segnali che non vanno sottovalutati
Dai fatti noti su Pamela Genini emergono alcuni di questi indicatori:
- Volontà di porre fine alla relazione: quando una persona manifesta la decisione di lasciare o distaccarsi, può generare crisi violente se l’altro non accetta la fine. Nel caso di Genini, la volontà di chiudere era chiara.
- Precedenti litigi, minacce o aggressioni: fonti indicano che la relazione era già nota per tensioni. I vicini avevano sentito urla, e alcune segnalazioni precedenti avevano allarmato.
- Stalking o controllo ossessivo: possesso di chiavi copiate (come emerso nel caso di Soncin che avrebbe fatto copie della chiave di nascosto) è un segno di comportamento coercitivo e invasivo dello spazio personale.
- Violenza improvvisa o escalation rapida: l’aggressione sul balcone, la modalità con cui l’omicidio è avvenuto (trascinamento, uso di coltello multiplo) dimostrano una escalation non moderata.
Altri segnali più sottili che spesso precedono la violenza sono: isolamento sociale, svalutazione o umiliazioni, gelosia eccessiva, controllo degli spostamenti, delle relazioni con amici/famiglia, frequenti richieste di spiegazioni, comportamento imprevedibile.
Perché alcuni red flag vengono ignorati
Ci sono varie ragioni:
- Minimizzazione: la persona affetta da violenza può credere che “non è così grave”, che passerà, che l’altro cambierà.
- Vergogna o senso di colpa: chi subisce può sentire che è colpa sua, o che denuncia significherebbe fallimento personale.
- Dipendenza economica o emotiva: il temere le conseguenze della fine della relazione (isolamento, perdita, solitudine).
- Scarsa conoscenza dei diritti o delle risorse disponibili.
Cosa fare concretamente: prevenire, proteggere, intervenire
- Ascoltare le persone in difficoltà: quando qualcuno parla di paura, di momenti in cui si sente in pericolo, non liquidare il racconto come semplice “drama”.
- Segnalare alle autorità competenti: polizia, carabinieri, numero antiviolenza nazionale 1522. Centri antiviolenza, associazioni come Di.Re sono risorse fondamentali.
- Mettere in sicurezza: cambiare luoghi, rafforzare porte, evitare di restare da sola in situazioni di rischio.
- Cercare sostegno psicologico: la violenza psicologica è spesso precoce e invisibile. Un esperto può aiutare a riconoscere manipolazione e comportamenti abusanti.
- Educazione affettiva: insegnare sin da giovani cosa siano il rispetto, i confini, il consenso. Le scuole e le istituzioni hanno un ruolo cruciale nel costruire modelli relazionali sani.
La riflessione a partire dal caso Genini
La tragedia di Pamela Genini deve spingere non solo all’indignazione ma all’azione concreta. È un promemoria che il femminicidio non è mai un evento isolato, ma l’esito estrema di una serie di segnali ignorati. Secondo dati recenti in Italia, il numero di donne uccise da partner o ex‐partner è in aumento rispetto ai periodi precedenti, con circa più di 50 casi già nel 2025.
Non basta la cronaca, se poi non cambiano le misure: rafforzamento delle leggi, più centri antiviolenza accessibili, formazione delle forze dell’ordine, sensibilizzazione dei medici, insegnanti, amici, parenti.
Il femminicidio di Pamela Genini è una ferita che scuote la coscienza collettiva. Ma è anche un campanello d’allarme per chiunque: i red flag esistono, sono visibili a chi vuole vedere. Non possiamo più permetterci di ignorarli. Ogni segnale va preso sul serio, ogni vittima potenzialmente salvata merita che qualcuno l’ascolti, che qualcuno intervenga.
Perché spesso chi salva una persona è chi osa chiedere: “Stai bene? Hai bisogno d’aiuto?”. Chiedere può davvero fare la differenza.
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