Cronaca
Ma che americano e americano: il nuovo Papa ha origini italiane!
Il primo Papa statunitense? Sì, ma con un cuore piemontese. Il nonno di Robert Francis Prevost sarebbe nato a Torino nel 1876, prima di emigrare a Chicago. E nelle Marche c’è già chi festeggia la nomina di “un cugino lontano”. Altro che stelle e strisce: in Vaticano sventola un tricolore genealogico.

Una storia di migrazione la sua, così come era accaduto per Jorge Bergoglio, che lo rende sensibile ai movimenti dei popoli, alla povertà e alle sofferenze di chi si mette in viaggio per cercare un futuro migliore. Bergoglio aveva tenuto forti legami con la parte della famiglia rimasta in Italia, in particolare con alcuni cugini che vivono tra Torino e Asti ed era andato a far loro visita durante le due visite pastorali organizzate in Piemonte durante il suo mandato.
Anche di papa Leone XIV si è già trovata una parente: Carmen Cecilia Cristina Prevost Navea, nata nel 1961 in Perù, che dal 2015 vive a San Severino Marche: racconta che in comune con il Papa ha il bisnonno paterno. In Italia è sposata con l’imprenditore Massimo Massi, che per tanti anni ha vissuto i n Sudamerica. “È uno della mia famiglia, un pastore dal cuore peruviano – dice – Non ci conosciamo direttamente ma ho tentato di andare a trovarlo a Lima anni fa ma le coincidenze me lo hanno impedito purtroppo. Nell’albero genealogico che conservo in Perù, quello della mia famiglia, c’è anche lui. La sua nomina al soglio pontificio è stata una sorpresa grandissima per me e per i miei cari”.
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Storie vere
Cacciata da un ristorante perché tifosa della Lazio: la piccola Emma diventa simbolo di civiltà tradita
È successo davvero: una famiglia in vacanza si è vista negare l’ingresso in un ristorante della riviera abruzzese perché la figlia indossava i colori biancocelesti. Reazioni indignate da Lazio e Pescara, mentre Lotito la invita a Formello.

Immaginate la scena: una bambina di undici anni, in vacanza con mamma e papà, si presenta felice davanti a un ristorante sul lungomare di Pescara. Indossa con orgoglio una maglietta della Lazio e un cappellino abbinato. Ma a quanto pare, non è gradita. “Qui non potete entrare”. Non perché abbiano il cane, non perché siano in ritardo, non perché la cucina sia chiusa. Ma per quella maglia. Quella maglietta della Lazio.
È successo davvero. E in un lampo è diventato un caso nazionale, anzi una piccola, triste fotografia dell’Italia che riesce sempre a superarsi nella gara dell’intolleranza calcistica. La notizia, pubblicata da Il Centro, ha provocato una tempesta di reazioni. A cominciare dalla stessa Lazio, che via social ha scritto: “Cara Emma, ti aspettiamo a Formello. Qui sei la benvenuta”.

Ma a sorprendere è anche la reazione del Pescara Calcio, club storicamente rivale della Lazio. Anche loro hanno preso le distanze, con un messaggio chiaro: “Negare l’ingresso a una bambina per la sua fede calcistica è un gesto che non ha alcuna giustificazione”. Parole semplici, ma che oggi suonano come ossigeno in un Paese dove si scambia il tifo per una guerra di religione.
La piccola Emma, diventata suo malgrado simbolo della civiltà calcistica che fu, ha raccolto una valanga di solidarietà. Sì, perché indignarsi è giusto. Ma è ancora più giusto chiedersi come sia possibile che nel 2025 qualcuno pensi di fare selezione all’ingresso in base alla squadra del cuore. In un ristorante, poi. Dove si dovrebbe andare per stare bene, non per essere giudicati.
Ora Emma visiterà il centro sportivo biancoceleste. Vedrà i suoi beniamini, riceverà abbracci e maglie firmate. Ma nessun gesto, per quanto bello, potrà cancellare quel momento in cui si è sentita esclusa. E tutto per una maglietta. O meglio, per l’idea sbagliata che certi adulti hanno dello sport.
Cronaca Nera
Un’impronta misteriosa e una vecchia scala: il segno numero 44 riaccende i dubbi sul delitto di Garlasco
È catalogata come “numero 44”, si trova sul muro delle scale che portano alla cantinetta dove fu ritrovato il corpo di Chiara Poggi. Per la Procura è compatibile con la ricostruzione dei movimenti di Andrea Sempio, l’amico della vittima mai indagato all’epoca. Ma il confronto del Dna resta un’incognita.

Un numero, un’impronta e una scala. Potrebbero bastare questi tre elementi a riaprire – simbolicamente e forse anche giudiziariamente – il caso Garlasco. Parliamo dell’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 nella villetta di via Pascoli, e di una traccia rimasta finora ai margini dell’inchiesta: l’impronta numero 44.
È stata rilevata sul muro delle scale che conducono alla cantina, là dove il corpo della giovane venne trascinato. Ha la forma di una suola a righe verticali, collocata in basso, verso i gradini. E ora torna sotto la lente degli inquirenti. Non è sola: secondo la nuova ricostruzione della Procura di Pavia, guidata da Fabio Napoleone, la 44 va letta insieme alla traccia “33” (un’impronta palmare) e alla macchia ematica “97f”, presente sulla parete opposta.
Tre segni, un’unica traiettoria. È questa la nuova ipotesi: una sola persona avrebbe lasciato tutte e tre le tracce. La mano insanguinata si poggia al muro (traccia 33), i piedi scivolano sui gradini (traccia 44), e la spinta sul corpo della vittima lascia la scia di sangue (97f). Un mosaico inquietante, che gli esperti del Ris stanno ricostruendo fotogramma per fotogramma.
Il problema? Nessuna delle impronte esaminate finora ha restituito profili di Dna utili al confronto. I fogli di acetato usati per conservare le tracce digitali contengono campioni troppo degradati. Nemmeno la numero 10, quella sulla porta d’ingresso – potenzialmente la più compromettente – ha superato i test.
Eppure, c’è un nome che aleggia su questa nuova fase dell’inchiesta: Andrea Sempio. Già menzionato in un’informativa dei carabinieri di Milano nel 2016, oggi è di nuovo al centro del lavoro dei consulenti della Procura. È lui, secondo alcune perizie, il soggetto compatibile con la palmare numero 33. Ma non è mai stato interrogato formalmente.
Intanto, l’ex fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni, è da poco in semilibertà. Mentre periti e consulenti si preparano a nuovi accertamenti, tra cui l’analisi del tappetino del bagno e dei tamponi sul corpo della vittima. La domanda resta sospesa: quella scarpa a righe, impressa in un angolo dimenticato, può ancora raccontare la verità?
Cronaca
Finta multa da 5000 euro per chi usa il pezzotto: la nuova truffa con il logo del Garante delle comunicazioni
Email-truffa con tanto di intestazione ufficiale, call center fasulli e richieste di pagamento “per evitare guai”: è la nuova frode che sfrutta la paura del pezzotto per spillare soldi e rubare dati bancari alle vittime.

Le truffe digitali non conoscono tregua, ma questa volta i pirati informatici hanno superato ogni limite. In questi giorni migliaia di utenti italiani stanno ricevendo una mail inquietante. Una finta multa da 5.000 euro per presunto utilizzo del cosiddetto pezzotto, ovvero i dispositivi illegali per accedere a contenuti televisivi a pagamento — partite, serie TV, film — senza abbonamento.
L’inganno è costruito nei minimi dettagli. La mail sembra provenire dal Garante per le Comunicazioni (Agcom). Con tanto di logo, intestazione ufficiale, linguaggio burocratico e riferimenti normativi che la rendono credibile a un occhio non esperto. Il contenuto è semplice quanto efficace. L’utente viene accusato di aver utilizzato sistemi di IPTV illegali e viene “invitato” a saldare subito una sanzione da 5.000 euro, per evitare conseguenze peggiori.
A rendere ancora più insidiosa la frode è l’organizzazione messa in campo. I criminali informatici hanno addirittura attivato call center pirata, pronti a rispondere al telefono per rassicurare la vittima e guidarla passo dopo passo nel pagamento. L’obiettivo? Ottenere non solo i soldi, ma anche i dati bancari, informazioni personali e coordinate utili per ulteriori raggiri.
Naturalmente, nulla di tutto ciò è reale. A livello legale, le multe per l’uso del pezzotto non vengono mai notificate via email, e soprattutto non sono di competenza dell’Agcom, ma della Guardia di Finanza o della magistratura, nell’ambito di indagini strutturate. Chi riceve queste comunicazioni farebbe bene a non rispondere, non cliccare su link contenuti nei messaggi e, se ha dubbi, rivolgersi direttamente alle autorità.
Il pezzotto resta una pratica illegale e sanzionabile, ma questa truffa usa la paura come arma per colpire chi, magari, ha solo visitato siti a rischio o ricevuto segnalazioni su piattaforme di streaming grigie. Il consiglio, in questi casi, è uno solo: non farsi prendere dal panico, e non fornire mai dati personali o bancari a presunti enti pubblici che operano via email o telefono.
Perché, come sempre, le vie dei truffatori sono infinite. Ma anche facilmente evitabili con un po’ di attenzione.
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