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Cronaca

Trump peggio di Mastrota, una televendita di orologi per raccogliere soldi per l’Election Day

I suoi sostenitori più facoltosi sono alla caccia dell’orologio da lui di recente lanciato: un pseudo-Rolex del valore di… 100.000 dollari. I proventi serviranno per la sua campagna presidenziale. Ma c’è chi critica fortemente l’iniziativa, parlando di raggiro.

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    “Ciao a tutti, è il vostro presidente, Donald J. Trump”. Comincia con questa enfatica vittoria annunciata (almeno lui ci crede…) il video introduttivo pubblicato sulla piattaforma Truth per il lancio promozionale del Victory Tourbillon. Una iniziativa che comprende un rilascio sul mercato USA di prodotti pensati espressamente per la raccolta fondi pro campagna elettorale. Tra i quali un lussuoso cronografo subacqueo chiamato Fight Fight Fight da 499 dollari, più altri modelli in argento o oro rosa.

    Un orologio da 1000 e una notte, anzi… da 100.000 dollari

    A meno di quaranta giorni dalle presidenziali americane, Trump si organizza per racimolare denaro da utilizzare per le ingenti spese di una campagna come la sua. Per questa occasione il tycoon ha messo in vendita un orologio tipo Rolex, personalizzato, d’oro e tempestato di diamanti, per la modica cifra di… centomila dollari! Uno schiaffo ai numerosi americani disoccupati che fanno la fame… oltretutto etichettato da alcuni esperti sotto la voce “truffa”, visto che il modello in questione varrebbe quasi dieci volte meno.

    Ha bisogno di denaro, questo è certo

    Tra l’altro – tempismo perfetto – questa offerta arriva nelle ore in cui i legali dell’ex presidente hanno presentato un nuovo appello per congelare il pagamento, allo Stato di New York, della multa da 450 milioni di dollari inflitta dal tribunale di Manhattan per frode finanziaria.

    Una specie di bufala

    L’orologio in oro e diamanti sta subendo, come era logico aspettarsi, grandi critiche da più parti. “Probabilmente – ha commentato su Instagram Ben Cook, creatore degli originali ed economici Ben’s Watches – ci vogliono non più di 15-16 mila dollari per realizzarli”. E non più di cinque ore di lavoro. Il distributore Adam Golden, che su Instagram gestisce una pagina che si occupa di orologi, è stato molto meno diplomatico nella sua disamina: “Se qualcuno compra uno di questi – ha scritto, indicando i Trump Watch – beh, ho un ponte da vendervi”.

    147 esemplari meno uno

    La campagna attualmente in atto si è posta l’obiettivo di venderne 147 esemplari. Un numero non certo stabilito a caso, visto che Trump ambisce ad essere eletto come il 47° presidente degli Stati Uniti. Ogni orologio sarà realizzato in edizione numerata, a partire però dal “2″. “Il numero 1 – spiega l’ex presidente – è fuori mercato, perché è mio, ecco perché voglio che tu ne abbia uno. Ne farete un grande regalo di Natale”. Insomma, se dovesse fallire alle elezioni ha un futuro nelle televendite in tv che, peraltro, in America sono seguitissime, riuscendo a generare fatturati stellati. Noi abbiamo Valenza Po e il Baffo… loro avrebbero il tycoon!

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      Italia

      Non solo sabbia e mojito: ecco i crimini più assurdi commessi in spiaggia

      Dai furti di ombrelloni “prenotati” con la scusa dell’asciugamano al lancio di gelati in faccia, la cronaca balneare racconta un’Italia surreale. In alcune località sono intervenuti i carabinieri per sedare vere e proprie risse per il posto in prima fila. E la fantasia dei “criminali da ombrellone” pare non conoscere limiti.

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        C’è chi aspetta l’estate per rilassarsi e chi, invece, la vive come un’occasione per dare libero sfogo alla propria follia. Non si tratta di metafora: le cronache locali sono ogni anno teatro di episodi che sembrano scritti da uno sceneggiatore impazzito. Reati piccoli, certo, ma non per questo meno degni di nota. Anzi: a volte fanno più ridere che indignare.

        Succede così che in Versilia un turista lombardo sia stato denunciato per “appropriazione indebita” dopo aver sottratto un lettino prenotato con il celebre trucco dell’asciugamano. “Non c’era nessuno!”, si è giustificato. Peccato che il legittimo proprietario fosse semplicemente al bar a prendersi un caffè.

        A Rimini, invece, la polemica ha raggiunto l’apice quando due famiglie si sono affrontate a colpi di paletta e secchiello per la supremazia su una buca scavata con grande impegno dai figli. I bagnini, increduli, hanno dovuto chiedere l’intervento della polizia municipale. “Era una trincea perfetta, non potevamo cederla”, ha dichiarato il padre, visibilmente scosso.

        E non mancano i casi più… gastronomici. A Taormina, un venditore ambulante ha denunciato un cliente per “aggressione con cono gelato”: l’uomo, insoddisfatto del gusto, gliel’ha spiaccicato in faccia. Testimoni riferiscono che si trattava di pistacchio.

        Ci sono poi episodi al limite dell’incredibile, come quello avvenuto a Ostia, dove una donna ha tentato di vendere “l’accesso esclusivo” al mare, piazzando una transenna con tanto di cartello: “Ingresso privato, 10 euro”. L’arenile, ovviamente, era demaniale.

        Non siamo ancora ai livelli del furto di sabbia – che resta il classico per eccellenza, soprattutto in Sardegna – ma anche quest’anno il repertorio estivo promette bene. E mentre i tribunali archiviano questi piccoli deliri sotto voci come “lite condominiale balneare”, resta il dubbio: siamo noi a impazzire con il caldo, o il mare tira fuori la nostra vera natura?

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          Italia

          Francobolli ritirati per mancanza del tedesco: la gaffe di Urso fa infuriare il Tirolo

          Il governatore Kompatscher attacca: «Il termine Alto Adige-Südtirol è ufficiale. È inaccettabile ignorarlo». I francobolli dedicati a Latemar e Catinaccio saranno ristampati con la versione bilingue, dopo la figuraccia istituzionale

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            Non si tratta di una banconota né di un documento ufficiale, ma l’assenza della parola Südtirol su un francobollo è bastata a scatenare una bufera politica. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, ha disposto il ritiro immediato di due francobolli appena stampati che raffiguravano le Dolomiti altoatesine – il Latemar e il Catinaccio – ma privi della denominazione in lingua tedesca. Una svista? Più che altro, un incidente diplomatico.

            Il motivo del contendere è proprio l’indicazione geografica: sui francobolli compariva solo la dicitura “Trentino-Alto Adige”, senza la corretta e costituzionalmente sancita forma bilingue “Trentino-Alto Adige/Südtirol”. Una mancanza che, in una provincia a statuto speciale dove il bilinguismo è obbligatorio per legge, ha il sapore dell’affronto istituzionale.

            A scatenare l’altolà è stato il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher, che non ha usato mezze misure: «Mi sono arrabbiato, è già successo in passato con le Odle. Una volta può capitare, ma stavolta c’è stata poca sensibilità. Il termine Alto Adige-Südtirol è nella Costituzione: è la denominazione ufficiale della regione. È inaccettabile».

            Il Mimit ha ammesso l’“anomalia” e ha ordinato il blocco della distribuzione. I francobolli appartenevano alla serie “Turistica – Patrimonio naturale e paesaggistico” e sarebbero dovuti essere messi in vendita da Poste Italiane. Al loro posto, ne verrà stampata una versione corretta, con le scritte in entrambe le lingue: italiano e tedesco. Il tutto grazie anche alla mediazione del deputato altoatesino Marco Galateo, volto di Fratelli d’Italia in Regione.

            La polemica ha riportato a galla la sensibilità, ancora fortissima, che circonda l’identità linguistica del territorio altoatesino. In Alto Adige, ogni toponimo, cartello o documento deve riportare sempre entrambe le lingue, pena accuse di discriminazione culturale. E anche un piccolo francobollo può trasformarsi in un caso politico.

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              Politica

              Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)

              Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

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                Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.

                Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.

                La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.

                Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.

                E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.

                Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.

                E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.

                Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.

                Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.

                In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.

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