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La nuova giustizia americana: se non piaci a Trump, ti arrestano. Anche se sei un giudice

Il nuovo capo dell’Fbi Kash Patel, cospirazionista da bancarella e star del fan club MAGA, ha deciso che chi non obbedisce va arrestato. Così Hannah Dugan, giudice del Wisconsin, si ritrova in carcere per non aver consegnato un migrante. Altro che giustizia: è la revanche del trumpismo in versione vendetta personale. E non è che l’inizio.

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    C’è un nuovo sceriffo in città. Ma invece di un distintivo ha una maglietta MAGA, un microfono da podcast e un libro per bambini dove Trump è il re buono perseguitato dai cattivi del deep state. Si chiama Kash Patel, è il nuovo capo dell’Fbi e oggi ha deciso che la Costituzione americana può essere usata come sottobicchiere.

    Il primo bersaglio? Una giudice. Si chiama Hannah Dugan, lavora nella contea di Milwaukee e ha commesso un crimine imperdonabile: non ha lasciato che gli agenti federali portassero via un migrante direttamente dall’aula del tribunale. Non ha liberato un assassino, non ha sabotato un’indagine. Ha semplicemente fatto il proprio lavoro. Peccato che in America, ora, il lavoro di un giudice sia obbedire.

    La notizia dell’arresto è arrivata via X, perché il rispetto istituzionale ormai si misura a suon di post e reaction. L’ha firmata lui, Kash Patel, ex procuratore, ex teorico del complotto, ex comparsa in thriller legali e attuale braccio armato del trumpismo. Ha annunciato che la giudice ha “ostacolato l’azione federale”. Tradotto: ha disturbato la macchina delle deportazioni e quindi merita le manette.

    Chi è questo nuovo eroe della giustizia americana? Uno che vende merchandising con il suo nome scritto con il dollaro al posto della S, che ha inciso l’inno americano con il coro dei detenuti del 6 gennaio, e che partecipa a podcast di QAnon come se fosse il salotto di casa. Più che un capo dell’Fbi, una guest star di un reality distopico.

    E mentre lui promuove teorie cospirazioniste da baraccone, la giudice Dugan viene sbattuta in cella. Il messaggio è chiarissimo: se indossi la toga ma non sei devoto a Trump, sei un bersaglio. Oggi tocca a lei. Domani? Giornalisti, avvocati, bibliotecari, forse anche i vigili urbani.

    La nuova giustizia americana non difende più la legge. Difende il Capo. E chiunque osi mettersi di traverso diventa automaticamente un nemico dello Stato. O meglio: del nuovo Stato. Quello dove l’Fbi non indaga, ma punisce. Dove il diritto vale solo se conferma la linea del partito. Dove i giudici non interpretano la legge: la recitano, tipo preghiera.

    Trump non vuole più solo il potere. Vuole anche la vendetta. E Patel è l’uomo perfetto per servirgliela fredda. È fedele, è fanatico e soprattutto ha una vocazione naturale al ridicolo. Ma un ridicolo pericoloso, armato, e ora anche dotato di potere esecutivo.

    Sui social, la galassia pro-MAGA canta vittoria: “Finalmente”, “Se lo meritano”, “Ora tocca agli altri”. La democrazia? Mai pervenuta. Ma tranquilli: l’inno remix con la voce di Trump si trova anche in versione karaoke.

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      Mondo

      “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre”: il racconto dell’unico sopravvissuto alla strage di Ahmedabad

      “Non so come sia possibile, ma sono uscito vivo da lì”. Si chiama Vishwash Kumar Ramesh, ha 40 anni, la cittadinanza britannica e una famiglia a Londra. È l’unico sopravvissuto al disastro del Boeing Air India precipitato ad Ahmedabad. Il volo, diretto nel Regno Unito, si è schiantato poco dopo il decollo, provocando 240 morti. Il suo racconto, tra dolore e incredulità, arriva da un letto d’ospedale, dove è ricoverato con ustioni al volto, al petto e agli arti.

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        Vishwash non riesce a darsi una spiegazione, e forse non la troverà mai. Il boato, le fiamme, il buio, poi il silenzio. “Si è capito che qualcosa non andava a pochissimi secondi dal decollo”, ha raccontato. Prima un forte rumore, poi lo scoppio, un tonfo improvviso. E in un attimo, tutto intorno a lui è stato fuoco. Non c’è stato il tempo per gridare. Né per pensare.

        Era seduto al posto 11A, accanto al portellone di emergenza. Forse è stato questo a salvarlo. Quando ha riaperto gli occhi, era ancora vivo. Ustionato, confuso, ma vivo. “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre, tra lamiere e corpi senza vita, cercando disperatamente un’uscita”. In tasca aveva ancora la carta d’imbarco. L’ha mostrata ai soccorritori come se fosse un talismano, una prova fisica di un passaggio rimasto inspiegabilmente aperto tra la vita e la morte.

        Nelle sue parole, spezzate dalla fatica e dal dolore, c’è un’immagine che torna più volte: quella dei passeggeri davanti a lui. Un’hostess, una coppia di anziani, e suo fratello Ajay. “Sono morti tutti davanti ai miei occhi”, ha detto. Il fratello, 45 anni, era accanto a lui. Viaggiavano insieme, di ritorno da una breve visita ai parenti. Avevano preso quel volo per tornare a casa, in Gran Bretagna, dove vivono da vent’anni. Uno solo è sopravvissuto.

        Il racconto prosegue come un sogno spezzato. “Mi muovevo quasi senza capire. C’erano pezzi dell’aereo ovunque, fumo, odore di carburante. A un certo punto ho visto qualcuno venirmi incontro. Poi l’ambulanza”. L’aereo, carico di cherosene per il lungo viaggio, ha preso fuoco subito dopo l’impatto con un edificio nei pressi dell’aeroporto. Era un ostello per studenti di medicina: tra le vittime, almeno cinque giovani che dormivano nelle stanze investite dalle lamiere.

        Vishwash ha provato a ricostruire quei secondi prima dello schianto. Secondo lui, qualcosa è andato storto appena dopo il decollo. “Sembrava che l’aereo si fosse fermato a mezz’aria. Poi ho visto accendersi luci verdi e bianche. I piloti hanno cercato di riprendere quota, ma non c’è stato niente da fare. È andato giù di colpo, a tutta velocità”. Quando l’aereo si è inclinato, il caos ha preso il sopravvento. I passeggeri si sono stretti ai sedili, molti hanno urlato. Lui ha stretto la cintura, poi il resto è venuto da sé.

        Dall’ospedale civile di Asarwa, dove è ricoverato, Vishwash ha parlato con un cronista del quotidiano Hindustan Times, ma anche con i giornalisti di NDTV. Ha raccontato tutto, senza cercare un senso. “La morte di mio fratello spezzerà il cuore alla nostra famiglia. Io ringrazio gli dei per il miracolo che mi ha salvato, ma porterò per sempre nel cuore questa tragedia”.

        Il posto 11A, accanto alla porta d’emergenza, è diventato un simbolo. Lo citano i medici, i cronisti, i soccorritori. È lì che sedeva l’unico sopravvissuto di un volo che non doveva finire così. È lì che, tra fumo, fuoco e lamiere, si è aperto un varco impossibile tra la fine e la vita.

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          Mondo

          Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California

          Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

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            Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.

            In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.

            La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.

            Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.

            La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.

            Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.

            Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.

            Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.

            Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.

            E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.

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              Ecco chi sono i leader iraniani uccisi nell’attacco: dal capo dei pasdaran agli scienziati della bomba

              Colpiti Salami, Bagheri, Shamkhani, Jafari e due scienziati nucleari. Ma i raid hanno devastato anche quartieri residenziali. E tra le vittime ci sono civili, donne, bambini. E forse pure mia nonna.

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                È partito come un attacco chirurgico ai siti nucleari, è finito come una decapitazione politica. Nell’operazione “Rising Lion”, Israele ha colpito dritto al cuore del potere iraniano. Non solo centrifughe e missili, ma nomi e volti che rappresentavano il pugno di ferro del regime.

                Il più noto: Hossein Salami, comandante dei pasdaran, l’uomo che ad aprile aveva lanciato 300 droni su Israele e minacciato “l’inferno”. Ce l’ha trovato, dentro una palazzina ridotta in macerie. A capo della Guardia rivoluzionaria dal 2019, Salami era il simbolo del potere militare duro e puro, quello che non arretra, non media, non si scusa.

                Ucciso anche Mohammad Hossein Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito, teorico della riorganizzazione bellica del regime. Dal 2016 controllava le forze armate, dal 2022 era sotto sanzioni USA e Canada per la repressione interna. Al suo posto ora c’è Mousavi, ma il colpo è pesantissimo.

                Ma la lista è lunga: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema Khamenei. Mohammad Ali Jafari, ex capo dei pasdaran durante le operazioni in Siria e in Iraq. E poi due scienziati: Tehranchi, fisico teorico e stratega nucleare, e Abbasi, ex direttore dell’agenzia atomica.

                I luoghi colpiti? Tutti: il sito di Natanz, scavato 50 metri sotto terra; l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad; il quartiere di Lazivan (presunto sito nucleare mai verificato); il distretto di Amir Abad e la società Pars Garna, legata alla costruzione di bunker per arricchire uranio.

                Ma c’è anche l’altra faccia della guerra: i civili morti. Perché i missili hanno colpito anche quartieri abitati, distruggendo case, scuole, vite. Le stime parlano di decine di vittime non militari.

                Il regime iraniano è in silenzio apparente. Ma la risposta potrebbe arrivare. E non sarà gentile.

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