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Italia

Referendum 2025: un flop con affluenza al 30%. Governo rafforzato o democrazia indebolita?

I referendum 2025 si concludono con un dato inequivocabile: nessuno dei cinque quesiti referendari ha raggiunto il quorum del 50%+1 degli aventi diritto. Mezz’ora fa, alla chiusura dei seggi, l’affluenza parziale si attestava a circa il 30%. Un risultato che conferma il trend negativo di partecipazione popolare ai referendum abrogativi in Italia. Riaccendendo il dibattito sull’utilità di questo strumento democratico.

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    Per il momento le reazioni più veloci sono state quella da parte del mondo di centro-destra. Il primo a gridare vittoria è Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “Il governo Meloni esce rafforzato, la sinistra indebolita”. Per Fazzolari, l’astensione è un chiaro segnale di fiducia all’esecutivo. Differente la disamina di Matteo Salvini, che ribadisce il no a una “cittadinanza facile” con un perentorio “la cittadinanza non è un regalo”. Anche Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, difende l’astensione come legittima scelta democratica.

    Renzi e Calenda: referendum ideologici e poco chiari

    Renzi definisce i quesiti sul lavoro “ideologici”, mentre Carlo Calenda – nonostante le difficoltà con la tessera elettorale – ha voluto votare: “È un dovere civico, ma questi referendum ci lasciano perplessi”. Vincenzo De Luca esprime una personale nota critica: “Strumento non adatto a temi complessi. Servono soluzioni parlamentari e collaborazioni, non scontri ideologici.”

    Ma chi ha votato davvero?

    Secondo un’analisi del sito YouTrend, a votare sono stati soprattutto i cittadini dei grandi centri urbani, più istruiti e multiculturali. Nelle città con oltre 100.000 abitanti, l’affluenza ha superato il 27%, con picchi nei comuni con una percentuale significativa di laureati e stranieri residenti.

    Parte la raccolta firme verso l’abolizione del quorum

    Nel frattempo, il comitato “Basta quorum!” ha depositato una proposta di legge costituzionale per abolire il quorum nei referendum abrogativi, ritenuto ormai uno strumento “anacronistico e dannoso per la partecipazione”. La raccolta firme è già attiva online tramite SPID o CIE.

    Sensibilità civica in crisi o strumento da riformare?

    Il Referendum 2025 ripropone una domanda cruciale per la nostra democrazia: l’astensione è un diritto o una strategia per disinnescare il voto? Mentre il governo festeggia un risultato a suo favore, cresce la consapevolezza generale che il meccanismo referendario vada riformulato, in nome di una partecipazione più inclusiva e rappresentativa.

    Che cosa è costata questa tornata referendaria

    Il ripensamento incontra anche la linea della razionalizzazione delle risorse economiche, espressa dai “non voto”. Consultando i documenti ufficiali, ovvero, il Dl 27/2025 (anche noto come decreto elezioni), approvato dal governo Meloni, si parla di un costo di 1.030 euro a sezione, su un totale di 61.591 sezioni e di 185 euro per ciascuno dei 1492 seggi speciali allestiti, ad esempio, negli ospedali. Ci sono, poi, gli elettori all’estero (5,3 milioni) per i quali il decreto del Consiglio dei Ministri ha ipotizzato un costo medio di 4,50 euro ciascuno per la posta prioritaria. Calcolatrice alla mano, quindi, i referendum 2025 hanno avuto un costo di circa 88 milioni di euro (87.564.750). A questa cifra naturalmente bisognerebbe aggiungere i costi legati all’impiego delle forze dell’ordine e del personale pubblico ai seggi che, però, sono stati utilizzati anche per i ballottaggi per il secondo turno delle elezioni amministrative.

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      Italia

      Guerra a colpi di forchetta: pastasciutta antifascista contro risotto nero anticomunista

      A Omegna, la tradizionale “pastasciutta antifascista” scatena la reazione dei nostalgici: nasce il “risotto anticomunista”. Una provocazione culinaria che riapre ferite ideologiche. E fa saltare la tregua a tavola.

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        C’è chi serve la memoria con burro e Parmigiano. E chi risponde con il nero di seppia. A Omegna, in Piemonte, il 25 luglio si avvicina e, come ogni anno, torna la “pastasciutta antifascista”, piatto simbolo della fine del regime mussoliniano. Ma quest’anno la Resistenza va di traverso alla destra locale, e qualcuno ha deciso di ribaltare il menù: Luigi Songa, ex Fratelli d’Italia, propone un’alternativa dal retrogusto polemico. Il risotto nero “anticomunista”. Così, quello che doveva essere un pranzo popolare è diventato uno scontro ideologico. Di quelli che fanno rumore anche con le posate.

        Songa non ci sta. A farlo insorgere è l’inserimento dell’evento nel calendario delle attività turistiche del Comune. “Non è cultura, è politica”, tuona. E invece di organizzare un comizio, sfodera la padella. Risultato: un piatto che sa più di provocazione che di tradizione. E che sui social diventa subito meme: tagliatelle liberali, tortellini sovranisti, lasagne identitarie. Benvenuti nell’Italia in cui ogni ricetta è uno schieramento.

        Ma attenzione: la pastasciutta antifascista non nasce ieri. È il gesto dei fratelli Cervi, nel 1943, per celebrare la caduta di Mussolini. Da allora si ripete in oltre 300 piazze, e ogni anno trova nuovi estimatori. Ma anche nuovi nemici. Come il deputato Urzì (FdI), che in Trentino si è indignato: “Pure in vacanza ti servono l’antifascismo nel piatto!”. C’è chi brontola per le multe ai volontari, chi per i patrocini negati. Ma la sostanza non cambia: la pastasciutta divide.

        A Omegna, il sindaco ha già scelto da che parte stare: “Io ci sarò. È un gesto simbolico. E se fa discutere, meglio: almeno ricorda chi ci ha permesso oggi di parlare, anche di risotti polemici”. Intanto Songa rincara: “Il prossimo 28 aprile cucino la pasta in bianco per Mussolini”. E no, non è satira: è propaganda spadellata.

        Morale? Nessuna. Solo che in Italia persino un piatto di maccheroni può diventare un atto politico. E che, nel dubbio, la libertà si difende anche a tavola. Con la forchetta ben affilata.

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          Italia

          Urbano Cairo prepara il colpaccio: via Report dalla Rai, Ranucci verso La7. E il Corriere molla Meloni

          Sigfrido Ranucci verso La7, dopo mesi di silenzi forzati e bastoni tra le ruote in Rai. Il suo arrivo è il fiore all’occhiello della campagna acquisti dell’editore, che nel frattempo prepara anche il restyling del Corriere della Sera: basta centrismo molle, via ai giornalisti d’assalto. Perché il melonismo, in edicola e in prima serata, non buca più.

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            Siete pronti? Via. È partita la campagna acquisti più rovente dell’estate. Non parliamo del calciomercato, ma della corsa di Urbano Cairo a sinistra. L’editore di La7 (e del Corriere della Sera) ha deciso che il melonismo non vende e si prepara a fare spazio in palinsesto – e in redazione – a firme e volti che Giorgia non vorrebbe nemmeno al cenone di Natale.

            Obiettivo numero uno: Sigfrido Ranucci. La Rai lo considera un corpo estraneo, un parente scomodo da evitare alle cene istituzionali. Tagli di puntate, slittamenti, commissariamenti, provvedimenti disciplinari: in Viale Mazzini stanno facendo di tutto per farlo stancare. E lui, da par suo, si guarda intorno. E guarda proprio verso La7. L’idea è già scritta sulla lavagna di Cairo: prima serata del lunedì, un nuovo nome (perché il brand Report è della Rai), e una seconda serata sperimentale – tipo Report-Lab – dove coltivare giovani segugi dell’inchiesta.

            A contorno, libri editi da Solferino, un piano social che sfrutti la macchina da sei milioni di follower che Ranucci e i suoi si sono costruiti in anni di servizio pubblico. Cairo non conferma, ma ammicca. E quando gli chiedono di Report, si limita a dire: “È un programma di qualità”. Tradotto: sto apparecchiando la tavola, vediamo se Ranucci si siede.

            E non è finita. Perché mentre sogna di portare l’uomo delle inchieste a La7, Urbanetto pensa anche al lifting del Corriere della Sera. Basta editoriali soft sul governo, basta moderatismo sussurrato. Il centrodestra ha già i suoi giornaletti da battaglia (Libero, Il Giornale, La Verità). Il Corriere deve tornare a graffiare. E allora ecco l’operazione restyling: direttore in uscita (Luciano Fontana), Sarzanini in pole, e voci di nuovi innesti dalla sinistra investigativa: Valeria Pacelli, Giacomo Salvini, Simone Canettieri.

            Il messaggio è chiaro: chi copia il melonismo non vince. E se perfino Cairo lo ha capito, forse è già tardi per chi sperava di cavalcare la stagione sovranista. Il vento è cambiato, e l’editore di La7 – come sempre – fiuta da che parte conviene schierarsi.

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              Italia

              Tassa di soggiorno, un ottovolante estivo tutto italiano

              La tassa di soggiorno si fa sentire nelle località turistiche italiane, anche in quelle più gettonate. Codacons ha registrato le tariffe praticate nelle principali località italiane.

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                Da Courmayeur a Sorrento, i prezzi della tassa di soggiorno nelle principali località di vacanza italiane possono divergere molto: a stilare la mappa è stata l’Adnkronos sui dati aggiornati di Codacons. Intanto, fa ancora discutere la proposta della ministra del Turismo Daniela Santanché, che ha proposto di alzare la tassa fino a 25 euro per gli hotel di lusso, al posto degli attuali 5.

                Dai 5 stelle alle Case del camminatore

                Si registrano prezzi bassi sia al mare che in montagna, con il picco a Cortina d’Ampezzo, che si prepara alle Olimpiadi invernali del 2026, che nelle sue strutture a 5 stelle fa pagare la tassa di soggiorno 5 euro a notte. In città, invece, il costo più alto si registra a Roma, dove si paga 10 euro per le strutture di lusso e anche 3,50 euro per le “case del camminatore“, ossia le strutture ricettizie che si trovano lungo la rete dei cammini e che potrebbero essere molto frequentate dai pellegrini del Giubileo 2025.

                Come funziona la tassa di soggiorno

                La tassa di soggiorno si fa sentire nelle località turistiche italiane, anche in quelle più gettonate. Codacons ha registrato le tariffe praticate nelle principali località italiane. Ne è scaturita una mappa della tassa di soggiorno, dopo che l’associazione dei consumatori ha segnalato un ammontare annuo di 700 milioni di euro nelle casse di oltre mille comuni. Si tratta di una ampia varietà di prezzi, che cambia in base alle categorie delle strutture e dei posti. Pernottare in un albergo a 5 stelle o in un campeggio può fare quindi la differenza.

                Ogni stella vale un euro

                Dalla mappa in questione emerge come – attraversando alcuni dei luoghi più noti come Taormina, Positano, Santa Margherita Ligure o Forte dei Marmi – ogni stella vale un euro per la tassa di soggiorno. Dunque si spendono 5 euro a persona per ogni notte trascorsa in alberghi a 5 stelle e a scendere – in linea di massima – 4 euro nei 4 stelle e 3 euro nei 3 stelle, via via fino ai circa 2 euro se si soggiorna in un campeggio, B&B o case vacanze.

                La proposta di alzarla a 25 euro

                La tassa di soggiorno è un tema che continua a far discutere. La ministra del Turismo Daniela Santanchè intende modificarla e renderla una tassa di scopo. La proposta è quella di aumentarla fino a 25 euro per gli hotel di lusso. La ministra ha dichiarato nei giorni scorsi che è in corso un confronto con gli operatori del turismo e i sindaci, che sarà ripreso a settembre.

                Le tariffe nelle località di mare

                Per quanto riguarda alcuni luoghi di vacanza dell’estate 2024, osservando le tabelle nelle località marittime, compaiono tariffe leggermente inferiori. A Cefalù, in Sicilia, il 5 stelle lusso arriva a 5 euro a notte, 4 euro per il 5 stelle, 2,50 euro per 4 stelle e villaggi, 2 euro per le altre categorie. A Otranto invece, in provincia di Lecce, meta di molte famiglie italiane, il massimo è 3 euro. Il minimo è di 1,50 euro per affitti brevi, B&B, campeggi, e similari. E ancora a Sorrento in Campania, negli alberghi a 5 stelle si pagano 4 euro. Negli agriturismo 1,50 euro, nei B&B 3 euro.

                Le tariffe nelle località di montagna

                Passando alle località di montagna, il monitoraggio del Codacons evidenzia le tariffe a Cortina d’Ampezzo – che si prepara alle Olimpiadi invernali del 2026 – dove nelle strutture a 5 stelle anche qui la tassa di soggiorno costa 5 euro a notte, 4,50 euro nei 4 stelle e a scendere di 50 centesimi in 50 nelle altre sistemazioni. A Courmayeur le tariffe massime sono leggermente inferiori: si parte da 50 centesimi in alcune case per ferie e da 1 euro nei rifugi alpini, per arrivare ai 4 euro degli hotel al top.

                Roma la più cara

                A Roma, tra le località maggiormente gettonate dal turismo anche internazionale, i prezzi salgono fino a 10 euro nei 5 stelle e più. Per scendere a 7,50 nei 4 stelle e via via a 6 euro nei 3 stelle. E anche in una gran varietà di strutture molto presenti nella capitale, quali residenze turistiche alberghiere, B&B, guest house, case vacanze di 1a categoria e affittacamere di seconda categoria. Inoltre si pagano 5 euro per alberghi a 2 stelle e simili, fino a 3,50 euro per gli ostelli e nelle cosiddette ‘case del camminatore‘. Cioè le strutture ricettive ubicate lungo la rete dei cammini che potrebbero essere molto frequentate dai pellegrini del Giubileo 2025. Infine, chi dorme in campeggi e villaggi paga 3 euro.

                Firenze contro i B&B

                E ancora, sono riportati i dati di Firenze, città d’arte dove l’ormai ex sindaco Dario Nardella negli scorsi anni ha condotto una vera e propria battaglia contro i B&B. Nel capoluogo toscano si passa dagli 8 euro degli alberghi, residenze turistiche alberghiere e agriturismi a 5 stelle ai 3,50 per alberghi a 1 stella e campeggi. Sono richiesti poi 7 euro per i 4 stelle e residenze d’epoca, a scendere secondo le stelle, affittacamere e bed&breakfast imprenditoriali e non imprenditoriali a 5,50 euro a notte. Per gli ostelli e le case per ferie previsto un euro a notte a persona.

                Le entrate nel 2023

                Le entrate derivate dalla tassa di soggiorno n totale in Italia sono cresciute di anno in anno e nel 2023 hanno raggiunto quota 702 milioni di euro, in aumento del 9,5% sul 2022. A fare i conti in base ai dati di Federturismo è stato sempre il Codacons. Quest’ultima ha denunciato come “manchi del tutto la trasparenza circa la reale destinazione dei proventi e nessuno sa come i comuni li utilizzino, col rischio concreto che gli incassi siano usati per coprire i buchi di bilancio delle amministrazioni e non per finalità turistiche come prevede la norma“.

                Crescono i comuni in cui si applica la tassa

                Secondo i dati riferiti dal Codacons, i proventi della tassa di soggiorno, 702 milioni nel 2023, erano il 43% in meno nel 2015 (403 milioni) e il 77% in meno nel 2012 (162 milioni). Attualmente l’imposta varia da 1 a 10 euro a ospite per notte, a seconda della località e della tipologia di struttura ricettiva, e i comuni che la applicano sono saliti dagli 11 del 2011, anno di reintroduzione della tassa, ai 1.013 del 2023.

                Quest’anno in arrivo più di 467 milioni di turisti

                Roma, con una tariffa media di 5,5 euro, lo scorso anno ha incassato circa 120 milioni e si prevede che il gettito arriverà a 180 milioni entro il 2024. Venezia ha raccolto circa 38 milioni di euro nel 2023, Firenze 72 milioni, che si prevede diventeranno 77 a fine 2024. All’aumento degli introiti contribuisce anche la crescita del turismo in Italia. Il 2023 si è chiuso con 134 milioni di arrivi e 451 milioni di presenze, rispetto al 2019 +3 milioni di arrivi (+2,3%) e +14,5 milioni di presenze (+3,3%). Un trend che prosegue anche nel 2024, con gli analisti che prevedono per l’anno in corso un boom di presenze in Italia pari a 467,2 milioni.

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