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Cronaca

INCHIESTA SUL CALCIO (3° parte) Il lato oscuro della Curva Nord: i retroscena dell’omicidio di Antonio Bellocco

Dalle carte dell’inchiesta sugli ultras emerge un retroscena inquietante: il tentato omicidio tra i vertici della Curva Nord dell’Inter e la morte di Antonio Bellocco, rampollo di ‘ndrangheta e capo ultras. Una storia di potere, denaro e vendette che scuote gli equilibri del tifo milanese e svela legami profondi con la criminalità organizzata.

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    Tra le carte dell’inchiesta che ha portato in prigione 19 capi ultras di Milan e Inter, emerge un nuovo capitolo che getta luce su un omicidio efferato, specchio di un mondo dove potere, denaro e violenza si intrecciano con il tifo organizzato. Si tratta dell’assassinio di Antonio Bellocco, capo ultras e rampollo di una potente famiglia ‘ndranghetista, ucciso lo scorso 4 settembre in un regolamento di conti. L’ordinanza, accompagnata da una nota integrativa, rivela i dettagli di una vicenda che non si limita solo alla faida interna alla Curva Nord dell’Inter, ma che si estende fino ai vertici della criminalità organizzata calabrese.

    Il contesto: il mondo degli ultras e i legami con la ‘ndrangheta

    Il mondo degli ultras è spesso un microcosmo che riflette dinamiche sociali, economiche e criminali molto più complesse di quanto si possa immaginare. La Curva Nord dell’Inter, così come quella del Milan, è un territorio dove si intrecciano passione calcistica, controllo del territorio e interessi economici. A fare da collante tra questi elementi, troppo spesso, è la violenza. Quando si parla di Curva Nord, non si fa riferimento solo a un gruppo di tifosi organizzati: si entra in un ambiente che vede coinvolti criminali di spessore, in particolare legati a cosche mafiose e ‘ndranghetiste, che vedono nello stadio un luogo ideale per esercitare potere e controllo.

    Antonio Bellocco era uno di questi uomini. A capo di una famiglia mafiosa di spicco, con una lunga tradizione criminale alle spalle, Bellocco era riuscito a inserirsi nel direttivo della Curva Nord dell’Inter dopo la morte di Vittorio Boiocchi, storico leader ultras assassinato nel 2022. Il suo arrivo aveva rimescolato gli equilibri di potere all’interno della curva, portando con sé i metodi della ‘ndrangheta: intimidazione, violenza e una gestione ferrea degli affari legati al merchandising e al tifo.

    L’ordinanza che svela il piano: denaro e potere dietro l’omicidio

    Una delle chiavi per comprendere l’omicidio di Antonio Bellocco è la gestione del merchandising della curva, una vera e propria miniera d’oro per chi ne detiene il controllo. Tra le carte dell’inchiesta emerge una nota integrativa all’ordinanza di arresto, che svela i dettagli di un piano omicida orchestrato con precisione. Tutto comincia il 27 luglio scorso, durante una riunione decisiva tenutasi nel garage di Bellocco, a Pioltello, in provincia di Milano. Alla riunione partecipano figure di spicco del mondo ultras, tra cui Andrea Beretta, capo della Curva Nord, e Marco Ferdico, altro nome influente del gruppo. È in quel momento che Beretta comprende che c’è un piano per ucciderlo.

    Il rancore che Bellocco nutriva nei confronti di Beretta era legato alla gestione del negozio di merchandising della curva, “We Are Milano”, un’attività che generava profitti significativi. Secondo Bellocco e Ferdico, Beretta stava trattenendo una parte dei proventi senza condividerli con gli altri membri del triumvirato che controllava la curva. Una delle proposte discusse durante la riunione del 27 luglio era l’apertura di un nuovo punto vendita, questa volta in via Casoretto, a Milano, un progetto che avrebbe garantito nuovi flussi di denaro.

    La nota dell’ordinanza rivela però che, a seguito della morte di Bellocco, quel progetto fu rapidamente cancellato. Ferdico inviò un messaggio chiaro: “La proposta stipulata nei giorni scorsi… firmata… relativamente al negozio… alla locazione del negozio di via Casoretto… vi comunico che ci troviamo costretti a dover annullare con decorrenza immediata la proposta… poiché uno dei soci è venuto a mancare… che doveva stipulare il contratto… tragicamente scomparso… vengono a mancare i presupposti per l’inizio di una nuova attività”.

    Le minacce e il piano omicida: Beretta nel mirino

    Andrea Beretta non era nuovo a situazioni di pericolo. In diverse occasioni, il capo ultras dell’Inter era stato vittima di tentativi di omicidio falliti, sempre legati al controllo economico della curva e alla gestione del merchandising. Durante l’interrogatorio, Beretta ha raccontato di essere stato convocato, tra giugno e luglio, a casa di Bellocco, dove venne sottoposto a minacce concrete. In particolare, due emissari della famiglia Bellocco – uno dei quali presentato come un latitante – lo avevano avvertito direttamente, intimandogli di cedere il controllo del negozio e degli introiti della Curva Nord.

    Nelle settimane successive alla riunione del 27 luglio, la situazione si era fatta sempre più tesa. Beretta sapeva di essere in pericolo, ma non immaginava che la violenza sarebbe esplosa con tale rapidità. Il 4 settembre, infatti, accade l’irreparabile: durante un violento scontro a Cernusco sul Naviglio, è Beretta a colpire mortalmente Bellocco con due coltellate alla gola. La faida, che sembrava dover culminare con la morte di Beretta, si era ribaltata in modo tragico e inaspettato.

    Chi era Antonio Bellocco: un boss in ascesa

    Per comprendere la portata dell’omicidio di Antonio Bellocco, è necessario fare un passo indietro e analizzare il profilo del boss. Bellocco, 36 anni, era un esponente di spicco della ‘ndrangheta, figlio di Giulio Bellocco, storico boss calabrese condannato per associazione mafiosa e detenuto al 41 bis. La famiglia Bellocco ha da sempre esercitato un controllo capillare sul territorio di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, e Antonio era destinato a seguire le orme paterne. Il suo arrivo in Lombardia, a fine 2022, coincise con un periodo di grande trasformazione per la Curva Nord dell’Inter. La morte di Vittorio Boiocchi, ucciso a colpi di pistola nel 2022, aveva lasciato un vuoto di potere che Bellocco non tardò a riempire.

    Il legame tra la criminalità organizzata e il mondo ultras non è un mistero, ma l’ingresso di Bellocco nella Curva Nord segnò un passo ulteriore. Il boss portò con sé i metodi della ‘ndrangheta, imponendo il controllo sulle attività economiche legate al tifo, in particolare il merchandising, e ridisegnando gli equilibri all’interno del gruppo. Bellocco era un leader temuto e rispettato, capace di imporsi con la forza e l’intimidazione, ma anche abile nel tessere alleanze strategiche all’interno del mondo ultras.

    La guerra per il potere: Beretta e il destino della Curva Nord

    Dall’altro lato della barricata c’è Andrea Beretta, 49 anni, capo ultras dell’Inter e figura controversa. Beretta non è nuovo a episodi di violenza. La sua carriera nel mondo ultras è stata segnata da scontri fisici, arresti e condanne. Già condannato per aver aggredito un ambulante napoletano nel 2022, Beretta ha accumulato una serie di Daspo e denunce per la sua condotta violenta. Tuttavia, la sua leadership nella Curva Nord è rimasta salda, soprattutto dopo la morte di Boiocchi.

    Beretta è stato descritto dagli inquirenti come una figura centrale nella gestione economica della curva, e il suo controllo sul merchandising era una delle principali fonti di attrito con Bellocco. Le intercettazioni raccolte dagli investigatori mostrano un uomo disposto a tutto pur di mantenere il potere e difendere i propri interessi. “A me tutte ste cose qua: la mentalità non me ne frega un cazzo, la mia vita gira intorno al guadagno”, dice Beretta in una conversazione intercettata con Renato Bosetti, un altro leader degli ultras.

    La morte di Bellocco apre ora nuovi scenari di violenza all’interno della Curva Nord. Con la scomparsa del boss, i fragili equilibri di potere che tenevano insieme il gruppo rischiano di crollare definitivamente, aprendo la strada a nuovi conflitti per il controllo delle attività economiche e del potere all’interno del mondo ultras.

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      Mondo

      Khaby Lame espulso dagli USA. Invidia o sgarbo? L’influencer Maga rivendica il merito

      Bo Loudon, amico di Barron Trump, afferma di aver orchestrato l’espulsione del tiktoker: “Nessuno è al di sopra della legge”.

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        C’è del clamore mediatico attorno alla recente espulsione dagli Stati Uniti di Khaby Lame. Il popolare tiktoker italo-senegalese, che con il suo stile minimalista ha conquistato oltre 162 milioni di follower, è stato preso di mira. Dietro il provvedimento della sua espulsione c’è un nome sorprendente: Bo Loudon. Il giovane influencer legato alla famiglia Trump, presunto migliore amico di Barron, figlio minore dell’ex presidente è noto per la sua vicinanza ai circoli conservatori americani. Loudon ha rivendicato apertamente di aver avuto un ruolo determinante nell’espulsione. In una serie di post su X, ha dichiarato di aver “preso personalmente provvedimenti” per far sì che il 25enne venisse fermato. Ha lavorato “con i patrioti dell’amministrazione Trump” per ottenere l’arresto del tiktoker all’aeroporto di Las Vegas.

        Loudon vs. Lame. una rivalità tra Tiktoker?

        Secondo le autorità, Lame sarebbe rimasto oltre la scadenza del suo visto temporaneo. Lame è entrato negli USA il 30 aprile per partecipare al Met Gala a New York il 5 maggio. E’ stato fermato dagli agenti dell’US Immigration and Customs Enforcement (ICE) il 6 giugno allo scalo Harry Reid. Gli è stata concessa la “partenza volontaria”, lasciando così il Paese senza ulteriori conseguenze legali. Loudon, da parte sua, esulta per l’operazione: “Nessuno lavora più velocemente dell’amministrazione Trump“, ha scritto, sottolineando il ruolo che lui e Barron Trump avrebbero avuto nel garantire l’applicazione della legge.

        Dal comitato elettorale a poliziotto

        L’influencer di Palm Beach, nonostante la giovane età, è stato reclutato ufficiosamente nel team elettorale di Donald Trump. Il suo compito è quello di intercettare il voto della Generazione Z e il cosiddetto “bro vote”, ovvero il consenso dei giovani uomini americani. Ma dietro questo attivismo politico, alcuni vedono anche un velato sentimento di invidia. Lame è una star internazionale, mentre Loudon, pur vicino ai circoli di potere, resta una figura controversa e di nicchia. Il sospetto che questa espulsione sia stata motivata più da personalismi che da una reale emergenza legale è stato sollevato da diversi osservatori, soprattutto in un momento in cui Trump è alla ricerca di consensi tra i giovani. E Lame che fa? Risponderà? Forse sceglierà il silenzio e un’espressione sarcastica per dire tutto senza dire nulla.

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          Storie vere

          La donna con la barba più giovane al mondo è Harnaam Kaur, Guinness World Records nel 2016.

          Soffre della sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), una patologia che può causare, tra le altre cose, una crescita eccessiva di peli (irsutismo).

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            La storia di Harnaam Kaur è una vera e propria rivoluzione. Questa donna britannica di 34 anni, affetta dalla sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), ha trasformato la sua caratteristica più evidente – la barba – in un simbolo di forza e autoaccettazione. Harnaam non è solo un’icona visiva, ma soprattutto una voce potente nel movimento body positivity. L’ovaio policistico è una espressione di una complessa alterazione funzionale del sistema riproduttivo. Una alterazione dovuta all’aumento degli ormoni maschili (androgeni), causa di segni e sintomi quali: irsutismo (eccesso di peluria su viso e corpo), e alopecia androgenetica (acne e calvizie di tipo maschile).

            La bellezza della diversità

            Fin dall’infanzia, Harnaam ha affrontato il bullismo e il giudizio sociale per il suo aspetto. Inizialmente, come molte persone che si sentono diverse, ha cercato di conformarsi, radendosi la barba per adeguarsi agli standard tradizionali di bellezza femminile. Tuttavia, questo non ha fatto altro che accrescere il suo disagio interiore. La svolta è arrivata quando ha deciso di abbracciare la sua unicità e smettere di lottare contro la sua natura. Ha trasformato quella che molti consideravano una debolezza in un punto di forza, trovando nella sua barba non un motivo di vergogna, ma una “corona” da indossare con fierezza.

            Un’attivista per l’autoaccettazione

            Oggi, Harnaam Kaur è una delle voci più influenti nel mondo della body positivity. Attraverso i social media e le sue apparizioni pubbliche, trasmette un messaggio chiaro. Ovvero che la bellezza non è un concetto rigido e predefinito, ma un’espressione autentica di sé. Il suo motto, “Non abbiamo bisogno di rientrare in schemi per essere belli”, è un invito a chiunque si senta inadeguato rispetto ai modelli imposti dalla società. La sua storia ha ispirato migliaia di persone a rivalutare il proprio valore personale, al di là delle etichette. Harnaam ha collaborato con importanti brand di moda impegnati a promuovere la diversità, sfidando gli stereotipi e dimostrando che la bellezza risiede nella fiducia in se stessi.

            Per Harnaam Kaur un messaggio di coraggio e amore per sé

            Molto più di una semplice detentrice di un record mondiale – riconosciuto ufficialmente dal Guinness World Records nel 2016 – l’esistenza e il coraggio di Harnaam Kaur dimostrano che la vera forza sta nell’accettarsi e nell’amarsi incondizionatamente. Un esempio che insegna quanto non si debba permettere agli altri di definire chi siamo o quanto valiamo. Nel suo percorso, Harnaam ha trasformato la sua esperienza personale in un movimento più ampio, aiutando chiunque si senta escluso o giudicato a trovare la forza di essere se stesso.

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              Mondo

              “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre”: il racconto dell’unico sopravvissuto alla strage di Ahmedabad

              “Non so come sia possibile, ma sono uscito vivo da lì”. Si chiama Vishwash Kumar Ramesh, ha 40 anni, la cittadinanza britannica e una famiglia a Londra. È l’unico sopravvissuto al disastro del Boeing Air India precipitato ad Ahmedabad. Il volo, diretto nel Regno Unito, si è schiantato poco dopo il decollo, provocando 240 morti. Il suo racconto, tra dolore e incredulità, arriva da un letto d’ospedale, dove è ricoverato con ustioni al volto, al petto e agli arti.

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                Vishwash non riesce a darsi una spiegazione, e forse non la troverà mai. Il boato, le fiamme, il buio, poi il silenzio. “Si è capito che qualcosa non andava a pochissimi secondi dal decollo”, ha raccontato. Prima un forte rumore, poi lo scoppio, un tonfo improvviso. E in un attimo, tutto intorno a lui è stato fuoco. Non c’è stato il tempo per gridare. Né per pensare.

                Era seduto al posto 11A, accanto al portellone di emergenza. Forse è stato questo a salvarlo. Quando ha riaperto gli occhi, era ancora vivo. Ustionato, confuso, ma vivo. “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre, tra lamiere e corpi senza vita, cercando disperatamente un’uscita”. In tasca aveva ancora la carta d’imbarco. L’ha mostrata ai soccorritori come se fosse un talismano, una prova fisica di un passaggio rimasto inspiegabilmente aperto tra la vita e la morte.

                Nelle sue parole, spezzate dalla fatica e dal dolore, c’è un’immagine che torna più volte: quella dei passeggeri davanti a lui. Un’hostess, una coppia di anziani, e suo fratello Ajay. “Sono morti tutti davanti ai miei occhi”, ha detto. Il fratello, 45 anni, era accanto a lui. Viaggiavano insieme, di ritorno da una breve visita ai parenti. Avevano preso quel volo per tornare a casa, in Gran Bretagna, dove vivono da vent’anni. Uno solo è sopravvissuto.

                Il racconto prosegue come un sogno spezzato. “Mi muovevo quasi senza capire. C’erano pezzi dell’aereo ovunque, fumo, odore di carburante. A un certo punto ho visto qualcuno venirmi incontro. Poi l’ambulanza”. L’aereo, carico di cherosene per il lungo viaggio, ha preso fuoco subito dopo l’impatto con un edificio nei pressi dell’aeroporto. Era un ostello per studenti di medicina: tra le vittime, almeno cinque giovani che dormivano nelle stanze investite dalle lamiere.

                Vishwash ha provato a ricostruire quei secondi prima dello schianto. Secondo lui, qualcosa è andato storto appena dopo il decollo. “Sembrava che l’aereo si fosse fermato a mezz’aria. Poi ho visto accendersi luci verdi e bianche. I piloti hanno cercato di riprendere quota, ma non c’è stato niente da fare. È andato giù di colpo, a tutta velocità”. Quando l’aereo si è inclinato, il caos ha preso il sopravvento. I passeggeri si sono stretti ai sedili, molti hanno urlato. Lui ha stretto la cintura, poi il resto è venuto da sé.

                Dall’ospedale civile di Asarwa, dove è ricoverato, Vishwash ha parlato con un cronista del quotidiano Hindustan Times, ma anche con i giornalisti di NDTV. Ha raccontato tutto, senza cercare un senso. “La morte di mio fratello spezzerà il cuore alla nostra famiglia. Io ringrazio gli dei per il miracolo che mi ha salvato, ma porterò per sempre nel cuore questa tragedia”.

                Il posto 11A, accanto alla porta d’emergenza, è diventato un simbolo. Lo citano i medici, i cronisti, i soccorritori. È lì che sedeva l’unico sopravvissuto di un volo che non doveva finire così. È lì che, tra fumo, fuoco e lamiere, si è aperto un varco impossibile tra la fine e la vita.

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