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Italia

Il fisco scopre le sex worker. Ma tassare la prostituzione senza legalizzarla serve solo a chi le sfrutta

Con la nuova classificazione Istat, entrata in vigore ad aprile, anche escort e accompagnatori finiscono nei codici di attività economica. Ma senza un vero quadro normativo, il rischio è che il fisco legittimi lo sfruttamento. Scoppia la polemica politica. E le sex worker restano, come sempre, invisibili.

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    Ci risiamo. Il tema è uno di quelli che ciclicamente torna a galla, come una corrente carsica che affiora ogni volta che si parla di tasse, legalità e diritti. Stavolta a scatenare il dibattito è una sigla tecnica, apparentemente neutra: Ateco 96.99.92. Una riga in più in un documento Istat. Ma una riga che scotta. Perché per la prima volta viene esplicitamente inserito nella classificazione ufficiale delle attività economiche un codice che riguarda i cosiddetti “servizi sessuali”, comprese le attività di escort, accompagnatrici e accompagnatori, e persino — testuale — la “organizzazione di eventi di prostituzione o gestione di locali di prostituzione”.

    Una scelta che apre a conseguenze rilevanti, non solo sul piano statistico. Il codice Ateco è infatti la chiave per classificare le attività produttive italiane ai fini fiscali, previdenziali e contributivi. Tradotto: chi si iscrive con quel codice, in teoria, può essere chiamato a versare l’Irpef e l’Iva. Il che apre un paradosso, anzi più d’uno.

    In Italia, la prostituzione in sé non è un reato. Ma lo è tutto ciò che la circonda: favoreggiamento, induzione, sfruttamento. E poiché manca qualsiasi legge che ne disciplini l’esercizio — come avviene in altri Paesi europei, dalla Germania all’Olanda — chi si prostituisce non ha alcun vero strumento per operare legalmente. Né tutele. Né sicurezza. Né diritti.

    Quindi, chiedersi se sia possibile tassare un’attività che non è vietata ma che non è nemmeno regolamentata, è una di quelle acrobazie legislative tutte italiane. E non è un caso se la notizia, anticipata dai documenti Istat sulle classificazioni 2025, ha subito sollevato una valanga di critiche. Da sinistra, ma anche da una parte del mondo femminista e dell’associazionismo.

    «Se confermato, sarebbe grave che il fisco prevedesse nei nuovi codici l’organizzazione di servizi sessuali», ha dichiarato Alessandra Maiorino, senatrice del M5S. «La prostituzione non è illegale, ma tutto ciò che la favorisce sì. Ed è esattamente questo che si rischia di legittimare, dal punto di vista fiscale». Anche Luana Zanella, capogruppo Avs alla Camera, affonda: «La destra è tutta Dio, Patria e Famiglia, ma quando si tratta di incassare legittima la prostituzione. Così si favorisce il racket».

    L’Istat ha provato a gettare acqua sul fuoco, spiegando che non si tratta di un via libera all’esercizio del mestiere, ma solo di una ridefinizione tecnica, necessaria per adeguare la classificazione alle normative internazionali. L’implementazione, ha precisato, riguarderà solo operatori che già svolgono attività legali, e quindi non comporta né sanatorie né riconoscimenti automatici per chi lavora nel mercato del sesso. Una puntualizzazione doverosa, ma che non scioglie il nodo politico.

    Perché è proprio lì, nel vuoto normativo, che si annida il problema. Mentre alcuni paesi europei hanno scelto la via della regolamentazione, con registri, licenze, controlli sanitari e tutele lavorative, l’Italia è ferma al 1958, anno della legge Merlin che abolì le case chiuse ma non ha mai previsto un modello alternativo. Il risultato? Un sistema ipocrita in cui il lavoro sessuale è tollerato, ma lasciato alla completa mercé del mercato e delle sue forme più brutali.

    Il mercato del sesso nel nostro Paese, secondo le stime più prudenti, vale circa 4,7 miliardi di euro l’anno. Una cifra enorme, che fluttua nel sommerso, tra tratta, sfruttamento, ricatti, migrazioni e violenza invisibile. Non esistono in Italia cooperative di sex worker come in Germania, né club regolati come nei Paesi Bassi. E chi prova a lavorare in modo autonomo e consapevole — poche decine di casi — lo fa senza alcuna protezione, in un limbo legale.

    Il nuovo codice Ateco, dunque, non cambia nulla per chi si prostituisce. Né offre nuove tutele, né legalizza davvero l’attività. Ma crea uno strumento fiscale che — in assenza di un vero riconoscimento — rischia di diventare una foglia di fico per chi sfrutta e controlla, trasformando le sex worker in soggetti economici da cui pretendere tasse, senza dare nulla in cambio.

    In fondo, come spesso accade in Italia, si fa finta di non vedere. Si preferisce ipotizzare di incassare, piuttosto che affrontare una questione scomoda: se sia giusto o no riconoscere che il lavoro sessuale esiste, che va normato, protetto, sottratto alla criminalità. Perché è proprio quel vuoto, non il codice Ateco, a essere pericoloso. Ed è lì che si continua a far finta di nulla.

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      Italia

      Perché l’8 dicembre l’Italia si ferma davvero: la verità sull’Immacolata

      In Italia l’8 dicembre è un giorno di festa nazionale e segna l’inizio delle celebrazioni natalizie. Ma qual è l’origine di questa ricorrenza e perché è così importante per la tradizione cattolica?

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      Perché l’8 dicembre l’Italia si ferma davvero: la verità sull’Immacolata

        L’8 dicembre, ogni anno, l’Italia si ferma. Le scuole chiudono, molti uffici restano serrati e le città si riempiono di luci e decorazioni: per molti è l’inizio “ufficiale” del Natale. Ma questa festività, riconosciuta come giorno festivo nazionale, ha una storia molto più profonda che affonda le radici nella teologia cristiana.

        Il significato religioso dell’Immacolata Concezione

        Contrariamente a un equivoco comune, questa festa non riguarda il concepimento di Gesù, bensì quello di Maria. La dottrina cattolica afferma che la madre di Cristo sia stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante della sua esistenza. Una credenza presente nel cristianesimo da secoli, ma che divenne verità di fede soltanto il 8 dicembre 1854, quando Papa Pio IX proclamò solennemente il dogma con la bolla Ineffabilis Deus.

        Questa convinzione attribuisce a Maria un ruolo unico nel disegno di salvezza: essere un grembo “puro”, pronto ad accogliere il Figlio di Dio. È per questo che l’Immacolata è tra le feste mariane più sentite e celebrate in tutto il mondo cattolico.

        Una tradizione popolare radicatissima

        Nel corso del tempo la festa è uscita dalle sole mura ecclesiastiche per diventare un appuntamento amato dalla comunità civile. In Italia, grazie alla forte tradizione cattolica, l’Immacolata è riconosciuta come festività nazionale: una giornata di pausa che coincide con la voglia di prepararsi al Natale.

        In moltissime famiglie si approfitta dell’8 dicembre per fare l’albero di Natale e addobbare la casa: un rituale che, pur non avendo origini religiose, è entrato a pieno titolo nella tradizione del Paese. Nelle piazze più importanti vengono accese le luminarie, e nelle parrocchie si inaugurano presepi e mercatini.

        A Roma, ogni anno, il Papa rende omaggio alla statua della Vergine in Piazza di Spagna, un gesto di devozione che si ripete dal 1953 e che attira fedeli e curiosi da tutto il mondo. In molte città italiane si svolgono processioni, incontri di preghiera e celebrazioni comunitarie.

        La festa che unisce fede e identità culturale

        L’Immacolata Concezione rappresenta un crocevia tra patrimonio religioso e costume sociale: per chi crede, è la celebrazione della purezza e dell’amore materno; per tutti gli altri, è l’occasione per vivere una giornata di tradizioni, in famiglia o con gli amici, alle porte del Natale.

        In un mondo che corre veloce, l’8 dicembre ci ricorda l’importanza della memoria collettiva e dei simboli condivisi. Perché, al di là della fede personale, questa data continua ad essere un momento di unione: un punto di partenza per entrare nel clima natalizio, con quel mix di sacralità, festa e calore che da sempre contraddistingue la cultura italiana.

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          Italia

          Taccheggio e scontrini falsi: rubare al supermercato non è mai “solo un errore”

          Chi tenta di uscire con la merce senza pagare rischia pene severe: dal carcere fino a tre anni (o molto di più in caso di aggravanti), alla multa e al possibile divieto di ritorno nel punto vendita.

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          Taccheggio e scontrini falsi: rubare al supermercato non è mai “solo un errore”

            Scontrino fasullo e taccheggio: il caso di Rho

            Il 27 novembre 2025, un fatto ha sollevato l’attenzione mediatica: a un punto vendita Esselunga di Rho è stata denunciata una tecnica di furto che prevedeva l’uso di uno “scontrino fasullo”. Secondo quanto riportato, una persona avrebbe tentato di portare via merce per circa 700 euro senza pagarla, usando un documento di acquisto alterato o falso. Il caso — riportato da media locali — ha scatenato discussioni sul fenomeno del taccheggio e sui rischi reali per chi commette simili reati.

            Ma non si tratta di un’eccezione: supermercati e grandi magazzini, oggi, sono quasi sempre dotati di videocamere, varchi antitaccheggio, addetti alla sicurezza e sistemi digitali di sorveglianza. In molti casi, basta un movimento sospetto — come uscire dal cancello delle casse senza passare alla cassa o con un carrello “parzialmente” pagato — per attivare la segnalazione ai vigilanti.

            Chi pensa di “farla franca” sbaglia: la legge italiana è chiara e molto dura verso chi sottrae merce esposta alla vendita senza pagarla.

            Cosa prevede la legge

            Il reato che si commette quando si ruba in un supermercato è disciplinato dall’Articolo 624 del Codice Penale: chiunque si impossessa di una cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, con l’intenzione di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con una multa da 154 a 516 euro.

            Tuttavia, quando il furto avviene in un negozio o in un supermercato — ovvero su “cose esposte alla pubblica fede” — può configurarsi l’ipotesi del furto aggravato. In questo caso, la pena aumenta, spesso con reclusione da 2 a 6 anni e multa da 927 a 1.500 euro.

            In più, molte condotte tipiche di chi tenta di rubare — come occultare la merce, usare stratagemmi o nascondere prodotti — aggravano ulteriormente la posizione.

            La normativa prevede che, in questi casi, il reato diventi procedibile d’ufficio: non servirà una querela del negoziante o del proprietario, basta la segnalazione della vigilanza o la denuncia da parte di chiunque abbia assistito al fatto.

            Infine, la giurisprudenza recente — ad esempio una ordinanza del 2025 — ha confermato che anche quando il furto non viene portato completamente a termine (cioè si viene fermati prima di uscire), la registrazione video può essere sufficiente per considerarlo tentativo di furto e procedere penalmente.

            Non è solo questione di soldi: conseguenze reali

            Chi viene scoperto a rubare in un supermercato rischia molto più che una notte in cella. Le conseguenze possono includere:

            • incarcerazione e multa;
            • procedura penale con iscrizione nel casellario giudiziario;
            • possibile richiesta di risarcimento del danno da parte del negoziante;
            • divieto di ritorno nel punto vendita, per un periodo determinato o addirittura permanente.

            Inoltre, la “colpa sociale” può essere alta: un furto commesso in un negozio pubblico — specie di generi alimentari — danneggia non solo il commerciante, ma chi paga regolarmente e vede lievitare i prezzi.

            Conclusione: la furbata ritorna indietro

            Alla luce di quanto previsto dalla legge e delle pratiche sempre più sofisticate adottate dai supermercati, usare trucchetti come “lo scontrino fasullo” non è una dimostrazione di furbizia, ma un salto nel buio. Videocamere, monitoraggio elettronico, controlli alla barriera delle casse: sono tutti strumenti che rendono il furto molto più rischioso di quanto chi lo commette immagini.

            In più, le pene — anche per piccoli furti — non sono trascurabili. E la giustizia in Italia non guarda solo al valore della merce: una confezione di valore modesto può tradursi comunque in una condanna, come confermato da sentenze recenti della Corte di Cassazione.

            Insomma: rubare al supermercato non è una scelta intelligente, ma un’azione che può complicarti la vita — ben più di quanto vale la spesa che avresti cercato di evitare.

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              Italia

              Prospero Pica di ABP Partners: “Il core banking decide chi sopravvive”

              Resilienza digitale, dati, rischi e processi: la trasformazione non è informatica ma strutturale. La chiave, spiega Prospero Pica, è far seguire la tecnologia alla banca e non il contrario. Italia e Svizzera accelerano perché senza un core moderno cloud, AI e personalizzazione restano solo promesse.

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                La digitalizzazione bancaria in Europa sta entrando in una fase completamente nuova. Dopo anni in cui l’attenzione si è concentrata soprattutto sulle app, sulla qualità dell’esperienza utente e sui servizi online, nel 2025 i consigli di amministrazione stanno guardando molto più in profondità. Il nuovo terreno di investimento è il core banking, cioè il cuore tecnologico della banca: il sistema che gestisce conti, movimenti, prodotti finanziari, dati dei clienti, controlli e report.

                Si tratta di un ritorno deciso al “motore”, spinto sia da ragioni economiche sia da nuove regole che stanno ridisegnando il settore. Il primo elemento che ha accelerato questa corsa è normativo. Dal 17 gennaio 2025 sarà pienamente operativo il regolamento europeo DORA, il Digital Operational Resilience Act. È una normativa che chiede alle istituzioni finanziarie una resilienza digitale molto più elevata, più controllo sul rischio ICT e una gestione rigorosa dei fornitori tecnologici. Anche molte banche svizzere, pur non facendo parte dell’Unione Europea, si stanno adeguando: operano con clienti europei o sono connesse al mercato comunitario e non possono permettersi di restare indietro.

                In termini concreti, DORA rende evidente un problema che il settore porta con sé da anni: sistemi troppo vecchi, pieni di integrazioni costruite nel tempo, diventano instabili e difficili da controllare. Questo aumenta i rischi operativi, complica la tracciabilità dei dati e rende più fragile la continuità dei servizi. È qui che nasce la necessità di tornare al core.

                Il secondo fattore è economico. I margini bancari sono sotto pressione, i costi aumentano e la concorrenza di fintech e digital bank è sempre più forte. I vecchi sistemi centrali, monolitici e stratificati, rallentano tutto: il lancio di nuovi prodotti, la capacità di personalizzare i servizi e perfino l’utilizzo di tecnologie come cloud e intelligenza artificiale. Per questo oggi la modernizzazione del core non è più una scelta tecnica ma una condizione per restare competitivi.

                In questo scenario si inserisce l’analisi di Prospero Pica, fondatore di ABP Partners ed esperto internazionale di project management bancario. La sua lettura è semplice e molto diretta: «La modernizzazione del core non è un progetto IT, è una trasformazione di banca». Prospero Pica ripete un principio che sta diventando centrale: «La tecnologia deve seguire la banca, non sostituirla. Il cuore del cambiamento è il DNA bancario».
                Il messaggio è chiaro: cambiare il core non significa solo installare un nuovo software, ma ridisegnare processi, controlli, responsabilità e perfino il modo in cui la banca prende decisioni e gestisce i rischi.

                Ed è anche il motivo per cui molti progetti falliscono. L’errore più comune, spiega Prospero Pica, è partire dalla piattaforma e poi cercare di adattare la banca al software scelto. L’approccio corretto è l’opposto: prima si definiscono governance, processi critici, requisiti regolatori e obiettivi di business; solo dopo si configura la tecnologia. In altre parole, è la banca a guidare la scelta tecnica, non viceversa.

                Secondo l’analisi di Prospero Pica, tre elementi stanno facendo davvero la differenza nei progetti più maturi. Il primo è la qualità dei dati: senza una data governance solida, anche il miglior sistema resta scollegato dalla realtà operativa. Il secondo è l’adozione di architetture modulari e basate su API, che permettono di evolvere velocemente senza ricostruire tutto ogni volta. Il terzo è la gestione del rischio operativo: la transizione deve essere governata dal business almeno quanto dall’IT, perché la resilienza richiesta da DORA non ammette passi falsi.

                Per Italia e Svizzera la direzione è quindi tracciata: il core banking è tornato al centro e sarà la leva decisiva per efficienza, innovazione e solidità. Il punto evidenziato da Prospero Pica resta il più importante: non conta solo quale tecnologia scegli, ma come governi la trasformazione. In un’Europa in cui DORA rende più pesante la responsabilità digitale, la tecnologia non può sostituire la banca. Può solo seguirla, rafforzandone il DNA operativo.

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