Cronaca Nera
Abusava dei bimbi dell’Azione Cattolica: un nuovo mostro condannato per pedofilia
Campoli si è reso responsabile di una «aggressione alla sfera sessuale delle due vittime connotata da modalità insidiose e fraudolente, approfittando dei pregressi motivi di conoscenza con le vittime, che in lui riconoscevano una persona di famiglia e che per questo vi riponevano incondizionata fiducia».

Mirko Campoli, ex professore di religione e dirigente dell’Azione Cattolica, è stato condannato a nove anni di carcere per abusi sessuali su due minori. I dettagli del caso hanno sconvolto l’opinione pubblica, soprattutto per la sacralità del luogo in cui uno degli abusi è avvenuto: il letto dove aveva riposato Papa Giovanni Paolo II durante una visita alla basilica della Santa Casa di Loreto.
Le testimonianze
Le motivazioni della sentenza, redatte dalla giudice Emanuela Francini del tribunale di Tivoli, riportano testimonianze strazianti delle vittime. Uno dei ragazzi ha raccontato di aver subito l’abuso durante un campo estivo a Loreto: “Io ero impaurito, facevo finta di dormire perché così per me era come se non fosse successo, mi sentivo impotente”. Il ragazzo ha anche riferito che Campoli gli aveva abbassato i pantaloni per scattare fotografie dei suoi genitali con uno smartphone, proprio sul letto che aveva ospitato Papa Wojtyla.
La dinamica degli abusi
Secondo quanto emerso dalle indagini, Campoli ha sfruttato la fiducia che le vittime e le loro famiglie riponevano in lui. La giudice Francini ha descritto le sue azioni come una “aggressione alla sfera sessuale delle due vittime connotata da modalità insidiose e fraudolente”. Gli abusi sono avvenuti su due ragazzi che all’epoca dei fatti avevano 12 e 16 anni, oggi rispettivamente 20 e 23.
Il ragazzo di 12 anni ha subito almeno 50 episodi di violenza sessuale in vari luoghi, tra cui Tivoli e Guidonia, con una frequenza di almeno una volta al mese per quattro anni. Gli abusi sono cessati solo a causa del lockdown. L’altro ragazzo, 16enne all’epoca dei fatti, ha subito abusi durante un campo scuola a Loreto. In sua difesa, Campoli ha cercato di giustificare il suo comportamento adducendo la depressione.
Ulteriori indagini
Oltre alla condanna, Campoli è attualmente sotto indagine in un secondo procedimento per pedofilia. Le nuove accuse riguardano il fratellino della prima vittima, un altro minore di 12 anni, e un bambino di 10 anni ospite di una casa famiglia a Roma.
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Cronaca Nera
Dal frate alla food blogger: che fine hanno fatto i ragazzi di Garlasco, 18 anni dopo il delitto di Chiara Poggi

Diciotto anni fa erano ventenni con l’estate addosso. Adolescenti di provincia, cresciuti tra le scuole e le partite a calcetto nella bassa lomellina. Oggi sono uomini e donne adulti, ciascuno con una vita diversa, più o meno lontana da Garlasco e da quella villetta in via Pascoli. Ma il tempo, nella cronaca, non basta a cancellare. Con le nuove indagini riaperte dalla procura di Pavia sul delitto di Chiara Poggi, è tornata a emergere la rete degli amici di allora: volti noti e meno noti, rimasti nel cono d’ombra di una tragedia mai dimenticata.
Marco Poggi, l’ingegnere silenzioso
Il fratello della vittima, Marco Poggi, oggi vive a Mestre, lontano da Garlasco e da quel dolore che ha segnato per sempre la sua giovinezza. Dopo la laurea in ingegneria, ha scelto l’anonimato. Non ha mai rilasciato dichiarazioni, nemmeno dopo la condanna di Alberto Stasi nel 2015. Le nuove ombre sull’inchiesta, però, lo hanno riportato sotto i riflettori. Per lui il passato non è mai passato.
Andrea Sempio, da “amico di famiglia” a indagato
Andrea Sempio, grande amico di Marco e vicino di casa della famiglia Poggi, è oggi al centro della cosiddetta “pista alternativa”. Vive a Voghera, in una casa di corte, e lavora in un negozio di telefonia a Montebello della Battaglia. Il suo nome riemerse nel 2016, quando un consulente nominato dalla difesa di Stasi trovò nel computer di Chiara una ricerca con il suo nome. Oggi è difeso dall’avvocata Angela Taccia, che da ragazza faceva parte della stessa comitiva.
Angela Taccia, l’amica diventata avvocata
Classe 1988, ex fidanzata di Alessandro Biasibetti, Angela Taccia è oggi protagonista dell’inchiesta: è la legale di Sempio. Un cortocircuito narrativo quasi cinematografico. La ragazza del gruppo, diventata avvocata a Milano, si ritrova a difendere un amico d’infanzia proprio nel caso che ha stravolto la vita di tutta la comitiva.
Alessandro Biasibetti, da oratorio a ordine domenicano
Tra i più religiosi del gruppo, Alessandro Biasibetti era noto per il suo impegno in parrocchia. Oggi è Fra Alessandro, diacono domenicano ordinato a dicembre dello scorso anno. Ha studiato a Pavia e poi a Roma. È rientrato nel caso per via dell’incidente probatorio disposto dalla Procura: anche il suo DNA sarà analizzato, come quello di molti amici dell’epoca.
Roberto Freddi e Mattia Capra, il consulente e il carrozziere
Roberto Freddi lavora oggi come consulente aziendale, mentre Mattia Capra fa il carrozziere, proprio come nel 2007. Entrambi sono stati coinvolti nelle nuove analisi biologiche ordinate dagli inquirenti. Persone normali, vite normali. Ma ancora inchiodate a una pagina di cronaca che non smette di far rumore.
Marco Panzarasa, il miglior amico di Stasi
All’epoca dei fatti era il miglior amico di Alberto Stasi, oggi è un avvocato affermato a Pavia. Anche il suo DNA sarà prelevato nell’ambito dell’incidente probatorio. Mai stato coinvolto direttamente nell’inchiesta, oggi si trova a fare i conti con un passato che torna a bussare con insistenza.
Le gemelle Cappa, tra fotografia e jet set
Paola e Stefania Cappa erano note nei giorni del delitto per quel famoso fotomontaggio davanti alla villetta, diventato simbolo delle “piste alternative” cavalcate dagli innocentisti. Oggi Paola è fotografa e food blogger, si divide tra l’Italia e Ibiza. Stefania, invece, è avvocata dal 2012, lavora nello studio legale del padre a Brera e ha sposato Emanuele Arioldi, campione di equitazione e rampollo della famiglia Rizzoli.
Cronaca Nera
“Mio figlio è innocente”: parla la madre di Alberto Stasi dopo le nuove rivelazioni sul caso Garlasco
“Non ho mai avuto dubbi su Alberto”. A parlare è la madre di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi. Con le nuove indagini su Andrea Sempio, Elisabetta Ligabò rivendica l’innocenza del figlio: “È stato vittima di un errore giudiziario. E ora la verità sta venendo a galla”. Ma tra verità processuali e giustizia morale, il caso è tutt’altro che chiuso.

Un’impronta palmare macchiata di sangue. Bigliettini scritti a mano con frasi inquietanti. Una madre che grida al mondo l’innocenza del figlio. E un paese intero che, diciassette anni dopo, torna a domandarsi: chi ha davvero ucciso Chiara Poggi la mattina del 13 agosto 2007, nella villetta di via Pascoli, a Garlasco?
Mentre la nuova pista investigativa punta su Andrea Sempio, l’amico di Marco Poggi, con nuovi accertamenti dattiloscopici e profili psicologici al vaglio degli inquirenti, Elisabetta Ligabò, madre di Alberto Stasi, rompe il silenzio con parole taglienti: “Quello che sta venendo fuori è sconvolgente. È uno schifo, mi dispiace usare questa parola. Ma è un vero e puro schifo”.
Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima, è detenuto da otto anni, dopo una lunga altalena giudiziaria: due assoluzioni, poi la condanna definitiva a 16 anni per omicidio. E oggi sua madre si dice pronta a battersi fino in fondo per dimostrare quello che ha sempre creduto: “Non ho mai dubitato della sua innocenza. Neppure per un minuto”.
Le novità investigative gettano ombre lunghe sulla verità processuale. L’impronta palmare rinvenuta sul muro delle scale — la cosiddetta “traccia 33” — viene ora attribuita proprio a Sempio da una perizia dei carabinieri del Ris. A questo si aggiunge il ritrovamento, nei rifiuti, di bigliettini scritti da Sempio con frasi inquietanti, come: “Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”. Per gli inquirenti, potrebbe trattarsi di un femminicidio nato da un rifiuto. Una verità alternativa che — se confermata — riscriverebbe tutto.
“Capisco il dolore della famiglia Poggi, lo immagino. Ma questa chiusura nei nostri confronti è incomprensibile”, dice Ligabò. “Non ho mai provato a incontrarli, ma sarei pronta a farlo. Il loro dolore è immenso, ma spero che un giorno si ricredano. Come dovranno fare tutti”.
A chi le chiede un’opinione su Andrea Sempio, la sua risposta è netta: “Io quella persona non voglio nemmeno nominarla. Di lui non parlo, assolutamente”. E sulle nuove perizie? “Sono sconcertata. Ma era tutto scritto fin dall’inizio. È stata un’indagine a senso unico. E ora chi ha sempre difeso quell’impianto accusatorio — anche chi lo firmò, come l’allora comandante del Ris Luciano Garofano — è oggi parte della difesa proprio di Sempio. Una coincidenza? No. È la solita compagnia, unita da sempre contro mio figlio”.
Eppure, c’è una verità giudiziaria che pesa come un macigno: la condanna definitiva all’ergastolo per Alberto Stasi, emessa dalla Corte di Cassazione. “Ma non dimentichiamoci che Alberto è stato assolto due volte. E quella condanna definitiva è arrivata senza prove e senza movente. Nessuno potrà mai restituirgli tutti questi anni rubati alla sua vita”.
Nel frattempo, la famiglia Stasi guarda alle nuove indagini come a un possibile riscatto. La decadenza dell’alibi di Sempio, l’impronta palmare compatibile con la sua mano destra, le telefonate insistenti a casa Poggi, tutto sembra combaciare con un quadro che — se confermato — porterebbe a rimettere tutto in discussione. Ma anche se emergesse una nuova verità, rimarrebbe una domanda: come ha fatto Alberto a resistere?
“Me lo chiedo anche io, da madre. Ha avuto una forza incredibile. Non si è mai lasciato andare. Ha sempre guardato al futuro, con dignità. Ma quello che ha vissuto è vergognoso. E ora basta: la verità va detta fino in fondo”.
Intanto, la procura continua a indagare. E il paese trattiene il fiato. Perché il caso Garlasco non è più solo una tragedia familiare. È diventato lo specchio della giustizia italiana, con le sue crepe, i suoi silenzi e le sue occasioni mancate. E ora, forse, è giunto il momento di voltare davvero pagina.
Cronaca Nera
“Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”: il segreto dei bigliettini di Andrea Sempio
Parole accartocciate e gettate via nella spazzatura. Frasi scritte a penna, recuperate dai carabinieri durante appostamenti notturni. È da lì, dai pensieri buttati, che riemerge un’inquietudine senza nome. E ora l’ombra dell’omicidio di Chiara Poggi si fa più densa.

Il caso Garlasco ha un nuovo epicentro. Non più i gradini della scala dove Chiara Poggi venne trovata priva di vita. Non l’ormai “acquisita” impronta palmare, sporca di sangue, attribuita senza più ombra di dubbio ad Andrea Sempio. Il centro di gravità si è spostato altrove. Nella pattumiera. Lì dove la mente di un sospettato ha trovato sfogo. Nascosto, privato. Ma afferrato al volo da chi da mesi prova a dare un senso alle contraddizioni di un’inchiesta che potrebbe aver accusato — e condannato — l’uomo sbagliato.
I bigliettini. Recuperati in notti silenziose dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, oggi diventano prove documentali. Frasi scritte a mano, poi appallottolate, gettate via. Un gesto che voleva essere liberatorio, ma è diventato rivelatore. Tra tutte, una frase spicca per la sua potenza brutale: “Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”. È una confessione? È uno sfogo generico? O un messaggio in codice scritto per se stesso, da un uomo che da 17 anni convive con un peso che nessuno riesce a decifrare?
Gli inquirenti non lo considerano un dettaglio trascurabile. Tutt’altro. Nella nuova inchiesta condotta dalla Procura di Pavia, questo tipo di manifestazioni autografe viene analizzato con il rigore dei profiler del Reparto analisi criminologiche del Racis. Il messaggio viene esaminato nel suo contesto: un uomo che ha scritto quelle parole, buttandole via, nel momento in cui il suo Dna era tornato al centro delle indagini, la sua impronta era ormai stata identificata, e la sua versione dei fatti iniziava a scricchiolare.
Non è solo il contenuto a colpire. È il rituale stesso dell’atto: scrivere, riflettere, poi cancellare — o credere di poterlo fare — eliminando il foglio nel bidone di casa. Come se quel gesto bastasse a zittire la coscienza. Ma i carabinieri hanno seguito i suoi passi, letteralmente. Appostamenti notturni, recupero dei sacchetti della spazzatura, analisi calligrafica. Ogni frase, ogni brandello di inchiostro, viene passato al setaccio.
C’è chi parla già di “mappa emotiva”. Un tracciato disordinato, affiorato in parole scomposte e non destinate a nessun destinatario. Ma che, lette ora, risuonano come un urlo trattenuto troppo a lungo. Non c’è, è vero, un riferimento diretto a Chiara Poggi. Ma non serve. Perché quella frase — così cruda, così assoluta — è una fenditura. Una crepa dentro la quale si infilano dubbi nuovi, e domande che fanno male.
Chiara è morta il 13 agosto del 2007. Una ragazza giovane, uccisa con una violenza cieca e gettata nel vuoto di una casa divenuta mausoleo del sospetto. Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva per quel delitto, dopo anni di processi, polemiche, revisioni, carte. Ma ora il nome che ritorna con forza è quello di Andrea Sempio, l’amico di Chiara, l’unico che secondo gli investigatori avrebbe potuto entrare nella villetta senza forzature.
Non ci sono più solo le prove tecniche. Ora ci sono anche i fantasmi. Scritti a penna, gettati tra i rifiuti, in un tentativo maldestro di seppellirli. Ma sono riemersi. E ora parlano.
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