Mondo
Ancora morti in mare: affonda un sommergibile turistico nel Mar Rosso, sei vittime e nove feriti
A un anno dal disastro del Titan, la lezione sembra già dimenticata. Il sommergibile offriva immersioni ricreative fino a 25 metri per ammirare la barriera corallina, ma qualcosa è andato storto. Non è il primo incidente nella zona: negli ultimi cinque anni si contano almeno 16 episodi simili

La tragedia è tornata a galla nel Mar Rosso. Nelle prime ore di oggi, al largo della città egiziana di Hurghada, un sommergibile turistico è affondato causando la morte di almeno sei persone e il ferimento di altre nove. Quattro dei feriti versano in condizioni critiche, secondo quanto riferito da fonti locali alla Bbc. A bordo del mezzo, il “Sindbad”, c’erano circa quaranta turisti al momento dell’incidente. Ventidue di loro sono stati salvati, ma il bilancio resta pesante.
Il nome della compagnia, Sindbad Submarines, evoca viaggi esotici e meraviglie sottomarine. Ma oggi il fascino dell’avventura ha lasciato il posto all’orrore. Il sottomarino – uno dei soli 14 veri sommergibili ricreativi al mondo – era in attività da diversi anni nella zona, trasportando quotidianamente gruppi di turisti fino a 25 metri di profondità per esplorare le barriere coralline e la fauna marina del Mar Rosso. Sul sito ufficiale della compagnia si descriveva l’esperienza come “sicura, confortevole, unica”, garantendo per ogni passeggero un ampio oblò panoramico e un viaggio all’insegna della meraviglia.
Eppure, qualcosa è andato storto. E la cronaca si è macchiata, ancora una volta, di sangue.
L’imbarcazione poteva ospitare 44 passeggeri e due piloti. Proprio mentre compiva una delle sue escursioni abituali, il “Sindbad” si è inabissato senza lasciare scampo a una parte delle persone a bordo. Le cause dell’incidente non sono ancora ufficiali, ma il pensiero corre immediatamente a quel giugno 2023 in cui il mondo intero seguiva col fiato sospeso la vicenda del Titan, il sommergibile imploso nell’oceano Atlantico durante un’immersione verso il relitto del Titanic. Anche in quel caso, una missione turistica trasformata in catastrofe.
Il parallelo è inevitabile. E lo è anche la domanda: abbiamo davvero imparato qualcosa?
Hurghada è da tempo una meta turistica molto frequentata, ma non è nuova a disastri del genere. Solo a novembre scorso, sempre al largo della costa, la barca turistica Sea Story è affondata causando undici tra morti e dispersi, con 35 superstiti. In quel caso le autorità egiziane attribuirono la colpa a un’enorme onda alta fino a quattro metri, ma le testimonianze raccolte dalla Bbc parlavano anche di gravi mancanze nelle misure di sicurezza a bordo.
E la questione non finisce qui. Secondo un’inchiesta britannica pubblicata il mese scorso, negli ultimi cinque anni ci sono stati almeno 16 incidenti che hanno coinvolto imbarcazioni turistiche nella stessa area, alcuni dei quali con vittime.
Una tendenza preoccupante, troppo spesso sottovalutata.
Il turismo subacqueo e le esperienze estreme – dalle immersioni alle esplorazioni in profondità – attirano ogni anno migliaia di visitatori, ma dietro l’immagine patinata delle brochure e dei video promozionali si nasconde una realtà fatta di rischi, pressioni commerciali e, talvolta, standard di sicurezza non all’altezza.
Il dramma del Sindbad ci riporta bruscamente con i piedi per terra. E sotto il livello del mare. Dove il fascino del mistero può diventare, in un attimo, il teatro di una nuova tragedia.
Una tragedia evitabile? Forse sì. Ma ancora una volta si dovrà aspettare che siano le autorità a fornire risposte. Intanto, le vittime aumentano. E la sensazione è che, a ogni nuova discesa negli abissi, si sprofondi un po’ di più anche nel vuoto delle responsabilità.
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Mondo
Pasqua 2025: Papa Francesco sarà a San Pietro, ma con alcune rinunce
Migliorano le condizioni fisiche di Papa Francesco, che sarà presente a San Pietro per la Pasqua. Alcuni riti, però, saranno affidati a collaboratori per alleggerire i suoi impegni.

Papa Francesco si prepara a celebrare la Pasqua 2025, con qualche importante adattamento al programma. Dopo settimane di incertezza legate alla sua salute, il recupero appare evidente: la voce è più ferma, il tono meno esitante rispetto alla domenica delle Palme. Segnali che confermano la sua presenza in Piazza San Pietro per la Messa di Pasqua e, soprattutto, per l’attesa benedizione Urbi et Orbi.
Sebbene la celebrazione della Messa pasquale potrebbe essere affidata, in parte, a un cardinale di curia, la benedizione dalla Loggia della Basilica spetta esclusivamente al Pontefice. L’ipotesi di un testo accorciato per facilitarne la lettura resta sul tavolo, ma il Vaticano non ha ancora confermato ufficialmente modifiche al tradizionale rito.
Nel frattempo, Francesco ha già delegato ad altri cardinali alcune celebrazioni del Triduo Pasquale. La Messa in Coena Domini sarà presieduta dal cardinale Calcagno, mentre il cardinale Gugerotti guiderà la celebrazione del Venerdì Santo. Anche la Via Crucis al Colosseo, i cui testi sono stati scritti dallo stesso Papa, sarà affidata al cardinale vicario Angelo De Donatis.
Resta incerta, invece, la celebrazione del rito della lavanda dei piedi. Negli anni scorsi Francesco aveva voluto compierlo in carceri e strutture di accoglienza. Quest’anno, considerate le condizioni fisiche, si valuta l’ipotesi di una cerimonia privata a Santa Marta, con pochi presenti. Come spesso accade con il Pontefice, ogni decisione definitiva dipenderà dalle sue condizioni al momento.
Dopo la lunga degenza, Francesco appare più energico: è stato visto in sedia a rotelle ma senza ossigeno, e l’attività di governo è ripresa regolarmente. I medici avevano consigliato prudenza e limitazioni nei contatti con le folle, ma il Papa sembra aver scelto la via della normalità, incontrando fedeli e bambini senza particolari restrizioni.
Un’ulteriore conferma della risonanza dell’evento pasquale arriva dagli ospiti internazionali: sul sagrato di San Pietro sarà presente anche il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, segno del forte interesse globale intorno a questa Pasqua 2025.
Papa Francesco, pur tra inevitabili limitazioni, dimostra ancora una volta la volontà di essere presente nei momenti più importanti della vita della Chiesa. La sua presenza alla benedizione Urbi et Orbi sarà un simbolo potente di speranza e resilienza, proprio mentre i cattolici di tutto il mondo si preparano a celebrare il mistero della Resurrezione.
Mondo
Su le mutande, siamo in guerra! Gli Usa vietano il sesso con i cinesi per paura delle spie
La nuova direttiva americana vieta agli impiegati e contractor in Cina di avere qualsiasi rapporto sentimentale o sessuale con la popolazione locale. L’eco della Guerra fredda torna sotto le lenzuola, tra ambasciate, consolati e campus universitari. Pechino reagisce allertando studenti, turisti e persino aziende. Intanto i social si stringono attorno al cestista Cui Yongxi, temendo che anche lui finisca vittima collaterale del gelo Usa-Cina.

Altro che spionaggio cibernetico e dazi commerciali: la nuova frontiera del conflitto tra Stati Uniti e Cina passa dalla biancheria intima. E anche stavolta, l’intelligence ha deciso che non si può più “scendere a compromessi”: d’ora in poi, i funzionari americani che operano nel territorio cinese dovranno tenere chiuse le braguette oltre che la bocca. Vietatissimi i flirt, proibiti i baci, aboliti gli amori da esportazione: chi sgarra viene impacchettato e rispedito in patria, con buona pace della diplomazia… e dei sensi.
La direttiva — che sa più di castità forzata che di sicurezza nazionale — è stata varata a gennaio per volere dell’ambasciatore Nicholas Burns, poco prima di levare l’ancora. Ma la mano che stringe il nodo della cravatta è quella, neanche troppo invisibile, dell’apparato federale, da tempo in allarme per le cosiddette “honey trap”: trappole al miele che non si trovano nei barattoli, ma tra le lenzuola. Il rischio? Che una notte focosa si trasformi in un incubo da dossier classificato.
Le agenzie americane in Cina — ambasciata di Pechino, consolati sparsi e persino Hong Kong — hanno ricevuto l’ordine tassativo: niente ammiccamenti, zero Tinder, nemmeno un caffè offerto per sbaglio. Solo chi è già regolarmente impegnato con un cittadino o una cittadina cinese può tirare un sospiro di sollievo e continuare a portare fiori. Tutti gli altri: muti, casti e controllati. I contractor della sicurezza si trovano così a fare la guardia con lo spray al peperoncino in una mano e il cilicio metaforico nell’altra.
La risposta di Pechino? Rapida, puntuale e vagamente passivo-aggressiva. Il Ministero della Cultura ha subito diffuso un messaggio rivolto a chi avesse in programma una gitarella negli Stati Uniti: “Valutate i rischi. Potreste incontrare un americano”. Come dire: se li riconoscete, evitateli. Se li amate, scappate. Meglio una vacanza in Siberia che in Florida, e non solo per il clima.
Ma non è finita qui. Il Ministero della Scuola ha lanciato un’allerta a tutti gli studenti cinesi che frequentano college e università a stelle e strisce. E il Ministero del Commercio ha affondato il colpo contro sei nuove compagnie americane accusate di vendere armamenti a Taiwan. Insomma: tu mi vieti il sesso, io ti taglio i droni.
Sullo sfondo, l’ombra lunga della propaganda. Quella che qualche anno fa, ai tempi del “China Virus” targato Trump, aveva acceso le micce del sospetto e della paranoia. Cinque anni dopo, siamo di nuovo lì. Anzi: peggio. Perché ora, oltre alle dogane, ci sono i letti monitorati e i cuori sotto sorveglianza.
A farne le spese potrebbe essere anche un ragazzo di 21 anni, del tutto ignaro della bufera geopolitica: Cui Yongxi, alias Jacky Cui, primo cinese nella storia dei Brooklyn Nets, squadra NBA controllata dal miliardario taiwanese-canadese Joseph Tsai. Lui corre, schiaccia, sorride. Ma sui social già si leva il coro: “Per favore, non fischiatelo. È solo basket, non è una guerra fredda”.
Peccato che oggi, in tempi di sanzioni incrociate, restrizioni affettive e amore blindato, anche un tiro libero possa sembrare un gesto sovversivo.
Mondo
Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas
Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.
Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.
Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker
Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.
Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.
Prezzi su, Borsa giù
Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.
Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.
Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni
Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.
Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.
Il paradosso della produzione americana
Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.
E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.
Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.
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