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Cronaca

In vendita l’appartamento di Lady Diana a Myfair

La vendita della casa di Lady Diana a Mayfair rappresenta un’occasione unica per possedere un pezzo di storia reale. Allo stesso tempo, l’asta benefica degli oggetti personali di Lady D offre un’opportunità per ricordare il suo impegno sociale e contribuire a una causa nobile. Entrambi gli eventi sottolineano l’eredità duratura della principessa del popolo, ancora amata e ricordata da molti.

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Lady Diana

    E’ ubicata proprio nel cuore del prestigioso quartiere londinese di Mayfair, precisamente in Farm Street, la storica abitazione di Lady Diana Spencer. Questa dimora, che conta cinque stanze distribuite su quattro piani e una superficie di 430 metri quadri, ha un valore di 10,95 milioni di sterline, equivalenti a circa 12 milioni di euro. Ora è stata messa in vendita.

    Più che una casa ha un significato simbolico

    La notizia della vendita è stata diffusa da Sky News e ha subito catturato l’attenzione del Regno Unito, dove il ricordo della “principessa del popolo” è ancora molto vivo. Questo appartamento non solo rappresenta un pezzo di storia reale, ma è anche il luogo in cui Lady Diana conobbe la famiglia di Dodi Al-Fayed nel 1996, un anno prima della tragica morte della coppia.

    Come si compone la proprietà

    Farm Street si trova nel cuore del quartiere Mayfair, di Londra. In precedenza apparteneva alla famiglia Spencer, precisamente alla contessa Raine Spencer, moglie del padre di Diana. Si compone di 5 camere per un estensione di 430 metri quadri suddivisi su 4 piani collegati da un ascensore interno. All’ampio salotto con mobili in mogano si affianca una sala da pranzo elegante, una cucina arredata in bianco. Il salotto è fornito do camino e moquette. L’appartamento prevede anche un terrazzo con suite indipendente all’ultimo piano.

    All’asta gli oggetti di Lady D

    Oltre alla vendita della casa, 50 oggetti iconici appartenuti a Lady Diana verranno messi all’asta per beneficenza organizzata da Julien’s Auctions. Questa collezione, che comprende abiti, accessori e ricordi personali della principessa, sarà venduta al The Peninsula Beverly Hills in California. Il ricavato andrà a favore del Muscular Dystrophy UK.

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      Cronaca

      Il primo Papa americano… e forse anche il primo Papa nero: la sorprendente storia di Leone XIV

      La notizia rimbalza dagli Stati Uniti all’Europa e accende l’interesse globale: Papa Leone XIV, oltre a essere il primo statunitense sul trono di Pietro, sarebbe anche il primo Pontefice con ascendenze afroamericane. Una storia familiare tra fede, migrazioni, pescegatto fritto e cultura creola

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        Se non bastava l’elezione del primo Papa americano a fare la storia, ci ha pensato il New York Times a spingere l’asticella un po’ più in là: Leone XIV potrebbe essere anche il primo Papa nero – o almeno nipote di neri – nella storia bimillenaria della Chiesa. Una storia che ha il sapore delle origini profonde e affascinanti dell’America del Sud, della migrazione, della fede tenace e del soul creolo che ha viaggiato da New Orleans a Chicago, fino al cuore del Vaticano.

        La nonna materna del Pontefice, Louise Baquié, era creola. Il nonno, Joseph Martinez, secondo le ricerche del genealogista Jari C. Honora, era un piccolo proprietario terriero afroamericano del Seventh Ward di New Orleans, quartiere storicamente abitato da cattolici di origine africana e caraibica. Entrambi, agli inizi del Novecento, lasciarono la Louisiana per cercare nuove opportunità a Chicago, portandosi dietro tutto: la lingua francese, la cultura musicale, la cucina del bayou e soprattutto la fede.

        Nato a Chicago nel 1955, Robert Francis Prevost è cresciuto in questo mondo meticcio, devoto e discretamente rivoluzionario. Non ha mai fatto delle sue origini una bandiera. Ma oggi, dopo l’elezione, le sue radici diventano parte di una narrazione nuova, simbolica e potentissima. A confermare i legami con la comunità afroamericana è anche il fratello maggiore, John Prevost, 71 anni, che vive ancora nella periferia della città e ha raccontato al New York Times le origini familiari con la serenità di chi sa che nella diversità c’è identità.

        Non è certo un caso che Leone XIV sia cresciuto tra parrocchie miste, missioni agostiniane e periferie multiculturali. Che parli correntemente spagnolo, predichi in inglese ma risponda in francese. Che la sua visione ecclesiale assomigli a una mappa del mondo, fatta di inclusione, dignità e fratellanza concreta. Il Sud del mondo, con lui, ha trovato una voce al Nord.

        E mentre in America si scatena la corsa a “rivendicare” il Papa – con Trump che brinda a bistecche e miracoli nello stesso giorno in cui Kathleen Kennedy ne rivendica la natura progressista – forse è proprio questa origine ibrida, non lineare, profondamente americana ma figlia di mille storie e di molte lingue, a rendere Leone XIV un Papa impossibile da incasellare. Il Papa dei ponti, non dei muri.

        Alla fine, la sua elezione segna più di un record: è la fine del veto implicito sull’essere “troppo americano” per guidare la Chiesa universale. E forse anche sul colore della pelle. Se Leone XIV è davvero, come dicono, il primo Papa con sangue afro nelle vene, la Chiesa ha fatto un passo in avanti senza proclami, ma con la forza irresistibile della normalità. Con un sorriso, un pasto condiviso e un “Oh, ok” detto al fratello al telefono. E con la benedizione di un pescegatto fritto in salsa creola, da New Orleans a San Pietro.

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          Politica

          La “santa” si veste da trumpiana: Santanchè difende il tycoon e punge Marina Berlusconi

          Marina Berlusconi aveva parlato di “preoccupazione” per l’impatto del tycoon sull’ordine mondiale. Santanchè risponde piccata: “Non si giudica un alleato. Trump? Esagera, ma è una strategia”. Un messaggio indiretto anche a Giorgia Meloni, che sul rapporto con il repubblicano punta tutto.

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            Una frizione tutta interna al centrodestra, giocata sul terreno più internazionale che ci sia: Donald Trump. Da una parte Marina Berlusconi, preoccupata e scettica sul ritorno del tycoon; dall’altra Daniela Santanchè, che invece corre a difenderlo a spada tratta, vestendo i panni – neanche troppo metaforici – della trumpiana di ferro.

            “Non mi sembra giusto intervenire a gamba tesa con giudizi sul presidente degli Stati Uniti”, ha dichiarato la ministra del Turismo. “Sono un nostro alleato con il quale, a prescindere da chi è al potere, dovremo avere rapporti assolutamente buoni”. Parole che suonano come una risposta diretta alla presidente di Mondadori e Fininvest, che appena ieri aveva criticato duramente il ritorno di Trump alla Casa Bianca, parlando di “certezze del dopoguerra messe in crisi” e di un colpo “durissimo alla credibilità dell’America e dell’Occidente”.

            La replica della Santanchè, per molti, non è solo una difesa d’ufficio degli equilibri atlantici, ma anche un messaggio politico: al centrodestra, certo, ma anche a Giorgia Meloni, che coltiva da mesi la sua “special relationship” con il leader repubblicano, convinta che possa rappresentare un’opportunità di rilancio per i rapporti Italia-USA.

            “La comunicazione di Trump? A volte spara grosso – ha aggiunto la ministra – ma forse è una sua tecnica. Vedremo con il tempo i risultati”. Un modo per legittimare l’ex presidente e, al tempo stesso, mandare un segnale chiaro: in casa FdI c’è spazio per una linea filoamericana, purché sia realista e pragmatica.

            Marina Berlusconi, che ha appena ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del lavoro, sembra invece parlare più con l’anima moderata dell’elettorato che con il cuore del partito. Il suo allarme sulla tenuta dell’ordine mondiale trova eco in ambienti economici e diplomatici, ma meno tra chi – come Santanchè – considera strategico mantenere rapporti solidi con Washington, indipendentemente da chi ci abita.

            La battaglia sul tycoon è solo all’inizio. E nel centrodestra, a ogni “America first”, corrisponde ormai una risposta molto italiana.

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              Cronaca

              Papa Leone XIV a Leolandia: la foto “profetica” davanti alla San Pietro in miniatura fa il giro del web

              L’immagine è riemersa dai social dopo l’elezione al soglio pontificio: il futuro Leone XIV, allora giovane religioso in visita a Minitalia, posa proprio davanti alla miniatura della basilica di San Pietro. Un dettaglio che ha fatto sorridere molti fedeli e che oggi assume un sapore quasi profetico. “Una giornata d’estate nella Bergamasca che oggi diventa memoria simbolica”, raccontano da Leolandia.

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                A sinistra, il giovane Robert Francis Prevost. A destra, l’amico e compagno di vocazione Padre Lenzi. Alle loro spalle, una fedele riproduzione in scala della basilica di San Pietro. E sopra tutto, il sole di un’estate italiana degli anni Settanta. È questa la fotografia che sta facendo il giro del web in queste ore, dopo l’elezione al soglio pontificio del cardinale statunitense, oggi Papa Leone XIV. Lo scatto, custodito per anni nei ricordi privati di un’amicizia religiosa, è stato pubblicato sul gruppo Facebook del Santuario di Santa Rita da Cascia a Milano e rilanciato poi da Leolandia, il parco divertimenti di Capriate San Gervasio, in provincia di Bergamo, dove si trova l’area Minitalia con la celebre miniatura della basilica vaticana.

                “Per noi è un grande onore poter condividere questa fotografia – spiega Giuseppe Ira, presidente di Leolandia – che da semplice ricordo si è trasformata in una testimonianza preziosa e inaspettata. È un segno che ci lega idealmente al messaggio di pace e di speranza espresso da Papa Leone XIV nel suo primo discorso”. Un messaggio che nel piccolo universo fantastico del parco a tema per bambini trova eco: “Come parco che accoglie ogni giorno famiglie e bambini – continua Ira – ci sentiamo particolarmente vicini a quei valori di ascolto, accoglienza e cura per le nuove generazioni. E oggi più che mai, con questa fotografia, avvertiamo una responsabilità in più nel coltivarli”.

                La foto, datata 1971, ritrae il futuro Papa durante una giornata trascorsa nella Bergamasca, a Leolandia, quando ancora il parco era noto solo come “Minitalia” e si proponeva di raccontare l’Italia attraverso le sue architetture iconiche. La riproduzione di San Pietro, in particolare, ha colpito l’immaginazione dei fedeli e dei commentatori: che il giovane Prevost, allora religioso agostiniano in visita nel Paese dei suoi antenati, si trovasse proprio lì, davanti alla copia in scala esatta della basilica da cui oggi guida la Chiesa universale, è sembrato a molti un segno del destino. Un dettaglio da cartolina, certo, ma anche uno spunto di riflessione sul misterioso intreccio di casualità e vocazione.

                A rendere più significativo lo scatto è la presenza di Padre Lenzi, figura ben nota nella comunità religiosa milanese, che ha condiviso con Prevost momenti di formazione, di preghiera e di amicizia. È stato proprio lui a recuperare e pubblicare la foto, accompagnandola con parole affettuose che rievocano il valore di quel legame umano, prima ancora che ecclesiale. “Eravamo in gita, spensierati, e quel giorno – ha raccontato – non avremmo mai immaginato che uno di noi sarebbe diventato Papa. Ma la vita, quando è guidata dalla fede, sa sorprendere”.

                Una sorpresa che oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, assume i contorni di una favola vera: quella di un ragazzo americano con il cuore diviso tra Chicago e l’Italia, che un giorno si ritrova davanti a San Pietro… per gioco. E che oggi, nella realtà, quella porta l’ha varcata davvero.

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