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Mistero

Parte la caccia al galeone con un tesoro da 4 miliardi di dollari!

Indipendentemente dall’esito della ricerca, il fascino e il mistero che circondano la Royal Merchant continueranno a catturare l’immaginazione di persone di tutto il mondo. Che il tesoro venga trovato o meno, la sua storia rimarrà parte integrante del folklore marittimo per sempre.

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    Un’ancora gigantesca, ripescata per caso davanti alle coste della Cornovaglia, ha riportato alla luce una storia leggendaria: quella dell’El Dorado of the Seas, con un tesoro stivato stimato oltre i 4 miliardi di dollari. Ora, parte la caccia per recuperare questo naufragio storico, con la speranza di riportare alla luce una fortuna sommersa per secoli.

    Il naufragio epico

    Nel 1641, la Royal Merchant, ribattezzata El Dorado of the Seas, affondò al largo di Lands End, nell’Inghilterra orientale, mentre tornava dal Messico. A bordo trasportava un carico incredibile: 45 tonnellate d’oro, 400 lingotti d’argento messicano e 500.000 “pezzi da otto”.

    L’ancora ritrovata

    Nel 2019, il peschereccio Spirited Lady tirò su un’ancora enorme, scatenando l’interesse degli esperti che ipotizzano appartenesse alla Royal Merchant. Questo ha dato il via alla nuova ricerca del tesoro secolare.

    La ricerca del tesoro

    La Multibeam Services, una società specializzata nel recupero di carichi marittimi con sede in Cornovaglia, ha pianificato una spedizione per il recupero del relitto. Utilizzeranno tecnologie avanzate come sommergibili telecomandati con sonar e telecamere per coprire un’area di 200 miglia quadrate del Canale della Manica.

    Investimenti e Costi

    La ricerca del tesoro avrà un costo di venti milioni di sterline, ma l’eventuale ritrovamento potrebbe valere miliardi. Multibeam Services assicura di avere il team e la tecnologia necessari per trovare il relitto, con oltre 35 anni di esperienza nel settore.

    La concorrenza

    Tuttavia, Multibeam non è l’unico interessato al tesoro. Altre società e individui potrebbero essere coinvolti nella caccia, poiché 4 miliardi di dollari sono una tentazione irresistibile per molti.

    La tecnologia all’avanguardia

    Multibeam utilizzerà sommergibili senza pilota dotati di sonar e telecamere di ultima generazione per esplorare i fondali marini e individuare il relitto. Questa tecnologia ha dimostrato di essere efficace nel trovare relitti precedenti.

    Le sfide legali

    Ricerche precedenti, come quella condotta dalla Odyssey Marine Exploration nel 2007, si sono scontrate con complicazioni legali riguardanti la proprietà del relitto. Sarà importante affrontare le questioni legali in modo chiaro e trasparente.

    Il ritorno della leggenda

    Il ritrovamento dell’ancora ha riportato alla ribalta una delle storie più leggendarie dei mari. La caccia al tesoro della Royal Merchant promette di essere un’avventura epica e potrebbe cambiare la fortuna di chiunque riesca a trovarla.

    L’attesa

    Mentre la Multibeam Services si prepara per la spedizione, il mondo tiene il fiato sospeso nell’attesa di notizie sul recupero del tesoro. Questo potrebbe essere il naufragio più ricco della storia, con enormi implicazioni finanziarie e storiche.

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      Mistero

      L’incredibile storia di Charles Joughin, il fornaio sopravvissuto al naufragio del Titanic. Sarà vera?

      Nonostante alcune incongruenze, la vicenda di Joughin, il capo panettiere del Titanic, continua a suscitare fascino e curiosità.

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        Chiariamo subito che ci sono alcune incongruenze nella storia di Charles Joughin, capo panettiere a bordo del Titanic, noto non solo per essere sopravvissuto alla tragedia ma per il curioso dettaglio del suo racconto. Joughin dichiarò che per resistere nelle acque gelide dell’Atlantico si sarebbe aiutato con l’alcol. Una storia che, seppur romanzata o alterata dai ricordi del momento, rimane affascinante e ci consegna il ritratto di un uomo comunque resiliente.

        Ma chi era Charles Joughin?

        Nato il 3 agosto 1879 a Birkenhead, Liverpool, mister Joughin era già un uomo esperto nella gestione delle cucine navali quando si arruolò per lavorare sul Titanic. Aveva lavorato come capo panettiere sulla nave gemella del Titanic, l’Olympic, e nel 1911 risultava residente a Elmhurst con la moglie Louise e i due figli piccoli, Agnes e Roland. A bordo del Titanic, Joughin era responsabile di una squadra di 13 panettieri.

        La notte del naufragio? Distribuiva pagnotte e lanciava in acqua le sedie sdraio

        Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, quando il Titanic colpì l’iceberg alle 23:40, Charles Joughin si trovava nella sua cabina fuori servizio. Resosi conto della gravità dell’incidente, inviò i suoi panettieri a rifornire i passeggeri con 50 pagnotte destinate alle scialuppe di salvataggio. Dopo essersi assicurato che il suo staff fosse al lavoro, Joughin decise di bere un bicchiere di whisky. Più tardi raggiunse il ponte e aiutò donne e bambini a salire sulla scialuppa a lui assegnata, la numero 10, senza però prenderne posto per dare l’esempio. Con le scialuppe già partite e nessuna possibilità di salvezza apparente, Joughin si dedicò a lanciare sedie a sdraio in mare, con la speranza che potessero servire da appiglio per chiunque fosse caduto in acqua. Quando la nave si spezzò in due alle 2:10, fu una delle ultime persone a lasciare il Titanic, restando attaccato al relitto fino all’ultimo istante. Questo lo dice lui.

        Come fece a sopravvivere mister Joughin

        Joughin dichiarò di essere caduto in acqua poco prima che la nave affondasse completamente, sostenendo di non essersi nemmeno bagnato i capelli. Disse di aver nuotato per circa due ore nell’Atlantico gelido, fino a raggiungere una zattera di salvataggio pieghevole, la zattera B. Poiché questa era già sovraccarica, rimase in acqua fino a quando un collega dell’equipaggio, il cuoco Isaac Maynard, lo aiutò a salire a bordo. Successivamente venne tratto in salvo dalla nave Carpathia. Arrivò a New York il 16 aprile 1912, in buone condizioni fisiche, riportando solo un gonfiore ai piedi.

        Le incongruenze del suo mirabolante racconto

        La testimonianza di Joughin, pur avvincente che sia, presenta alcune incongruenze. Vediamo quali. La prima è il tempo di sopravvivenza nelle acque gelide dell’Atlantco. A temperature vicine agli 0°C, il corpo umano può resistere solo per pochi minuti prima che l’ipotermia diventi letale. Le due ore menzionate da Joughin sembrano davvero molto improbabili. Andiamo avanti. La seconda incongruenza è l’effetto dell’alcol. Contrariamente alla convinzione popolare, l’alcol non protegge dal freddo. Essendo un vasodilatatore, accelera la perdita di calore corporeo, aumentando il rischio di ipotermia. È possibile, però, che l’alcol abbia attenuato lo shock psicologico e fisico, dandogli un senso temporaneo di calore e coraggio. Alcuni esperti ipotizzano che Joughin possa non essere stato in acqua per tutto il tempo indicato o che il suo racconto sia stato influenzato dal trauma e dall’impatto emotivo. E fin qui ci siamo.

        La sua testimonianza in un libro sulla tragedia

        Dopo il naufragio, Joughin tornò in Inghilterra e partecipò come testimone all’inchiesta britannica sulla tragedia, che si tenne tra maggio e luglio 1912. Continuò a lavorare come panettiere su navi da crociera e, dopo la Prima Guerra Mondiale, si arruolò nella marina mercantile. Alla fine, si trasferì in New Jersey, negli Stati Uniti, dove visse fino alla sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1956 a causa di una polmonite. Joughin lasciò un’impronta indelebile nella storia del Titanic, raccontando un’esperienza di sopravvivenza davvero unica che mescola tenacia, fortuna e tanta leggenda. Cos’ leggendario che la sua testimonianza venne inclusa nel libro A Night to Remember di Walter Lord, che ancora oggi resta una delle opere più autorevoli sulla tragedia.

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          Mistero

          Un milione di dollari per chi decifra la scrittura dell’Indo: la sfida del secolo per linguisti e archeologi

          La scrittura dell’Indo è uno dei più grandi misteri dell’archeologia: oltre quattromila iscrizioni incise su sigilli e ceramiche attendono ancora di essere decifrate. Il primo ministro dello stato indiano del Tamil Nadu lancia la sfida: un milione di dollari a chi riuscirà nell’impresa.

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            Linguisti, crittografi e archeologi di tutto il mondo, è il vostro momento. Il governo del Tamil Nadu, nel sud-est dell’India, ha deciso di mettere sul piatto un milione di dollari per chiunque riesca a decifrare la misteriosa scrittura della civiltà della Valle dell’Indo, una delle più antiche della storia umana.

            L’annuncio è arrivato dal primo ministro Muthuvel Karunanidhi Stalin, che ha reso nota l’iniziativa dopo la pubblicazione di uno studio che suggerisce una possibile connessione tra i segni della scrittura dell’Indo e alcune iscrizioni trovate su ceramiche locali. Se questa ipotesi si rivelasse fondata, potrebbe rappresentare una svolta storica nella comprensione di una delle prime società urbane del pianeta.

            La civiltà della Valle dell’Indo: un mondo scomparso e ancora sconosciuto

            Fiorita circa 5.300 anni fa, la civiltà della Valle dell’Indo – nota anche come civiltà di Harappa – si sviluppò nell’attuale nord-ovest dell’India e in Pakistan. I suoi abitanti erano abili agricoltori e commercianti, costruirono città avanzate con sistemi fognari e strade pianificate, e stabilirono rapporti commerciali con le civiltà mesopotamiche.

            Eppure, nonostante la loro sofisticatezza, la civiltà dell’Indo scomparve improvvisamente, lasciando dietro di sé pochissime tracce e nessuna spiegazione chiara. Non sono state trovate prove di guerre, invasioni o catastrofi naturali, rendendo il loro declino un enigma ancora irrisolto.

            A complicare tutto c’è la loro scrittura: circa 4.000 iscrizioni brevi, incise su piccoli oggetti come sigilli, tavolette e ceramiche, che nessuno è mai riuscito a decifrare.

            Un enigma irrisolto: la scrittura dell’Indo

            La scrittura della civiltà dell’Indo è una delle più grandi sfide della linguistica storica. A differenza dei geroglifici egizi o della scrittura cuneiforme sumera, non esiste una “Stele di Rosetta” che aiuti a stabilire un confronto con lingue già conosciute.

            Le ipotesi sulla sua natura sono molteplici. Alcuni studiosi ritengono che sia una forma arcaica di scrittura Brahmi, antenata degli alfabeti indiani moderni. Altri la collegano a lingue indo-ariane o addirittura al sumero. Ma finora nessuna teoria ha fornito prove definitive.

            L’assenza di testi lunghi e strutturati complica ulteriormente l’analisi: le iscrizioni conosciute sono brevissime, spesso composte da meno di cinque segni, il che rende difficile identificare schemi grammaticali o fonetici.

            La sfida: un milione di dollari per chi troverà la chiave del codice

            Di fronte a un enigma che neppure i più grandi esperti sono riusciti a risolvere, il governo del Tamil Nadu ha deciso di lanciare la sfida definitiva, mettendo in palio l’equivalente di 960.000 euro per chi riuscirà a decifrare la scrittura.

            L’iniziativa arriva in un momento in cui la ricerca sulle origini delle lingue indiane è sempre più al centro del dibattito accademico. L’obiettivo è capire meglio le radici della cultura Tamil e le possibili connessioni con la civiltà dell’Indo, colmando una lacuna storica che dura da millenni.

            Ma la domanda è: qualcuno riuscirà davvero nell’impresa? Finora, neanche l’intelligenza artificiale ha dato risposte convincenti. Nel 2019, un team di ricerca ha provato a usare modelli di machine learning per identificare schemi nei simboli dell’Indo, ma senza risultati definitivi.

            Ora la sfida è aperta a tutti: storici, linguisti, matematici e persino appassionati di enigmistica. Se qualcuno troverà la chiave per sbloccare questo mistero, non solo entrerà nella storia, ma si porterà a casa uno dei premi più alti mai offerti per un’impresa archeologica.

            Qualcuno ha una Stele di Rosetta nascosta in soffitta?

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              Mistero

              Remo, il pesce dell’Apocalisse sale dagli abissi e torna a farsi vedere. Che segnale è?

              Sempre più avvistamenti del misterioso pesce remo, il gigante degli abissi che secondo le leggende annuncia terremoti e catastrofi. Coincidenza o segnale inquietante?

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                Lui si muove in modo del tutto naturale anche se intorno gli abbiamo creato un habitat sempre più difficile. Di solito abita nelle profondità oscure degli oceani, dove la luce non arriva e il silenzio è assoluto. E da quel luogo oscuro ha deciso di risalire. È il pesce remo, il leggendario messaggero del Dio del mare, il presagio di sciagure, il portatore di terremoti e tsunami. O almeno, così raccontano le antiche storie giapponesi e filippine. Negli ultimi mesi, questo gigante degli abissi, che può superare gli otto metri di lunghezza, è stato avvistato sempre più spesso nelle acque di tutto il mondo. Dalla California al Messico, dall’India all’Oceania, fino alle coste di Australia, Tasmania e Nuova Zelanda, dove in una sola settimana sono stati trovati quattro esemplari. O è una leggenda e basta?

                Ma che sta succedendo?

                Un numero inquietante, se si pensa che in Australia, fino ad oggi, erano stati registrati appena 70 avvistamenti in tutta la storia. Alcuni di questi pesci sono stati recuperati senza testa, come quelli vicino a Christchurch, in Nuova Zelanda. Ma cosa sta succedendo? Perché questi abitanti degli abissi, che normalmente vivono tra i 200 e i 1000 metri di profondità, stanno emergendo? Secondo la scienza, non c’è alcuna prova che il pesce remo sia davvero un presagio di disastri naturali. Certo, nel 2011, prima del devastante terremoto e tsunami in Giappone, ci furono strani ritrovamenti di questi animali. E nel 2017, prima del sisma di magnitudo 6.6 nelle Filippine, accadde lo stesso. Ma gli esperti insistono: sono solo coincidenze.

                Remo vive sospeso verticalmente in attesa delle sue prede

                Neville Barrett, dell’Istituto di Studi Marini dell’Università della Tasmania, spiega che un terremoto potrebbe far risalire alcuni pesci, ma solo nell’istante stesso della catastrofe, non prima. Nick Ling, ecologo ittico dell’Università di Waikato, sottolinea che sappiamo pochissimo su questi animali, che vivono a profondità estreme e sono quasi impossibili da studiare. Ciò che è certo è che il pesce remo ha strane abitudini. Resta sospeso verticalmente nell’acqua, probabilmente in attesa di prede. È in grado di auto-amputarsi la coda, forse per risparmiare energia. Ora, per qualche motivo ancora ignoto, sta emergendo sempre più spesso. E sono partite le ipotesi. Gli scienziati stanno cercando di capire se dietro questa invasione improvvisa ci siano fattori ambientali, come il riscaldamento delle acque, l’acidificazione degli oceani, la presenza di microplastiche persino nella Fossa delle Marianne. O altre alterazioni causate dall’uomo, più probabile…

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