Italia
Molestie e stalking nel caseificio: capoturno condannato. L’operaia Angelina ritrova la sua dignità
Angelina Castrignano, vittima di molestie sul lavoro, trova giustizia: il capoturno condannato a tre anni di carcere. Per la vittima la fine di un incubo e l’inizio di una nuova vita.

«La fine di un incubo. Giustizia è stata fatta». Con queste parole Angelina Castrignano, 50 anni, di Pinerolo, celebra la sentenza che ha condannato il suo ex responsabile di turno a tre anni di carcere per stalking e violenze sessuali. Dopo anni di paura e umiliazioni, Angelina può finalmente tornare a vivere.
Una molestia dopo l’altra lo stalking è durato anni
Divorziata e madre di due figli ormai adulti, Angelina lavorava come addetta al confezionamento formaggi in un caseificio. Nel maggio 2022, dopo un primo mese di lavoro tranquillo, il suo responsabile ha iniziato a molestarla. Dapprima con tocchi sulla spalla, poi sulle cosce, fino a episodi più gravi come palpeggiamenti e minacce. «Mi seguiva ovunque – racconta Angelina – al supermercato, sotto casa. Convivevo con la paura». Nonostante le colleghe minimizzassero gli abusi, considerandoli «normali» per mantenere il lavoro, Angelina ha deciso di denunciare prima ai superiori e poi ai carabinieri.
Un calvario lungo e difficile
«Mi diceva che comandava lui e che, se non avessi fatto quello che voleva, non mi avrebbero rinnovato il contratto. Io volevo solo essere rispettata». Le molestie si sono trasformate in stalking, con il responsabile che la seguiva persino in bagno e la minacciava. «Mi sentivo umiliata e abbandonata, anche dall’azienda». Il 9 aprile, la giustizia ha finalmente dato ragione ad Angelina. La gup Angela Rizzo ha accolto la richiesta della pm Antonella Barbera, condannando l’imputato a tre anni di carcere con rito abbreviato. «Questa sentenza mi restituisce la mia dignità di donna e mi permette di ricominciare a vivere», ha dichiarato Angelina, che ora può guardare al futuro con speranza.
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Italia
Plasmon torna italiana dopo 50 anni: il biscotto dell’infanzia rientra a casa
Il gruppo emiliano NewPrinces rileva lo storico marchio dai colossi americani di Kraft Heinz. Un ritorno al made in Italy che sa di rivincita industriale (e sentimentale)

Dopo cinquant’anni trascorsi all’estero, Plasmon torna italiana. Lo storico marchio di biscotti per l’infanzia – icona dolce di generazioni di bambini e segreto inconfessabile per molti adulti – è stato acquistato dal gruppo emiliano NewPrinces (ex Newlat Food), che ha rilevato le attività italiane di Heinz per una cifra vicina ai 120 milioni di euro.
A vendere è stato il colosso statunitense Kraft Heinz, che dal 1967 controllava Plasmon e che ora cede non solo il marchio madre, ma anche altri brand come Nipiol, BiAglut, Aproten e Dieterba, tutti specializzati nell’alimentazione infantile e dietetica. Il cuore produttivo dell’operazione è lo stabilimento di Latina, dove ogni anno vengono sfornati 1,8 miliardi di biscotti, omogeneizzati e pappe.
Fondata nel 1902 a Milano dal medico Cesare Scotti, Plasmon è stata per decenni un punto fermo della tavola italiana, soprattutto durante il boom demografico del dopoguerra. Complice la pubblicità in Carosello e le scatole di latta diventate oggi oggetto vintage, il marchio ha conquistato una fiducia senza tempo.
La vendita alla Heinz americana, avvenuta negli anni Sessanta, aveva segnato l’inizio di una lunga fase di internazionalizzazione, ma anche di distacco emotivo dal territorio. Ora, grazie a NewPrinces, il brand fa ritorno in mani italiane. Una mossa non solo industriale ma anche simbolica, che parla di filiere locali, know-how nazionale e voglia di riportare valore a casa.
Lo stabilimento di Latina, considerato tra i più avanzati d’Europa nel settore, continuerà a produrre anche per il mercato britannico, almeno per un periodo transitorio. Ma il controllo, questa volta, torna sotto bandiera tricolore.
NewPrinces – già attiva con brand storici come Polenghi e Delverde – punta così a rafforzare la propria posizione nel comparto baby food. In un mercato da 200 milioni di euro di fatturato e un margine operativo lordo di circa 17 milioni.
Una buona notizia, per una volta. Che sa di latte caldo, biscotti e orgoglio nazionale.
Italia
Dallo stupro di gruppo al profilo su OnlyFans: la nuova vita (e le nuove domande) di Asia Vitale
La ragazza simbolo del caso Palermo si mostra oggi senza filtri su OnlyFans. Rivendica il controllo sul proprio corpo. Ma tra emancipazione e contraddizione, resta l’amaro dubbio: stiamo assistendo a una rinascita o a una nuova forma di esposizione?

Due anni fa il suo nome è diventato simbolo. Asia Vitale, la ragazza di Palermo violentata da sette ragazzi in un cantiere abbandonato, oggi riappare sotto una luce diversa: quella di una webcam. Dopo la chiusura del suo profilo Instagram e il calo dei follower, ha aperto un nuovo canale su OnlyFans. Si chiama AsiaVitale3.0 e propone contenuti sessuali a pagamento. Tutto legale, tutto consenziente, tutto rivendicato.
“Il corpo è mio”, dice. “Chi ha problemi con questo mestiere dovrebbe cambiare mentalità”. Eppure, la sua storia personale rende difficile ignorare la frattura tra passato e presente. Dopo aver subito un’aggressione brutale e aver vissuto anni in comunità per allontanarsi da una famiglia che lei stessa definisce “tossica”, oggi Asia monetizza la propria immagine, il proprio corpo, la propria sessualità.
Non c’è giudizio, ma c’è stupore. Non si tratta di negare la libertà di scelta, ma di registrare una contraddizione che interroga chi osserva. Come si arriva, da una violenza così feroce, a scegliere di mettersi di nuovo sotto gli occhi di tutti, stavolta per guadagnare?
“Ho rimosso le loro facce”, dice parlando dei suoi aggressori. “Cerco solo di andare avanti”. Racconta di un rapporto con il sesso profondamente cambiato, più consapevole, più adulto. Ma confessa anche un trauma più recente: un sequestro subito a Ballarò, da parte della madre di uno degli accusati, che voleva costringerla a ritirare la denuncia.
Oggi lavora in un hotel a Courmayeur e prova a costruirsi una nuova vita. OnlyFans la aiuta a far quadrare i conti, ma non garantisce stabilità. I video vengono pagati, ma possono anche essere rivenduti illegalmente. Un’altra forma di sfruttamento, di cui Asia è perfettamente consapevole.
Il suo è un racconto di sopravvivenza. Ma anche una domanda aperta: dopo tutto questo dolore, davvero la libertà passa ancora per l’esposizione del corpo?
Italia
Bibbiano, processo demolito: il mostro non esisteva, ma intanto lo avevano già impiccato in piazza
Doveva essere l’inchiesta del secolo, il complotto delle élite rosse che rubavano i bambini. Invece si è rivelato un gigantesco castello di carte: assoluzioni a pioggia, accuse smontate, reati prescritti. Ma niente paura: qualcuno, da qualche parte, urla ancora “Bibbiano!”.

Il processo più discusso degli ultimi anni si è chiuso con un verdetto che ribalta tutto. Il caso Bibbiano, diventato simbolo di presunti affidi illeciti orchestrati da una rete tra servizi sociali e terapeuti, esce demolito dalla sentenza di primo grado. Dei 14 imputati, solo tre sono stati condannati. Tutti gli altri assolti, molti con formula piena. La “macchina degli orrori” raccontata per anni, tra allontanamenti forzati e abusi mai avvenuti, semplicemente non c’è.
È quanto ha stabilito il tribunale collegiale di Reggio Emilia. Federica Anghinolfi, l’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, su cui pendeva una richiesta di 15 anni di carcere, è stata condannata a 2 anni per falso ideologico, pena sospesa. Stessa sorte per il suo collaboratore Francesco Monopoli (un anno e otto mesi) e per la neuropsichiatra Flaviana Murru (cinque mesi). Niente più. Le accuse più gravi – come l’associazione per delinquere e la manipolazione dei minori – si sono sgretolate.
Un colpo durissimo per l’accusa, che aveva ipotizzato un sistema radicato e cinico: terapeuti che costruivano falsi ricordi di abusi, relazioni manipolate per sottrarre bambini alle famiglie, affidi gestiti con logiche distorte. Le indagini erano state lunghe, oltre cento i capi di imputazione. Ma in aula quella narrazione non ha retto. I giudici hanno smontato punto per punto l’impianto accusatorio, parlando, in molte assoluzioni, di fatti “che non sussistono”.
Il pm Valentina Salvi aveva costruito il caso insieme ai carabinieri, sostenendo che gli operatori dei servizi sociali della Val d’Enza falsificassero le relazioni sui minori per farli allontanare dalle famiglie. Ma il processo ha mostrato falle, forzature, testimonianze non sempre coerenti. E ha restituito una verità ben diversa da quella immaginata.
Sul piano politico, il caso Bibbiano era diventato un campo di battaglia. Ma oggi, davanti a una sentenza che svuota il teorema accusatorio, resta una domanda scomoda: quanto ha pesato la spettacolarizzazione mediatica su una vicenda che, forse, non avrebbe mai dovuto essere un processo simbolico?
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