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Caine, il generale “senza regole” scelto da Trump: «Sono pronto a uccidere per lei, signore»

Razin Caine, soprannominato “Raising Cain”, ha conquistato Trump con uno slogan: «Ucciderò per lei». Nessun rispetto per i regolamenti, ma una devozione assoluta. Così diventa il nuovo capo di Stato maggiore congiunto.

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    «Sono pronto a uccidere per lei, signore». È una frase che Donald Trump ripete spesso con orgoglio, attribuendola al generale Razin Caine. L’aneddoto cambia di versione in versione – con o senza berretto MAGA, tempi di annientamento dell’Isis oscillanti – ma il succo resta quello: un uomo che si presenta come soldato, ma si comporta come un devoto. E per Trump, nulla vale più della lealtà personale.

    Quando lo incontra per la prima volta in Iraq, Caine – che usa il soprannome da pilota di caccia invece del suo nome di battesimo – colpisce subito l’allora presidente. Carisma, spirito da “disruptor”, linguaggio muscolare. Il tipo d’uomo che Trump immagina al vertice del potere militare. E così, al suo ritorno alla Casa Bianca, decide di piazzarlo dove nessun regolamento avrebbe mai permesso: alla guida dello Stato maggiore congiunto delle forze armate USA.

    A farne le spese è il generale Charles Q. Brown Jr., nominato da Biden e bollato come “troppo woke” per le idee progressiste sulle pari opportunità. Afroamericano e moderato, Brown viene silurato senza tante cerimonie. Caine prende il suo posto grazie a un’eccezione presidenziale, pur senza possedere i requisiti tecnici per il ruolo. Il Senato si piega: 60 voti favorevoli, 25 contrari, 15 assenti per le festività pasquali. Un numero basso per una carica così delicata, normalmente approvata con ampia maggioranza.

    Il soprannome di Caine non è casuale: “Razin”, da “to raze”, radere al suolo. E “Raising Cain”, nell’inglese gergale, significa “scatenare il caos”. Tutto torna. È l’uomo giusto per l’America che Trump vuole: meno regole, più muscoli.

    Caine ha 56 anni, una laurea in economia al Virginia Military Institute, migliaia di ore di volo su F-16 e due missioni in Iraq alle spalle. Ha diretto operazioni contro i missili Scud, lavorato nel Joint Special Operations Command, poi alla CIA. Il suo addestramento come pilota Euro-NATO e la lunga carriera lo rendono esperto. Ma è la fedeltà cieca, non il curriculum, ad avergli aperto la porta più alta del Pentagono.

    In un’epoca in cui la linea tra potere civile e militare torna a farsi sottile, la figura di Caine è il simbolo di un esercito sempre più politicizzato. E di un comandante in capo che, più che generali, cerca fedelissimi. Anche a costo di radere al suolo ogni prassi.

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      Sanders e Ocasio Cortez invocano l’impeachment: “Trump ha deciso da solo la guerra, è un atto incostituzionale gravissimo”

      Con l’operazione “Martello di Mezzanotte”, il tycoon sfida ancora una volta il Congresso. Sanders grida alla violazione costituzionale, Ocasio-Cortez invoca l’impeachment. Gli USA bombardano, ma la vera esplosione è politica.

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        L’America bombarda. Ma stavolta, le esplosioni più fragorose non sono nei cieli sopra l’Iran, ma nei corridoi del potere a Washington. Con l’operazione “Martello di Mezzanotte”, lanciata su obiettivi nucleari iraniani, Donald Trump ha scatenato una bufera che rischia di travolgere non solo il Medio Oriente, ma anche l’equilibrio costituzionale degli Stati Uniti.

        Il primo a parlare è Bernie Sanders. Non urla, ma le sue parole pesano come macigni: «È un atto gravemente incostituzionale. Solo il Congresso può decidere se portare il nostro Paese in guerra. Trump ha abusato del suo potere». Applausi a scena aperta, in un comizio a Tulsa. “No world war!”, urlano in coro i suoi sostenitori.

        Alexandria Ocasio-Cortez non usa mezzi termini: «Trump ha ordinato un bombardamento senza autorizzazione. È una violazione della Costituzione, del War Powers Act e una base legittima per l’impeachment». È una delle accuse più dirette mai rivolte da un membro del Congresso a un presidente in carica per un’azione militare. E per la prima volta, la parola “impeachment” torna sul tavolo non per questioni fiscali o sessuali, ma per bombe sganciate oltre confine.

        La questione non è solo politica, ma giuridica. L’articolo I della Costituzione assegna al Congresso il potere esclusivo di dichiarare guerra. Il War Powers Act del 1973 stabilisce che il presidente può intervenire militarmente solo in casi di emergenza, con l’obbligo di notificare il Congresso entro 48 ore e ottenere un’autorizzazione entro 60 giorni. Il problema è che, da decenni, ogni presidente aggira la norma invocando “urgenze”.

        La Casa Bianca afferma che Trump ha rispettato la procedura, informando i vertici del Congresso «poco dopo il decollo degli aerei». Ma il dibattito è tutt’altro che chiuso. E il precedente potrebbe costare caro. Non solo sul piano interno, ma anche nella corsa per la Casa Bianca.

        Trump, da parte sua, sembra non preoccuparsene: «È un giorno storico. L’America è più forte. I Repubblicani sono uniti. MAGA!». Ma l’eco delle critiche cresce. E stavolta, non si tratta solo di politica: è una battaglia per l’anima democratica degli Stati Uniti.

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          Studiare negli Stati Uniti? Ora serve anche il “visto social”

          Controlli sui profili online, appuntamenti bloccati e incertezza diplomatica: ecco cosa devono sapere gli studenti italiani che sognano l’America.

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            Studiare negli Stati Uniti è sempre stato un sogno per migliaia di studenti italiani, ma oggi quel sogno passa anche da un nuovo checkpoint: i social network. Dal 18 giugno 2025, il Dipartimento di Stato americano ha introdotto una misura che impone a tutti i richiedenti di rendere pubblici i propri profili social. Post, commenti, like e condivisioni saranno passati al setaccio dai funzionari consolari. Obiettivo: individuare eventuali “segnali di ostilità” verso gli Stati Uniti, la loro cultura o le istituzioni.

            Consolati in attesa di nuovi ordini

            La misura riguarda tutti i visti legati all’istruzione e agli scambi culturali: F1 per studenti universitari, J1 per liceali e programmi di scambio, M1 per formazione professionale. E non si tratta solo di nuove richieste: anche i rinnovi saranno soggetti a questo screening digitale. Il problema? Al momento non è ancora possibile fissare nuovi appuntamenti nei consolati americani in Italia. La procedura è stata riattivata “sulla carta”, ma nei fatti resta bloccata, lasciando migliaia di studenti, ricercatori e professori in un limbo burocratico. Le critiche non si sono fatte attendere. L’American Council on Education e NAFSA hanno espresso timori sull’impatto dissuasivo della misura. Sottolineano il rischio di un calo significativo nelle iscrizioni internazionali, già segnate da oltre 1.800 revoche di visto per motivi politici o ideologici.

            Organizzazioni come ACLU e Human Rights Watch parlano di un “effetto gelido” sulla libertà di espressione, mentre il mondo accademico teme un crollo delle iscrizioni internazionali. Il rischio è che il visto diventi un test politico, soprattutto per chi ha espresso opinioni critiche, ad esempio in merito al conflitto israelo-palestinese.

            Cosa fare, allora, se si vuole studiare negli USA?

            Pulizia digitale. Rivedere i propri profili social, impostare la privacy su “pubblico” come richiesto, ma con attenzione a contenuti potenzialmente controversi. Avere sempre la documentazione pronta. Preparare con largo anticipo tutti i documenti richiesti, inclusi quelli accademici e finanziari. Monitorare i canali ufficiali come ambasciate e consolati che pubblicano aggiornamenti sulle disponibilità degli appuntamenti. Magari valutare alternative agli Stati Uniti. In caso di ritardi prolungati, considerare programmi in altri Paesi anglofoni o posticipare l’esperienza. Insomma studiare negli Stati Uniti è ancora possibile, ma occorre munirsi di più pazienza, più trasparenza e più consapevolezza digitale. Il sogno americano passa anche da un feed Instagram e ogni like potrebbe fare la differenza.

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              Dalla promessa di “zero conflitti” ai raid congiunti su Fordow, Natanz e Isfahan: così la Casa Bianca si allinea a Israele

              Gli Stati Uniti hanno colpito con missili di precisione le basi atomiche di Fordow, Natanz e Isfahan, affiancandosi ufficialmente all’offensiva israeliana. Teheran ha risposto con missili balistici. L’Europa trema, il Golfo Persico è sull’orlo del collasso. E l’unico a non essere sorpreso… è Trump stesso.

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                Donald Trump ha fatto pace con l’idea della guerra. Non la sua, ovviamente. Ma quella da esportare, bombardare, spettacolarizzare. Come ogni presidente americano che si rispetti. Il 45esimo, nel cuore della notte, ha lanciato l’operazione che tutti temevano e che lui stesso aveva giurato di evitare: missili su tre siti nucleari iraniani, a fianco dell’offensiva israeliana. Il tutto mentre Gerusalemme e Teheran si scambiano cortesie balistiche da oltre una settimana. Ma ora – con la benedizione a stelle e strisce – è ufficialmente una guerra.

                I raid USA hanno colpito gli impianti di Fordow, Natanz e Isfahan, centrali del programma atomico iraniano. Un attacco chirurgico, dicono dal Pentagono, ma il bisturi è passato sopra un campo minato geopolitico. Teheran ha risposto: oltre 40 missili, alcuni atterrati in territorio israeliano. Nessuna vittima, ma molti nervi saltati.

                L’Europa, nel frattempo, arranca dietro le conferenze stampa. La Farnesina ha convocato una riunione d’urgenza con intelligence e Stato Maggiore. “Valutiamo gli scenari possibili”, ha detto una fonte del governo italiano, che tradotto suona più o meno come: “Ci auguriamo di non finire in mezzo”. Da Bruxelles piovono appelli alla moderazione, che da Teheran a Tel Aviv hanno lo stesso effetto dell’acqua sulla ghisa rovente.

                Trump, intanto, si gode il caos che ha aiutato a creare. Nei giorni scorsi aveva accusato l’Iran di “attività eversive” e promesso “azioni mirate”. Traduzione: bombardamenti. Niente di nuovo. Chi si aspettava il tycoon pacifista, pronto a ritirare le truppe e a difendere l’America “prima di tutto”, oggi scopre che America First può includere anche l’ordine di far partire Tomahawk a mezzanotte, in diretta social, con il sottofondo dell’inno nazionale.

                Il Dipartimento di Stato si è affrettato a rassicurare: “Non cerchiamo un conflitto, ma non permetteremo minacce contro i nostri alleati”. Tradotto: Israele può bombardare, noi pure, purché ci chiamiate “moderatori”. E infatti, i vertici israeliani – dal ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir al premier in perenne emergenza Benjamin Netanyahu – applaudono commossi: “Grazie Donald, ora sì che siamo in buona compagnia”.

                L’Iran, dal canto suo, parla apertamente di “aggressione occidentale” e promette “risposte su più fronti”. Con Hezbollah già attiva nel Libano meridionale e i ribelli Houthi più allegri del solito, il fronte potrebbe allargarsi ben oltre il Golfo. I mercati tremano, il prezzo del greggio schizza, e qualcuno a Wall Street ha già scommesso su un nuovo conflitto redditizio.

                Intanto l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, si dichiara “gravemente preoccupata” per la sicurezza dei siti colpiti e per la tenuta del trattato di non proliferazione. Ma chi ha voglia di sentire i tecnici quando si possono seguire le esplosioni in diretta?

                Tutto questo per “contenere l’Iran”, certo. Ma anche per dimostrare che Trump, quando promette pace, intende quella che arriva dopo la guerra. Con buona pace dei pacifisti, dei trattati e di tutte le buone intenzioni lanciate in campagna elettorale e rimosse – come sempre – dopo le primarie.

                Del resto, anche la guerra è una forma di spettacolo. E lo show, come insegna The Donald, deve andare avanti.

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