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Assange patteggia, il fondatore di WikiLeaks è libero

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    Il giornalista ed esperto informatico conclude un accordo con l’amministrazione Biden, patteggiando negli USA. Dichiarandosi colpevole, potrà evitare la reclusione negli Stati Uniti, poi tornerà in Australia. Ha già lasciato Londra con un volo.

    Non andrà in rpigione in America

    Il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è libero, dopo aver accettato di dichiararsi colpevole in una delle più grandi violazioni di materiale classificato. Si tratta di un accordo con il Dipartimento di Giustizia USA, che gli permetterà di evitare la prigione negli Stati Uniti e di tornare in Australia.

    La moglie ringrazia chi si è mobilitato

    Il personaggio che ha scosso il mondo con Wikileaks ha lasciato lunedì il Regno Unito e il carcere di massima sicurezza vicino Londra dove era stato incarcerato per cinque anni. Sua moglie Stella ringrazia tutti quelli che si sono spesi in suo favore su X: “Le parole non possono esprimere la nostra immensa gratitudine a voi, sì proprio voi, che vi siete tutti mobilitati per anni e anni per far sì che tutto ciò diventasse realtà. Grazie”.

    Gli fa eco la madre

    La madre di Assange dichiara: “Il calvario di mio figlio sia finalmente giunto al termine. Ciò dimostra l’importanza e il potere della diplomazia silenziosa. Molti hanno sfruttato la situazione di mio figlio per portare avanti i propri programmi”. Si è altresì detta “grata a quelle persone invisibili e laboriose che hanno messo al primo posto il benessere di Julian”.

    Il patteggiamento in sintesi

    Il fondatore di WikiLeaks si dichiarerà quindi colpevole e il Dipartimento di Giustizia americano chiederà a sua volta una condanna a 62 mesi di carcere: esattamente il tempo già trascorso da Assange nel carcere di massima sicurezza londinese, quando si opponeva alla sua estradizione negli USA. Il patteggiamento gli permetterà di fare immediatamente ritorno nella nativa Australia.

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      Mondo

      L’uomo Del Monte ha detto stop: bancarotta storica per l’icona americana delle conserve

      Fondata nel 1886, la Del Monte era sinonimo di qualità e praticità. Ma frutta in scatola, verdure conservate e succhi oggi non bastano più. Il debito di 1,2 miliardi e la perdita d’identità mettono fine a un’epoca.

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        L’uomo Del Monte ha detto stop. Stavolta per davvero. Dopo 139 anni, la leggendaria azienda alimentare statunitense Del Monte Foods ha dichiarato bancarotta. Il 1° luglio 2025, la società ha fatto ricorso al Chapter 11, lo strumento legale che permette la ristrutturazione del debito sotto il controllo del tribunale, nel tentativo di salvare ciò che resta di un impero ormai in frantumi.

        Una crisi annunciata. Le vendite crollano, il debito supera 1,2 miliardi di dollari, e la storica azienda — resa celebre da uno spot iconico degli anni ’80 con un distinto signore in bianco che assaggiava frutta matura — non riesce più a reggere il confronto con un mercato profondamente mutato.

        Oggi i consumatori chiedono freschezza, sostenibilità, tracciabilità. La frutta in scatola è passata da simbolo di progresso a prodotto percepito come vecchio e superato. E anche le private label, con prezzi più bassi e qualità crescente, hanno rosicchiato quote di mercato al colosso americano.

        Del Monte ha provato a rispondere. Packaging sostenibili, linee “healthy”, porzioni monodose. Ma la trasformazione è arrivata tardi e con scarso impatto. Nemmeno il prestito d’emergenza da 900 milioni di dollari, concesso da alcuni creditori, sembra sufficiente a evitare il collasso.

        Fondata in California nel 1886, la società aveva resistito a guerre, crisi e rivoluzioni industriali. Ma non ha superato la rivoluzione culturale del carrello della spesa.

        Niente chiusura immediata, ma la Del Monte che conoscevamo non esiste più. Quel sì sussurrato dall’uomo in panama ora è diventato un no secco, definitivo. E per una volta, nessuno può dargli torto.

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          Mondo

          Elon Musk lancia l’idea dell’“America Party”: così può fregare Trump e aiutare i Democratici

          Il sogno di Elon Musk non è solo spaziale: ora punta alla politica. E nel giorno del 4 luglio, la festa dell’Indipendenza americana, ha pubblicato su X un sondaggio destinato a far discutere: “Dovremmo creare il partito dell’America?” La proposta è quella di un terzo soggetto politico, indipendente, capace di spaccare il sistema bipartitico USA e diventare ago della bilancia alle prossime elezioni. Una provocazione? Forse. Ma anche una strategia. E Grok, la sua intelligenza artificiale, ha già fatto i conti

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            Il post di Musk ha totalizzato in poche ore oltre 30 milioni di visualizzazioni e più di 45 mila commenti. Ma non è una sparata a caso: risponde infatti a chi gli chiedeva che impatto potrebbe avere un “America Party” alle elezioni di medio termine del 2026 o, peggio per Trump, alle presidenziali del 2028.

            Musk ha una sua teoria molto chiara: non serve conquistare tutto, basta colpire bene. «Concentrarsi su 2 o 3 seggi chiave al Senato e 8-10 collegi alla Camera – ha spiegato – sarebbe sufficiente per diventare decisivi sulle leggi più controverse. Con i margini attuali, ogni voto conta».

            Grok analizza: “Basta il 5% per cambiare tutto”

            A elaborare la visione è Grok, il sistema IA integrato su X e creato proprio da Musk. Secondo Grok, un partito alternativo potrebbe ottenere tra il 5 e il 10% in diversi Stati incerti come Pennsylvania, Georgia, Wisconsin, Nevada, Michigan e Arizona. Abbastanza per spezzare l’asse repubblicano e, paradossalmente, favorire i Democratici. Esattamente come accadde con Ross Perot nel 1992, che tolse voti a Bush padre e spianò la strada a Clinton.

            Nel suo report, Grok sottolinea: “Il successo dipenderà dall’accesso alle schede elettorali e dai finanziamenti”. E sui soldi Musk non ha problemi: con il suo patrimonio personale può autofinanziare una campagna nazionale e, soprattutto, controllare direttamente la piattaforma di comunicazione più efficace: X.

            Il vero rischio per Trump

            La mossa è di quelle che potrebbero tagliare le gambe al tycoon. Perché anche un 7-8% di voti in meno in alcuni Stati chiave potrebbe fare la differenza nel Collegio Elettorale. E se Trump si ritrovasse beffato da Musk, non sarebbe solo uno smacco politico, ma personale. La guerra dei miliardari, insomma, è appena cominciata. E questa volta non si combatte su Marte, ma nei seggi americani.

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              Putin resuscita Intervision per sfidare l’Occidente e annuncia: “Gli Stati Uniti ci saranno sul palco”

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                Mancano 78 giorni. Un maxi-schermo in piazza del Maneggio, davanti al Cremlino, scandisce il conto alla rovescia verso un evento che sembra uscito dagli archivi della Guerra fredda: il ritorno di Intervision, la versione sovietica dell’Eurovision. E la notizia che scuote la diplomazia internazionale è una sola: tra i partecipanti ci saranno anche gli Stati Uniti.

                Sì, proprio loro. Lo conferma la Tass, agenzia stampa russa: Washington invierà una delegazione al festival musicale voluto da Vladimir Putin per riaffermare i “valori tradizionali” contro le derive “globaliste” di Eurovision. La kermesse andrà in scena a Mosca il 20 settembre, con delegazioni di Paesi “amici” come Cina, Iran, Venezuela, Cuba, Bielorussia, Qatar e Serbia. E ora anche gli Usa.

                Intervision, o Intervidenie in russo, è molto più di un concorso musicale. È una dichiarazione di intenti. Dopo l’esclusione della Russia da Eurovision nel 2022 – a causa della guerra in Ucraina – il Cremlino ha scelto di creare una propria vetrina musicale, completamente scollegata dai valori occidentali. “Un festival per famiglie, patriottico e sovrano”, ha detto il ministro della Cultura russo. E lo sarà: a rappresentare Mosca ci sarà Shaman, idolo pop ultranazionalista, famoso per il brano “Sono russo”. Nella giuria siederà anche Igor Matvienko, fondatore dei Liubè, il gruppo preferito di Putin.

                Ma è la presenza americana a rendere l’evento esplosivo. Per ora non si conosce l’identità del cantante o del gruppo che rappresenterà gli Usa. C’è chi ipotizza un artista vicino all’ambiente trumpiano, magari per lanciare un messaggio preciso in vista delle elezioni. Intanto, l’Ucraina protesta: “È propaganda russa”, ha detto il ministero degli Esteri, invitando i Paesi alleati a boicottare il festival.

                La verità è che Putin vuole riscrivere la geopolitica anche con le canzoni. E questa volta, il microfono diventa un’arma.

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