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Italia

“Anto’, fa caldo, meglio non lavorare”: scatta lo stop al lavoro all’aperto per 3 milioni di italiani (e forse per una volta ha ragione pure il governo)

Dalle 12.30 alle 16 si fermano cantieri, magazzini e campi: si teme per la salute dei lavoratori, dopo diversi malori e un operaio in coma a Vicenza. Intanto la ministra Calderone riscopre la cassa integrazione anti-afa e promette un protocollo tra imprese e sindacati

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    “Anto’, fa caldo, meglio non lavorare”. E per una volta non è solo un meme o un modo per svicolare da un trasloco. È diventata realtà: in 15 regioni italiane sono scattate ordinanze che vietano o limitano il lavoro all’aperto nelle ore più roventi della giornata, tra mezzogiorno e le 16. Una pausa forzata che interessa oltre tre milioni di persone e che, dati alla mano, potrebbe perfino salvare qualche vita. Perché con 40 gradi percepiti e l’asfalto che scotta più di un barbecue ferragostano, parlare di “emergenza climatica” non è più un esercizio accademico, ma una questione di sopravvivenza.

    Il primo a muoversi è stato il Piemonte: ordinanza firmata, valida fino al 31 agosto. Seguono a ruota Lazio, Emilia-Romagna, Campania, Sardegna, Sicilia, Toscana, Puglia e via dicendo. Mancano all’appello solo Valle d’Aosta (dove evidentemente resistono al sole armati di stambecchi), Molise (che ci sarà, ma non si vede) e Trentino Alto Adige, dove la brezza montana mitiga. Il Friuli Venezia Giulia e le Marche sono in dirittura d’arrivo.

    A essere coinvolti dallo stop sono soprattutto lavoratori dell’edilizia, della logistica, dell’agricoltura e del florovivaismo. Insomma, chi la fatica la conosce per davvero. Le costruzioni impiegano 1,7 milioni di persone, la logistica oltre un milione, l’agricoltura circa mezzo milione. A questi si sommano gli addetti ai lavori stagionali, bersagliati dai 40 gradi tanto quanto dalle paghe da fame.

    Secondo uno studio pubblicato su “Environmental Research”, e citato da Collettiva-Cgil, ogni estate l’Italia conta almeno 4mila infortuni da caldo. E non sempre si tratta di giramenti di testa o colpi di sole risolti con un ghiacciolo. A Vicenza, pochi giorni fa, due operai si sono sentiti male mentre lavoravano all’interno di una cisterna d’alluminio: uno dei due è ora in coma, ricoverato in rianimazione. A Bagheria, nel Palermitano, una donna cardiopatica è morta dopo essere svenuta in strada.

    Così, sotto la pressione sindacale e davanti ai numeri inaccettabili, anche il governo ha fatto qualcosa di sensato (sì, hai letto bene). La ministra del Lavoro Marina Calderone ha annunciato la firma imminente di un protocollo con imprese e sindacati: prevede il ricorso facilitato alla cassa integrazione per chi deve sospendere l’attività a causa del caldo, anche nel lavoro stagionale. Un paracadute che sarà attivabile anche con semplice ordinanza locale. Non è la rivoluzione francese, ma è un inizio.

    Le linee guida recepite dalle Regioni fissano parametri internazionali per stabilire le fasce orarie da evitare e invitano a ridurre al minimo l’esposizione diretta al sole. Raccomandate anche le rotazioni dei turni, per non mandare al collasso gli operai nei cantieri o nei magazzini, dove il calore si somma all’umidità come in una sauna finlandese ma senza idromassaggio.

    Francesca Re David, della Cgil, chiede però una soglia fissa per legge, così da rendere automatica l’attivazione delle misure. E la deputata dem Chiara Gribaudo rilancia: “Non servono interventi spot, ma una risposta strutturale. I cambiamenti climatici non sono più emergenze, sono la nuova normalità”.

    Nel frattempo, tra un decreto e una raffica di bollini rossi su mezza penisola, si scopre che anche un paese come il nostro – che si muove di solito solo dopo la tragedia – può imparare a fermarsi prima che sia troppo tardi. E se per una volta l’afa diventa più forte del precariato, c’è quasi da ringraziare il termometro.

    Perché il diritto a non morire di caldo sul lavoro dovrebbe essere scontato. Invece, serve un’ondata bollente e un operaio in coma per ricordarcelo.

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      Italia

      L’Oca trionfa nel Palio di Siena: Tittia su Diodoro doma la mossa e vince tra passione, storia e leggenda

      Con una corsa mozzafiato, la contrada dell’Oca ha vinto il Palio 2025 grazie alla maestria di Tittia e al cuore di Diodoro. Dietro la vittoria, mesi di preparazione, antichi riti, tensioni e sogni condivisi. È il trionfo di una comunità, di un’identità. Il Palio non è solo una corsa. È un destino.

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        Alla fine ha vinto l’Oca. Giovanni Atzeni, detto Tittia, ha portato Diodoro al trionfo nel Palio di Siena del 3 luglio 2025. Una gara serrata, corsa con il cuore in gola, vinta all’ultimo respiro davanti a una Piazza del Campo gremita e palpitante.

        Dopo il rinvio per maltempo, l’attesa è stata ripagata da una corsa intensa, avvincente, che ha tenuto tutti col fiato sospeso fino all’ultimo metro. Tre giri furiosi di tufo e adrenalina, un boato che ha scosso la città, e poi la gioia esplosiva della contrada dell’Oca, che ha visto il proprio cavallo tagliare per primo il traguardo.

        Il Palio non è solo una corsa di cavalli. È una religione civile, un rito antico che trasforma Siena due volte l’anno in un teatro epico, dove ogni contrada diventa un popolo, ogni fantino un eroe, ogni cavallo un simbolo. Si corre per onore, per identità, per passione. E chi vince non alza solo un drappellone: alza un pezzo d’eternità.

        Quest’anno, ancora una volta, il fantino più titolato della piazza ha fatto la differenza. Tittia ha dimostrato sangue freddo, strategia e un legame perfetto con Diodoro. Dopo una mossa lunga e tesa, con i cavalli nervosi e la tensione alle stelle, è scattato al momento giusto, ha tenuto la testa della corsa e non l’ha più mollata. Una vittoria costruita con mestiere e cuore.

        Dietro a quei tre giri c’è molto di più. Ci sono mesi di preparazione, cene nelle contrade, alleanze segrete, benedizioni solenni, accordi, strategie. Ogni scelta pesa, ogni dettaglio conta. Ma poi, quando il canapo si abbassa, tutto si annulla. Contano solo il coraggio, l’istinto e la capacità di leggere la piazza come un libro aperto.

        La contrada dell’Oca ora festeggia, con il Drappellone firmato dall’artista in trionfo tra le vie, i canti, le bandiere, i botti. È un momento che resterà impresso nella memoria collettiva, nei racconti, nelle foto, nei sogni dei bambini che oggi hanno imparato che vincere il Palio è il massimo che un senese possa desiderare.

        Ma il Palio, alla fine, appartiene a tutta Siena. Anche a chi ha perso, a chi ha lottato, a chi ci ha creduto fino all’ultimo. Perché a Siena non si corre per lo spettacolo: si corre per il sangue, per l’identità, per sentirsi vivi. E per sapere che, in fondo, qui la storia non è mai finita. Sta solo aspettando il prossimo giro.

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          Italia

          L’incubo di Angelina Mango: lo stalker patteggia, ora vivrà in comunità terapeutica

          Dopo mesi di ossessione e violazioni, l’uomo che perseguitava la cantante e sua madre è stato condannato: per lui due anni e dieci giorni, poi la comunità.

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            Per Angelina Mango, vincitrice del Festival di Sanremo 2024 e figlia del compianto Pino Mango e della cantante Laura Valente, si chiude un capitolo doloroso. Un capitolo che ha segnato la sua vita privata negli ultimi mesi. Il 47enne che l’ha perseguitata con insistenza, trasformando la sua quotidianità in un incubo, ha patteggiato una condanna a due anni e dieci giorni di reclusione. L’uomo, affetto da disturbi psichiatrici e giudicato parzialmente incapace di intendere e di volere, era stato arrestato dopo aver ignorato ripetutamente le misure restrittive imposte nei suoi confronti.

            Dall’ammirazione alla pericolosa ossessione

            Tutto è iniziato come una forma di ammirazione, ma ben presto si è trasformata in un’ossessione pericolosa. Lo stalker ha tempestato Angelina e sua madre di messaggi, telefonate, lettere e raccomandate, arrivando a cercare un contatto diretto, presentandosi nei pressi della loro abitazione. Nonostante i domiciliari e il divieto assoluto di comunicazione imposto nel febbraio 2024, l’uomo ha continuato a inviare messaggi, ignorando ogni limite e alimentando un clima di paura e tensione.

            In detenzione domiciliare fino a ottobre…

            La giudice per le indagini preliminari di Milano, Sonia Mancini, ha accolto la richiesta di patteggiamento presentata dalla difesa dell’uomo e dalla procura. La pena sarà scontata inizialmente in detenzione domiciliare fino a ottobre, dopodiché scatterà un periodo di libertà vigilata con obbligo di residenza in una comunità terapeutica nel Ferrarese. Lì, l’uomo resterà finché l’équipe psicosociale non riterrà che sia pronto per un eventuale reinserimento.

            Un momento di svolta per la Mango

            Per Angelina Mango, che ha affrontato la vicenda con discrezione e forza, la sentenza rappresenta un momento di svolta. Dopo mesi di silenzio e preoccupazione, la giovane artista è tornata a mostrarsi serena in pubblico, partecipando a eventi musicali e condividendo momenti di leggerezza sui social. Questa vicenda solleva ancora una volta l’attenzione su un tema delicato. Quello dello stalking ai danni di personaggi pubblici, spesso donne, che si trovano esposte a forme di violenza psicologica e minacce da parte di individui che confondono l’ammirazione con il possesso.

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              Italia

              “Tu gusti is meglio che uan”? Oddio mi si è ristretto il Maxibon

              Una lettera virale a Stefano Accorsi riaccende i ricordi di un’intera generazione e denuncia con ironia la shrinkflation che ha colpito anche il gelato più iconico degli anni ’90.

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                C’era una volta il Maxibon, quello vero, quello che ti faceva saltare la merenda e pure la cena. Una sleppa di gelato che ti si scioglieva tra le mani e ti faceva sentire parte di una generazione che aveva ancora sogni grandi. E gelati ancora più grandi. Oggi, invece, ti ritrovi con un “mini bon” che sembra uscito da una confezione di campioncini da supermercato. A lanciare il grido di dolore (e di fame) è stato Emiliano Miliucci, autore di una lettera aperta diventata virale, indirizzata a Stefano Accorsi, volto indimenticabile dello spot cult “Tu gusti is meglio che uan”.

                Nel suo post, Miliucci racconta con ironia e un pizzico di malinconia l’esperienza di aver comprato un Maxibon nel 2025. Per scoprire che il gelato della sua adolescenza si è rimpicciolito fino a diventare quasi simbolico. “Quando ho aperto sto gelato m’è preso un coccolone”, scrive, “non era un Maxibon, era un mini bon. Tu gusti che non ne fanno manco uan”. E con quella frase, ha colpito dritto al cuore di tutti i nati negli anni ’80 e ’90, quelli cresciuti con Ambra, Max Pezzali. E non solo. Anche la Pausini de La solitudine e, ovviamente, con Accorsi che faceva il provolone con due ragazze in spiaggia.

                Il post non è solo una lamentela sul gelato che si è ristretto, ma una riflessione amara e divertente sulla shrinkflation e su come, nel tempo, ci abbiano tolto un po’ tutto. Il welfare, la sanità pubblica, le certezze… e pure i gelati. Ma almeno, dice Miliucci, “il gelato avrebbero potuto lasciarcelo”. Accorsi, oggi impegnato sul set del nuovo film di Gabriele Muccino, ha raccontato in passato che quello spot fu il primo momento in cui venne riconosciuto per strada. “Mi hanno fermato urlando il nome del gelato”, ha detto a Verissimo, ricordando anche di averne mangiati così tanti durante le riprese da ritrovarsi con i denti in fiamme.

                A 54 anni oggi Accorsi sfoggia un fisico invidiabile e una carriera solida, ma per molti resterà per sempre il ragazzo del Maxibon. E forse è proprio questo il punto: mentre tutto cambia, si restringe e si complica, abbiamo bisogno di simboli che ci riportino a un tempo in cui bastava un gelato per sentirsi felici. Anche se ora quel gelato è diventato più piccolo, il ricordo resta gigante.

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