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Mistero

Gli ammutinati del Bayesian: dopo la tragedia, i sub non si immergeranno più

Sulla gru galleggiante è scoppiata la rivolta silenziosa degli operatori: “Basta rischiare la vita per un relitto”. Il recupero del veliero affondato davanti a Porticello prosegue con robot subacquei e piattaforme automatizzate. L’inchiesta sul decesso del sommozzatore è ancora in corso.

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    Non ci saranno più palombari a calarsi sul fondo. Nessun uomo scenderà più a 49 metri di profondità per toccare quel relitto maledetto. Dopo la morte di Rob Cornelis Huijben, il sommozzatore olandese di 55 anni ucciso da un’esplosione sottomarina durante le operazioni sul relitto del Bayesian, la Tmc Marine, società responsabile del recupero, ha annunciato una svolta drastica: fine delle immersioni umane, spazio alle tecnologie remote.

    L’incidente è avvenuto il 9 maggio. Il sub era da solo sul fondale, impegnato a tagliare con una fresa speciale la cerniera che collegava il boma – una trave in acciaio lunga oltre 20 metri – all’albero del veliero. All’improvviso, una deflagrazione. Le cause sono ancora tutte da chiarire, ma l’effetto è stato devastante: Huijben è morto all’istante. Il trauma ha investito non solo il suo team, ma l’intera comunità dei professionisti del mare.

    E infatti, appena qualche giorno dopo, a bordo delle due navi gru olandesi Hebo Lift 2 e 10 è scoppiata una sorta di “ammutinamento”. Silenzioso, composto, ma fermo: i sub non si sarebbero più immersi. Le trattative tra vertici e maestranze sono andate avanti per giorni, in un clima tesissimo. Nessuno parlava, tutti sapevano. E tutti avevano paura.

    A sbloccare la situazione è stato un cambio di rotta strategico: “Negli ultimi dieci giorni, il team ha sviluppato metodi alternativi per portare avanti le operazioni”, ha annunciato Marcus Cave, direttore di Tmc Marine. “La priorità ora è la sicurezza: ridurremo al minimo le immersioni umane e useremo attrezzature comandate da remoto dalle piattaforme galleggianti. Questo allungherà i tempi, ma salverà vite”.

    I robot prenderanno il posto degli uomini

    Il nuovo piano ha subito preso forma. Già nella giornata di domenica, i lavori sono ripresi. Gli operatori hanno tagliato con un filo diamantato il boma e le vele arrotolate, sollevandole a bordo della Hebo Lift 2. È stato impiegato un ROV, un sommergibile telecomandato, per tagliare una delle pesanti catene dell’ancora. La prima delle due ancore è stata ripescata, insieme ad altri elementi del sartiame.

    Nel frattempo, si lavora anche per mettere in sicurezza i serbatoi del Bayesian, che custodiscono 18 mila litri tra carburante e oli. L’obiettivo è evitare il rischio di sversamenti durante l’emersione del relitto. Verranno installate speciali imbracature d’acciaio sotto lo scafo, per garantire la tenuta del superyacht durante la delicata fase di sollevamento, prevista nei prossimi giorni.

    Le indagini proseguono: “Perché era da solo a 49 metri?”

    Intanto, prosegue l’inchiesta della Guardia Costiera di Palermo e della Procura, che indagano per chiarire le cause della morte di Huijben. In queste ore sono al vaglio i filmati delle body cam indossate dal sub, oltre alla perizia tecnica sul boma esploso. Gli investigatori si chiedono perché il sommozzatore stesse lavorando da solo a quella profondità, e se le procedure di sicurezza previste fossero adeguate al tipo di intervento in corso.

    Secondo indiscrezioni, il professionista sarebbe stato impegnato in una manovra particolarmente rischiosa, in un contesto di pressione altissima, e con la necessità di lavorare in tempi ristretti. Il relitto del Bayesian, lungo 56 metri, è affondato il 19 agosto 2023, a mezzo miglio dalla costa di Porticello, in provincia di Palermo. Quella notte, nessun passeggero era a bordo. Il progetto di recupero ha un valore multimilionario e implica l’impiego di mezzi navali, tecnologie avanzate e una squadra internazionale.

    Una scommessa rischiosa

    Ora, il recupero del Bayesian assume i contorni di una sfida ancora più complessa. La sostituzione dei sub con robot subacquei non era prevista nel progetto iniziale, e questo comporterà inevitabilmente ritardi e costi aggiuntivi. Ma l’azienda sembra determinata ad andare avanti: “La sicurezza viene prima di tutto”, ha ribadito Cave.

    La Hebro Lift 10 si sta preparando a trasferirsi nel porto di Termini Imerese, dove caricherà nuove attrezzature specialistiche per affrontare la fase finale: lo smontaggio dell’albero di 72 metri, delle vele rimaste e l’intera operazione di sollevamento dal fondale.

    Sul fondale di Porticello resta ancora il cuore del Bayesian. Ma nel cuore di chi ha vissuto quella tragedia, resta l’eco di un’esplosione che ha cambiato per sempre il modo di lavorare sott’acqua.

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      La cyber criminalità nordcoreana si infiltra nelle aziende occidentali

      Come informatici sotto falsa identità e facilitatori locali favoriscono l’espansione del regime di Pyongyang nel mondo del lavoro remoto.

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        Da anni, il regime nordcoreano piazza giovani informatici nelle aziende occidentali sfruttando identità rubate e l’espansione del lavoro remoto. E, più recentemente, l’intelligenza artificiale. Il fondatore della startup di cyber sicurezza C.Side, il belga Wijckmans, ha intuito qualcosa di sospetto quando ha incontrato candidati con caratteristiche comuni. Avevano tutti nomi anglosassoni, connessioni lente, sfondi virtuali e scarso interesse per il lavoro. Approfondendo, ha scoperto un’ondata di candidature anomale, con test di programmazione eseguiti tramite VPN.

        Contemporaneamente al sospetto di C-Side, Christina Chapman, una donna del Minnesota, ha rivelato il ruolo dei facilitatori locali. Assunta per rappresentare informatici d’oltreoceano, Chapman gestiva documenti falsi, stipendi e il cosiddetto “parco computer,” permettendo ai falsi lavoratori di operare da remoto come se fossero negli Stati Uniti. Nel 2023, gli investigatori federali hanno scoperto la sua complicità nel generare profitti illeciti per il governo nordcoreano, confermando l’esistenza di una rete di cyber criminali sofisticata e ben organizzata.

        Zitti, zitti sabotano le aziende occidentali

        Christina Chapman è diventata un tassello chiave nel sistema che consentiva ai falsi lavoratori di sembrare presenti sul territorio statunitense. L’FBI ha scoperto che il suo operato aveva facilitato il trasferimento di almeno 17 milioni di dollari, portando alla sua incriminazione per frode telematica, furto d’identità e riciclaggio. Investigazioni hanno rivelato un’ampia rete di cyber criminali, con falsi recruiter e aziende fantasma che hanno truffato centinaia di società, dalle grandi case automobilistiche americane ai colossi della Silicon Valley. L’evoluzione del cybercrimine nordcoreano ha portato il regime a diversificare le sue operazioni, passando dai ransomware ai furti di criptovalute multimilionari, sfruttando l’espansione del lavoro a distanza per consolidare le sue finanze illecite.

        Secondo il governo statunitense, una squadra di impostori informatici nordcoreani può generare fino a 3 milioni di dollari l’anno per finanziare il regime di Pyongyang. Questo flusso di denaro alimenta attività che vanno dal fondo personale di Kim Jong Un al programma di armi nucleari, rendendo l’infiltrazione nel lavoro remoto una strategia discreta ma efficace. Nel 2022, un’importante multinazionale ha assunto un programmatore da remoto, considerato il più produttivo del team. Solo dopo un anno un dettaglio banale ha fatto emergere sospetti: aveva dimenticato la data di nascita dichiarata nei documenti. Un’indagine interna ha rivelato che il dipendente utilizzava strumenti di accesso remoto. Solo in seguito, il suo nome è emerso nell’inchiesta federale legata a Christina Chapman, la facilitatrice che aveva gestito documenti falsi e parchi informatici per l’organizzazione nordcoreana.

        La sofisticata “infiltrazione” nordcoreana nel lavoro remoto

        Gli infiltrati non sempre puntano al furto di dati, spesso lavorano per mesi o anni senza destare sospetti, assicurandosi stipendi elevati da destinare al regime. In altri casi, si inseriscono nei sistemi per scaricare enormi quantità di dati o installare malware, lasciandoli dormienti fino al momento opportuno. Le aziende stanno intensificando i controlli, ma i truffatori sfruttano deepfake, filtri video e intelligenza artificiale per aggirare verifiche e colloqui. Questa evoluzione del cyber crimine nordcoreano ha reso difficile distinguere un lavoratore remoto legittimo da un agente straniero, aumentando i rischi per la sicurezza informatica globale.

        L’inganno digitale e la vendetta di Wijckmans

        Il fondatore C.Side, Wijckmans, ha intuito qualcosa di sospetto dopo aver letto del caso Knowbe4, una vicenda legata alla sicurezza informatica. I suoi sospetti si sono diretti su alcuni candidati che stavano cercando di entrare nella sua azienda. Deciso a vederci chiaro, inizia a fare delle verifiche e scopre che alcuni profili usano identità rubate. Non solo: alcuni di loro sono collegati a operazioni nordcoreane. A quel punto, Wijckmans decide di mettere in scena un esperimento, e invita un giornalista ad assistere. Alle 3 del mattino, l’imprenditore si collega su Google Meet per un colloquio con un candidato che dice di trovarsi a Miami. Il suo nome è “Harry”, e il dettaglio più strano è che, nonostante l’orario, sembra fin troppo riposato e lucido.

        Ha poco meno di trent’anni, capelli corti e neri, un maglione a girocollo e una cuffia senza brand. Dice di essere nato a New York, ma il suo accento è decisamente atipico. Parla di linguaggi di programmazione, framework e tecnologie, ma continua a guardare verso destra, come se leggesse da uno schermo esterno. Quando Wijckmans aumenta il livello delle domande tecniche, Harry si blocca. Dopo una pausa, chiede di uscire dalla chiamata per sistemare il microfono. Quando torna online, le sue risposte sono molto più fluidem quasi troppo. Forse ha riavviato il suo chatbot o ha chiesto aiuto a un collega. Il secondo candidato si fa chiamare “Nic”, e sul suo curriculum ha inserito un link al suo sito web. Ma c’è un problema evidente: non somiglia affatto alla foto che appare sul portale.

        La cyber spia arriva da oriente

        Durante il colloquio, il suo inglese è confuso e mal strutturato. Quando gli chiedono che ora è, risponde: “Le sei dopo“, prima di correggersi con “Le sette meno un quarto“. Anche il suo luogo di residenza suona vago. “Per ora sono in Ohio“, come se avesse appena scelto la risposta giusta a un quiz. Ma il momento più surreale arriva quando Wijckmans gli chiede qualcosa sulla sicurezza informatica. Nic inizia a parlare di politica, funzionari governativi e leggi sull’immigrazione, come se avesse scambiato il termine Border Gateway Protocol—che riguarda il traffico Internet con il concetto di confine nazionale. Wijckmans capisce che sta perdendo tempo e chiude il colloquio bruscamente.

        La vendetta digitale

        Dopo questa esperienza, l’imprenditore ha deciso di creare un test trappola per smascherare futuri impostori. Ha sviluppato una pagina web che simula un esame di programmazione, ma non appena il candidato falso preme il pulsante per iniziare la prova, il suo computer viene sommerso da pop-up con informazioni su come disertare dalla Corea del Nord. Come ciliegina sulla torta, il sito farà partire a tutto volume Never Gonna Give You Up o l’inno nazionale degli Stati Uniti, mentre il browser inizierà a scaricare file a caso e a emettere un bip insopportabile. “Giusto una piccola vendetta“, ha commentano l’imprenditore. Ovviamente tutto questo non fermerà le operazioni nordcoreane. Ma almeno sono avvisati.

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          Roswell: il mito del disco volante che non muore mai

          E’ uno degli episodi più discussi nella storia dell’ufologia. Secondo la narrazione ufficiale, un allevatore trovò nel suo ranch dei misteriosi detriti, inizialmente identificati come un “disco volante” dall’esercito. Ma poi…

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            Qui Roswell, qui Roswell avviso a tutti i militari della base“… Il 2 luglio 1947, in un ranch sperduto nel deserto del New Mexico, un evento destinato a far tremare le fondamenta della nostra comprensione dell’universo sembrava consumarsi. Un allevatore, William Mac Brazel, si imbatté in una scena surreale. Ovvero? Detriti metallici scintillanti, di forma inusuale, sparsi su un’ampia area del suo ranch. Quello che sembrava un semplice incidente si trasformò ben presto in una delle più grandi e durature leggende del XX secolo. Ma che cos’era successo?

            Prima il comunicato… poi la smentita

            La notizia si sparse rapidamente e raggiunse la base aerea di Roswell, dove i militari, inizialmente incuriositi, si mostrarono presto allarmati dalla portata dell’accaduto. Un comunicato stampa ufficiale annunciò al mondo l’avvistamento e il recupero di un “disco volante“. L’entusiasmo degli appassionati di fantascienza e degli ufologi in quelle settimane e raggiunse l’apice. Ma la gioia fu di breve durata. Pochi giorni dopo, l’aeronautica militare americana ritrattò la sua dichiarazione, affermando che i detriti non erano altro che i resti di un pallone meteorologico, parte di un progetto segreto per monitorare le attività nucleari sovietiche.

            La nascita di un mito

            La smentita ufficiale non bastò a placare la curiosità e le speculazioni. Anzi, la storia di Roswell cominciò ad assumere contorni sempre più misteriosi e affascinanti. Testimoni oculari, presunti coinvolti nelle operazioni di recupero, iniziarono a parlare di corpi alieni, di autopsie clandestine e di un complotto governativo volto a nascondere la verità.

            Il progetto Mogul: una spiegazione plausibile?

            Negli anni ’90, grazie alla declassificazione di alcuni documenti, emerse una possibile spiegazione per l’incidente di Roswell: il progetto Mogul. Si trattava di un programma segreto dell’esercito statunitense che prevedeva l’utilizzo di palloni aerostatici per intercettare le onde sonore prodotte dalle esplosioni nucleari. Uno di questi palloni, secondo questa teoria, sarebbe precipitato nel deserto del New Mexico, dando origine alla leggenda del disco volante.

            Perché il mito persiste ancora oggi?

            Nonostante l’esistenza di una spiegazione apparentemente razionale, il mito di Roswell continua a vivere. Diverse ragioni possono spiegare questa persistenza. Si passa dall’idea di essere visitati da esseri intelligenti provenienti da altri mondi che affascina l’immaginario collettivo, allo scetticismo verso le istituzioni. Molte persone sono diffidenti nei confronti dei governi e tendono a credere che stiano nascondendo informazioni importanti. La mancanza di prove concrete e le numerose contraddizioni nelle testimonianze ufficiali alimentano le teorie del complotto. A distanza di decenni, il caso Roswell rimane avvolto nel mistero. Nonostante le numerose indagini e le teorie elaborate, non esiste una prova definitiva che possa confermare o smentire l’ipotesi aliena.

            Cosa resta oggi? Una serie di Netflix…

            Roswell è diventato un simbolo dell’ufologia, un luogo di pellegrinaggio per appassionati di misteri e di tutto il mondo. La sua storia ci insegna che la verità a volte è più sfuggente di quanto immaginiamo e che la nostra sete di conoscenza può spingerci a cercare spiegazioni anche nei fenomeni più inspiegabili.

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              L’ombra ai confini del sistema solare: il pianeta Nove esiste davvero?

              Avvolto dalle tenebre cosmiche, invisibile agli occhi umani, un gigante di ghiaccio potrebbe nascondersi oltre Nettuno, governando orbite con la sua forza misteriosa. Ora, nuovi indizi accendono la speranza di risolvere un enigma che sfida l’astronomia da decenni.

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                Nel buio glaciale ai confini del sistema solare, dove il sole è poco più di una fioca scintilla, potrebbe esistere un colosso dimenticato. Il pianeta Nove, un titano invisibile, intrappolato in un’orbita remota e silenziosa, così lontano da impiegare millenni per compiere un singolo giro attorno alla sua stella. Gli astronomi lo cercano da anni, seguendo le impronte che la sua gravità ha lasciato nelle orbite distorte dei corpi ghiacciati della Fascia di Kuiper. Un’ombra nascosta nel gelo cosmico, inafferrabile ai telescopi tradizionali. Troppo lontano, troppo freddo, così debole da non riflettere abbastanza luce solare per essere visto. Ma la sua influenza è palpabile. Qualcosa là fuori sta esercitando un’attrazione invisibile, deformando le traiettorie degli oggetti remoti, suggerendo la presenza di un guardiano oscuro ai margini del sistema solare.7

                Un puntino chiamato Nove

                Ora, una nuova scoperta potrebbe avvicinare la verità. Un debole segnale infrarosso, rilevato in due epoche diverse, 1983 e 2006, mostra un puntino che si è spostato lentamente tra le stelle fisse. Un movimento compatibile con un corpo immensamente distante, a 700 unità astronomiche dal Sole, oltre 100 miliardi di chilometri di abisso interstellare.

                Ma è davvero lui?

                Il pianeta Nove è ancora un’ipotesi fragile, un’ombra di dati che potrebbe rivelarsi un’illusione. Lo studio non è definitivo e alcuni scienziati, tra cui Mike Brown, il primo a ipotizzarne l’esistenza, restano scettici. È possibile che l’oggetto individuato sia un falso positivo, un errore nei dati. Per svelare la sua natura serviranno nuove osservazioni, e forse il telescopio Vera Rubin, che inizierà la sua missione il prossimo anno (2026), sarà la chiave per risolvere il mistero. Per ora, il pianeta Nove resta un fantasma celeste, una presenza suggerita ma mai provata. Se esiste davvero, orbita ai confini del sistema solare, lontano dagli occhi dell’uomo, custode di un enigma antico come il cosmo stesso. L’universo ha ancora segreti da svelare. Forse, tra le stelle lontane, un mondo dimenticato attende di essere scoperto. E questo ci affascina davvero parecchio.

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