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I film preferiti da Harris e Trump? Per Kamala “Mio cugino Vincenzo”, per Donald “Quarto potere”

I gusti cinematografici dei candidati americani svelano molto più di quanto immaginiate. Chi avrebbe mai pensato che una commedia degli anni ’90 e un classico intramontabile potessero essere i film del cuore di Kamala Harris e Donald Trump?

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    Per Kamala Harris, “Mio cugino Vincenzo” è il film perfetto. Un’avvincente commedia giudiziaria che vede Joe Pesci nei panni di Vincenzo La Guardia Gambini, un avvocato di Brooklyn che ha finalmente superato l’esame dopo cinque tentativi falliti. Quando suo cugino Billy e un amico vengono ingiustamente accusati di omicidio in Alabama, Vincenzo si precipita a salvarli. Harris adora questo film non solo per la sceneggiatura brillante ma anche per il messaggio potente sul superamento dei pregiudizi e la fiducia nel sistema giudiziario.

    Ralph Macchio, che interpreta il cugino Billy, ha sottolineato come il film sia diventato un cult: “È il film perfetto per far tardi a cena. Se inizi a guardarlo, non riesci a staccarti. Joe Pesci e Marisa Tomei, che vinse l’Oscar per il suo ruolo, hanno dato vita a personaggi indimenticabili”. E se pensiamo a Kamala, ex procuratrice, non c’è da meravigliarsi che un film che esalta la giustizia sia il suo preferito.

    Donald e “Quarto potere”

    Donald Trump, invece, è affascinato da “Quarto potere”, il capolavoro di Orson Welles. Un film che racconta la vita del magnate Charles Foster Kane, ispirato a William Randolph Hearst. Trump ha spesso elogiato questo film per la sua narrazione avvincente e la rappresentazione potente dell’accumulo di ricchezza e potere.

    “Quarto potere è un film sull’accumulazione e alla fine tutta questa accumulazione non è unicamente positiva”, ha detto Trump in un’intervista. Il parallelismo tra Kane e la sua stessa vita non sfugge a nessuno, e Trump non ha mai nascosto di rivedersi nel personaggio solitario e tormentato. Nel 2012, a Movieline, ha definito “Quarto potere” come uno dei più grandi film di tutti i tempi, lodando l’abilità di Welles nel creare una storia così complessa e risonante.

    Gusti cinematografici e personalità

    I gusti cinematografici di Harris e Trump non sono solo una curiosità da gossip, ma offrono uno sguardo sulle loro personalità e sulle loro visioni del mondo. Harris, con la sua passione per la giustizia e la legalità, trova in “Mio cugino Vincenzo” una perfetta rappresentazione di questi valori. Trump, invece, con il suo amore per i grandi classici del cinema e le storie di potere, dimostra una certa affinità con la complessità e le ambizioni dei personaggi che ammira sul grande schermo.

    E così, mentre Kamala Harris sogna di vedere giustizia trionfare attraverso le disavventure di un avvocato italo-americano in Alabama, Donald Trump riflette sulla solitudine e il potere con Charles Foster Kane. Chissà, forse i film che amiamo davvero raccontano di noi molto più di quanto immaginiamo.

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      Mondo

      Trump: il mostro senza cuore che deporta bambine malate di cancro

      Mentre si riempie la bocca di slogan sulla “grandezza dell’America”, Trump tradisce i suoi stessi cittadini: deporta bambine di 2, 4 e 7 anni, calpesta la legge, spezza famiglie e condanna una malata terminale senza cure. Un atto di disumanità che resterà come marchio d’infamia sulla sua presidenza.

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        Non è più politica. È crudeltà sistematica. È sadismo mascherato da ordine. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca come un ruggito di rabbia repressa, ha dimostrato ancora una volta che il potere, nelle sue mani, è solo uno strumento di umiliazione, controllo e vendetta. A pagare il prezzo del suo fanatismo anti-immigrati, stavolta, non sono stati solo adulti in cerca di futuro, ma tre bambine. Cittadine americane a tutti gli effetti. Due, quattro e sette anni. Una di loro, quella di quattro, sta lottando contro un cancro al quarto stadio.

        Sono state strappate dai padri, cittadini statunitensi regolari, e deportate di nascosto in Honduras insieme alle loro madri, che si erano presentate volontariamente a un controllo previsto dalla legge. Non stavano fuggendo. Non stavano violando alcuna regola. Erano lì, come previsto, nel contesto di un programma che consente di restare sul territorio mentre si completa l’iter burocratico. Ma nell’America trumpiana, l’unico dettaglio che conta è il cognome. Il colore della pelle. La fragilità sociale. Così le donne sono state fermate, isolate, trasferite senza alcuna possibilità di contatto con i familiari. Nessuna telefonata. Nessun avvocato. Nessuna spiegazione. Solo il silenzio brutale di un sistema deciso a cancellare la compassione.

        Trump ha avuto persino la sfacciataggine di lasciare intendere che le madri avessero scelto di portare con sé le bambine. Come se una madre potesse davvero decidere, in pochi minuti, di sradicare la vita di una figlia da un Paese dove è nata, dove vive il padre, dove ha diritto alla cittadinanza. Come se potesse farlo senza parlare con nessuno, senza sapere cosa accadrà, senza una medicina, senza nemmeno poter dire addio.

        La piccola malata è stata caricata su un aereo senza farmaci, senza la possibilità di contattare il medico che la segue, senza alcuna tutela. È stata deportata come se fosse un oggetto, non una bambina americana gravemente malata. E con lei anche le altre due, le cui vite sono state strappate via in nome di un’ideologia che ha smesso da tempo di rispettare le leggi, la Costituzione e la più elementare dignità umana.

        Questa non è l’America della giustizia. Non è l’America dei diritti civili. È l’America di Trump, dove anche una bambina con il passaporto USA può essere espulsa se ha la madre sbagliata. Dove nessuno avvisa il padre. Dove nessuno si ferma a chiedere: ma siamo ancora umani?

        In questo orrore istituzionale, ogni singolo gesto è stato compiuto con la consapevolezza che le vittime non avrebbero avuto voce. Ma una voce ce l’hanno. E oggi racconta che tre bambine sono state deportate senza diritto, senza pietà, senza futuro. Racconta che un presidente, ossessionato dal controllo e dal disprezzo per chi è diverso, ha scritto l’ennesima pagina infame della sua presidenza. E che nessun muro potrà mai nascondere lo schifo morale che lascia dietro di sé.

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          Mondo

          Burke, Sarah, Müller: in Conclave gli ultraconservatori contro Francesco

          Dalla comunione ai divorziati al ruolo delle donne nella Chiesa: le battaglie della fronda più tradizionalista, tra accuse, polemiche e una contrapposizione ormai decennale con il pontificato di Francesco. Ma i numeri, oggi, non sono dalla loro parte.

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            Sono agguerriti ma isolati. Determinati a far sentire la propria voce, ma condannati, come già in passato, a restare ai margini.
            Nel Conclave che dovrà eleggere il successore di papa Francesco si affacciano anche loro: i cardinali ultraconservatori, protagonisti per oltre un decennio di una contestazione costante e rumorosa contro le riforme del pontificato di Bergoglio.

            Non si tratta di un’opposizione nuova. Fin dal 2013, quando Jorge Mario Bergoglio fu eletto, si delineò una fronda interna, prevalentemente collocata nell’area più tradizionalista del Sacro Collegio. Una fronda che non aveva mai perdonato la rinuncia di Benedetto XVI, considerata un gesto che aprì la strada a un cambiamento temuto e osteggiato. «Sarà un disastro», avrebbe commentato a caldo in Cappella Sistina il cardinale sloveno Franc Rodé, esprimendo un sentimento diffuso tra i nostalgici dell’ortodossia preconciliare.

            Da sinodo a sinodo: lo scontro sulle riforme
            La battaglia si è inasprita con i Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015, quando iniziarono a circolare aperture sulle coppie di fatto, sull’accoglienza delle persone omosessuali e sulla possibilità di accesso all’eucaristia per i divorziati risposati.
            Una rivoluzione che trovò una sua formalizzazione nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, e che scatenò la reazione più dura degli ultraconservatori: i “dubia” presentati nel 2016 da quattro cardinali – Raymond Leo Burke, Walter Brandmüller, Joachim Meisner e Carlo Caffarra – che, con linguaggio filiale ma tono fermo, chiesero chiarimenti al Papa su aspetti dottrinali fondamentali.

            Sempre gli stessi temi, sempre le stesse barricate
            Da allora, le occasioni di scontro non sono mancate. L’omosessualità, il celibato sacerdotale, il ruolo delle donne nella Chiesa, il ritorno alla Messa preconciliare: ogni tentativo di riforma, ogni segnale di apertura è stato accolto da una levata di scudi. Con toni che, col passare degli anni, si sono fatti via via più duri.

            Tra i protagonisti di questa opposizione permanente c’è il cardinale americano Raymond Leo Burke, 76 anni, sostenitore convinto di Donald Trump e strenuo difensore della liturgia tradizionale. Negli ultimi tempi, il suo rapporto con il Vaticano si è ulteriormente deteriorato: Francesco gli ha tolto il diritto a un alloggio gratuito e alla pensione cardinalizia, segnando così la fine formale di ogni benevolenza istituzionale.

            I nuovi volti della fronda
            Accanto a Burke, si sono fatti strada altri esponenti del fronte conservatore. Il cardinale guineano Robert Sarah, 79 anni, già prefetto della Congregazione per il Culto Divino, si è distinto per le critiche aperte alla gestione bergogliana del sinodo sull’Amazzonia, soprattutto sul tema dei “viri probati”, cioè l’ipotesi di ordinazione sacerdotale per uomini sposati in zone remote.
            Un dissenso culminato nella pubblicazione di un libro – inizialmente presentato come scritto a quattro mani con Benedetto XVI – in difesa del celibato sacerdotale obbligatorio. Un’operazione che suscitò clamore e imbarazzo, anche a causa della successiva smentita da parte dell’entourage del Papa emerito.

            Tra i più attivi nel criticare il pontificato c’è anche il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, 77 anni, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sotto Benedetto XVI e poi confermato da Francesco, salvo essere congedato nel 2017. Da allora, Müller ha moltiplicato interventi e interviste pubbliche, contestando le aperture verso i divorziati, il sinodo dei giovani, il sinodo sull’Amazzonia e l’ipotesi di un maggiore ruolo delle donne nella Chiesa.

            Minoranza rumorosa
            Nonostante la visibilità mediatica e il peso storico di alcuni protagonisti, gli ultraconservatori restano una minoranza nel Collegio cardinalizio. Non perché i cardinali creati da Francesco siano tutti progressisti – anzi, molti provengono da contesti pastorali molto diversi, spesso lontani da qualunque etichetta ideologica – ma perché l’impronta globale e pastorale impressa da Bergoglio ha reso marginale il tradizionalismo più rigido.

            Burke, Sarah e Müller entrano in Conclave con la volontà di orientare il dibattito, di frenare ulteriori aperture, di invocare una restaurazione della disciplina tradizionale. Ma, nella realtà dei numeri, le loro possibilità di determinare l’elezione del nuovo Papa appaiono estremamente limitate.

            Un segnale, più che un programma
            Il loro peso politico oggi risiede più nella testimonianza di una protesta che nella capacità di incidere realmente sulla scelta del futuro Pontefice. Difficilmente un loro candidato potrà essere eletto. Più probabile, semmai, che il loro dissenso venga assorbito, in parte neutralizzato, da un collegio cardinalizio che – pur non rinnegando la tradizione – sembra orientato a scegliere un successore capace di proseguire, magari con toni diversi, il cammino tracciato negli ultimi dodici anni.

            Ma quanto la voglia di una frenata sulle riforme sarà condivisa oltre i confini della fronda più radicale, lo diranno solo le votazioni a porte chiuse. E a quel punto, più che i proclami, parleranno i numeri.

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              Trump contro Amazon: “Atto ostile”. Bezos chiarisce, ma la Casa Bianca alza i toni

              La tensione tra Washington e Amazon esplode nel giorno in cui la Casa Bianca valuta l’allentamento dei dazi sulle auto. Secondo la CNN, Trump ha chiamato personalmente Jeff Bezos dopo aver appreso dell’intenzione – poi smentita – di evidenziare sui prodotti Amazon l’effetto delle tariffe d’importazione. La risposta della Big Tech: “Era solo un’ipotesi interna allo store low cost, mai arrivata sul sito principale”.

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                Nella nuova stagione della guerra commerciale targata Donald Trump, il bersaglio non è solo la Cina. È anche chi, negli Stati Uniti, osa far notare ai consumatori quanto quei dazi incidano davvero sul prezzo dei prodotti.
                Amazon, secondo la Casa Bianca, avrebbe tentato un’operazione considerata “politica e ostile”. A dirlo, senza mezzi termini, è stata la portavoce presidenziale Karoline Leavitt, che in conferenza stampa ha accusato l’azienda di Jeff Bezos di flirtare con “una branca della propaganda cinese”, insinuando un presunto allineamento strategico nella battaglia economica in corso.

                Tutto parte da un’indiscrezione pubblicata da Punchbowl News, secondo cui alcuni team interni ad Amazon stavano valutando l’idea di mostrare ai clienti l’impatto diretto delle tariffe doganali accanto al prezzo dei prodotti: una sorta di “scontrino trasparente” con tutte le voci di importazione evidenziate.

                L’intento? A detta dei detrattori, quello di trasferire sulle politiche dell’amministrazione la responsabilità degli aumenti percepiti dai consumatori. Una mossa che, se applicata davvero, avrebbe avuto ricadute evidenti sulla comunicazione politica di Trump, proprio nei giorni in cui la Casa Bianca si prepara ad annunciare un allentamento dei dazi sulle auto per calmare i mercati e rilanciare l’industria domestica.

                Secondo quanto riportato dalla giornalista della CNN Alayna Treene, il presidente Trump ha reagito personalmente, chiamando al telefono Jeff Bezos per chiedere spiegazioni dirette. Un gesto inusuale, ma che segnala quanto il rapporto tra il tycoon e l’ex uomo più ricco del mondo resti fragile, nonostante un avvicinamento nelle ultime settimane.

                Amazon ha risposto con una precisazione immediata, attraverso un portavoce: «Il team che gestisce il nostro negozio ultra low cost Amazon Haul ha discusso internamente la possibilità di mostrare i costi di importazione su alcuni articoli. Si tratta di brainstorming ordinari. L’idea non è mai stata presa in considerazione per lo store principale di Amazon, né implementata su alcuna piattaforma».

                Una smentita che cerca di raffreddare il caso, ma che arriva troppo tardi per evitare lo scontro. Per la Casa Bianca, anche solo pensare di rendere visibili ai clienti gli effetti delle scelte governative sui loro portafogli è già un attacco politico.

                Sul piatto, però, ci sono anche 12 miliardi di euro di export italiano a rischio, colpiti dai dazi su acciaio, alluminio e auto. E mentre Trump agita la clava commerciale, i colossi americani – Amazon in testa – si trovano tra due fuochi: il pressing cinese da un lato, e quello di Washington dall’altro.

                Il messaggio, in fondo, è chiaro: in un’America dove i prezzi lievitano e la campagna elettorale è già entrata nel vivo, anche la trasparenza può diventare un’arma pericolosa. Soprattutto se usata sotto forma di etichetta.

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