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Mistero

Quando fai un click e scopri una città Maya… “Valeriana” il sito archeologico scoperto con una semplice ricerca su Google

Uno studente dell’università di Tulane, negli Stati Uniti, analizzando dei dati di una ricerca che stava effettuando ha individuato, nella giungla messicana di Campeche, una città Maya.

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    In un’epoca dominata dalla tecnologia, a volte le scoperte più straordinarie nascono da gesti apparentemente banali. È il caso di Luke Auld-Thomas, un giovane studente di archeologia che, navigando tra le pagine dei risultati di una ricerca su Google, ha fatto una scoperta sensazionale: una città Maya mai vista prima, nascosta da millenni sotto la fitta vegetazione messicana.

    Maya o non Maya? Quando la fortuna aiuta gli audaci (e i curiosi)

    Mentre scorreva i risultati di una ricerca sul monitoraggio ambientale in Messico, Auld-Thomas si è imbattuto in una mappa della giungla dello stato del Campeche. Analizzandola attentamente e confrontandola con le sue conoscenze di archeologia, ha notato qualcosa di inusuale. Ovvero una serie di strutture geometriche che suggerivano la presenza di un antico insediamento.

    La tecnologia al servizio della storia

    La chiave di questa scoperta è stata una tecnologia innovativa chiamata LiDAR (Light Detection and Ranging). Questa tecnica, che utilizza impulsi laser per creare mappe tridimensionali ad alta risoluzione, ha rivoluzionato l’archeologia permettendo di “vedere” attraverso la vegetazione e il terreno. Grazie al LiDAR, i ricercatori sono stati in grado di individuare con precisione le strutture della città nascosta, dalle piramidi ai palazzi, dalle strade alle piazze.

    Valeriana: una città Maya dimenticata

    La città, battezzata Valeriana, si rivela essere un centro urbano di notevoli dimensioni, con una popolazione stimata tra i 30.000 e i 50.000 abitanti al suo apice. Le rovine, che si estendono per oltre 16 chilometri quadrati, testimoniano l’importanza di questo sito nella civiltà Maya. La scoperta di Valeriana getta nuova luce sulla complessità e sull’organizzazione sociale dei Maya, e ci permette di comprendere meglio la loro cultura e il loro modo di vivere. La scoperta di Valeriana è solo l’inizio. I ricercatori sono convinti che ci siano ancora molte altre città Maya nascoste sotto la giungla, in attesa di essere scoperte. Grazie alle nuove tecnologie e all’impegno degli archeologi, stiamo assistendo a una vera e propria rinascita dell’interesse per questa antica civiltà.

    Cosa possiamo imparare da questa scoperta?

    L’importanza della tecnologia. Il LiDAR ha dimostrato di essere uno strumento indispensabile per l’archeologia, aprendo nuove prospettive per la ricerca e la scoperta. Inoltre ci insegna che anche una semplice ricerca su Google può portare a scoperte straordinarie, se si ha la curiosità e la determinazione di andare oltre.

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      Quel morso nell’anca: la scoperta choc che riscrive la storia dei gladiatori in Britannia

      Fino a oggi le prove dei sanguinosi spettacoli tra fiere e gladiatori fuori da Roma erano solo artistiche o letterarie. Ora, per la prima volta, uno scheletro umano con segni compatibili con un morso di leone fornisce la prova materiale che anche nelle province più periferiche dell’Impero si celebrava il macabro culto della violenza. Il teatro? L’antica Eboracum, la moderna York.

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        C’è un foro nell’osso dell’anca. Profondo, netto, senza margini di guarigione. Un taglio che non lascia spazio ai dubbi: chi ha subito quella ferita non è sopravvissuto. La cosa davvero sorprendente è che quel foro non lo ha provocato una spada, né una lancia, né uno dei tanti strumenti di morte dei gladiatori. È un morso. Di leone.

        La scoperta arriva da York, nel Regno Unito, un tempo colonia romana nota come Eboracum, e cambia radicalmente la narrazione storica sugli spettacoli gladiatori fuori dalle mura di Roma. Lo scheletro appartiene a un uomo tra i 26 e i 35 anni, morto circa 1.800 anni fa, il cui corpo è stato sepolto con una cerimonia che suggerisce un certo rispetto. Eppure, di lui oggi resta solo quel foro nell’osso, la firma inconsapevole di un grande felino. E l’ipotesi di una morte sotto le zanne di una belva, in uno spettacolo pubblico.

        Il ritrovamento è parte di un’indagine archeologica durata oltre vent’anni, coordinata dalla Maynooth University e da un consorzio di università e istituti britannici. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Plos One e rappresenta la prima prova osteologica diretta di un combattimento tra uomo e leone in territorio britannico.

        La ferita, ricostruita in 3D, è stata confrontata con diversi modelli di dentature animali: quella del leone, per forma e dimensioni, è l’unica compatibile. “Una scoperta che apre una finestra terribile ma concreta sulla brutalità del potere romano”, spiega John Pearce del King’s College.

        La tomba è stata rinvenuta nel sito di Driffield Terrace, noto per essere una delle necropoli gladiatorie meglio conservate del mondo romano. Già nel 2010 erano stati ritrovati 82 scheletri, molti dei quali con segni evidenti di vita da combattente: corpi robusti, fratture cicatrizzate, articolazioni rovinate dall’eccesso di sforzi. Uno di questi, oggi, parla con un morso.

        Secondo l’archeologa Malin Holst, si trattava di un bestiario, il tipo di gladiatore addestrato a combattere con animali feroci. Le ossa di cavallo trovate accanto a lui, i traumi multipli e persino le tracce di malnutrizione infantile raccontano una vita di fatica, addestramento e probabilmente schiavitù. Un’esistenza passata a sfidare la morte — fino a che, un giorno, la morte ha vinto.

        Eppure York non ha mai restituito tracce dirette di un anfiteatro romano. E allora dov’è avvenuto lo scontro? Forse in una struttura lignea temporanea. Forse in un’arena più piccola e già scomparsa. Di certo la ricchezza di Eboracum — la città che vide l’ascesa dell’imperatore Costantino nel 306 d.C. — giustifica la presenza di simili spettacoli. La provincia non era poi così lontana dal cuore pulsante dell’Impero.

        Non erano solo giochi, erano messaggi politici. Simboli della forza romana, della sua capacità di domare le bestie, reali e metaforiche. La presenza di un leone a York ci ricorda un dettaglio spesso ignorato: l’impero catturava e deportava migliaia di animali esotici. Leoni, pantere, orsi dai monti dell’Atlante, tigri dall’India, giraffe, coccodrilli e ippopotami dall’Egitto. Viaggi impossibili, durissimi, solo per garantire al popolo quel miscuglio di orrore e meraviglia che teneva in piedi il consenso imperiale.

        Quello che oggi possiamo chiamare intrattenimento era, in realtà, propaganda fatta carne. Carne umana, carne animale. E sangue.

        Il foro nel bacino dell’uomo di York racconta tutto questo. Non servono mosaici, né affreschi, né epigrafi. Basta un morso. E un osso che ha atteso quasi due millenni per farsi sentire.

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          Rituali e miti Egizi: il mistero del vaso di Bes e l’intruglio allucinogeno del passato

          Gli antichi Egizi bevevano un mix di alcol, fluidi corporei e allucinogeni: la prova in una tazza di Bes.

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            Nel cuore del Tampa Museum of Art, tra le collezioni permanenti esposte nella mostra “Prelude: An Introduction to the Permanent Collection”, riproposta dopo varie integrazioni, brilla un pezzo unico che svela un aspetto intrigante dell’Antico Egitto. Si tratta di un vaso di Bes, la cui analisi scientifica ha rivelato segreti di antichi rituali religiosi. Questo manufatto, datato al periodo tolemaico, custodiva al suo interno residui di una miscela affascinante e allo stesso tempo molto inquietante. Si tratta di un intruglio di alcol, sostanze allucinogene e fluidi corporei. Questo miscuglio sembra aver avuto un ruolo simbolico e rituale, aiutando i partecipanti a rievocare la potenza di un mito epico legato alla divinità Bes e alla dea Hathor.

            La scoperta scientifica dietro il mito di Bes

            Il vaso di Bes è stato sottoposto a una serie di analisi avanzate, tra cui la spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FTIR) e l’estrazione di DNA antico. Le analisi hanno rivelato la presenza di sostanze come ruta selvatica, loto egiziano e una pianta del genere Cleome, tutte note per le loro proprietà psicotrope. Il contenuto era arricchito con ingredienti simbolici come miele, uva, semi di sesamo e pinoli, che contribuivano a rendere la miscela simile al sangue, evocando il mito dell’Occhio Solare. Secondo la leggenda, Bes riuscì a calmare l’ira della dea Hathor offrendole una bevanda allucinogena camuffata da sangue, inducendo in lei un sonno profondo e pacificante.

            Riti di evocazione e significato religioso

            Questa miscela non era solo una bevanda, ma un ponte verso il trascendente. Gli antichi Egizi la utilizzavano probabilmente in rituali che combinavano l’assunzione della sostanza con danze, canti e preghiere, tentando di ricreare un momento mitico di grande significato. La presenza di fluidi corporei nel composto, come saliva e sangue, potrebbe essere un simbolo di connessione tra umano e divino, oppure il risultato di pratiche di preparazione rituale.

            Bes, il protettore di tutti

            La divinità Bes, rappresentata come un nano grottesco con tratti leonini, è una figura enigmatica del pantheon egizio. Protettore della fertilità, delle partorienti e degli infanti, Bes era anche un dio popolare e accessibile. La sua immagine, spesso associata a rituali di protezione e gioia, viaggiò fino a raggiungere il Mediterraneo occidentale, portata dai navigatori fenici e cartaginesi.

            Una nuova luce sul passato

            Come ha sottolineato il professor Davide Tanasi della University of South Florida, il ritrovamento scientifico non solo conferma la veridicità di certi aspetti dei miti egizi, ma apre una finestra sui rituali poco conosciuti legati al culto di Bes e di altre divinità. Grazie a questa scoperta, la ricca cultura spirituale dell’Antico Egitto si arricchisce di nuovi dettagli, rivelando l’intima connessione tra mito, rituale e sostanze simboliche.

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              Dracula sepolto a Napoli? Decifrata l’iscrizione sulla tomba misteriosa che riaccende la leggenda

              Secondo una nuova ipotesi, Vlad l’Impalatore – ispiratore del Dracula letterario – non sarebbe morto in battaglia ma portato a Napoli dalla figlia e sepolto in una tomba nobiliare. La recente decifrazione di un’antica iscrizione potrebbe confermare tutto.

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                Dracula potrebbe essere morto a Napoli. Non è il plot di un film, ma una teoria che da anni incuriosisce studiosi, turisti e appassionati di misteri storici. Al centro di tutto, una tomba nel complesso monumentale di Santa Maria la Nova, a due passi dal cuore antico della città. E ora, una svolta clamorosa: la decifrazione di un’iscrizione funebre finora rimasta oscura rilancia la possibilità che sia davvero la sepoltura di Vlad III di Valacchia, il famigerato Impalatore passato alla leggenda come Dracula.

                Ad anticiparlo è Giuseppe Reale, direttore del complesso, che dalla Romania fa sapere che un gruppo di studiosi ha interpretato la scritta come un elogio funebre dedicato proprio al principe valacco vissuto tra il 1431 e il 1477. Secondo la teoria, Vlad non sarebbe morto in battaglia, ma catturato dai turchi e poi liberato dalla figlia Maria Balsa, rifugiatasi a Napoli dopo essere stata adottata da una nobile famiglia locale.

                Alla sua morte, Vlad sarebbe stato tumulato nella cappella Turbolo, nella tomba del suocero della figlia. La tomba, decorata con simboli egizi, draghi e iconografie non riconducibili alla tradizione locale, era già al centro di speculazioni fin dal 2014. Ora, però, la decifrazione dell’epigrafe – datata attorno al Cinquecento – dà nuova linfa alla leggenda.

                Napoli, del resto, è abituata a ospitare l’impossibile: santi che fanno miracoli, sangue che si scioglie, teschi che parlano. E ora anche un Dracula… in trasferta definitiva. Non resta che attendere conferme, ma intanto il fascino resta intatto. Perché forse l’Impalatore non è mai tornato in Transilvania. Ha solo cambiato castello.

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