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Los Angeles in fiamme: proteste e scontri contro i raid dell’immigrazione, Trump invia la Guardia Nazionale

Dopo due giorni di guerriglia urbana, Trump schiera 2.000 soldati della Guardia Nazionale e chiede arresti indiscriminati. Newsom sfida la Casa Bianca: “Venite a prendermi”.

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    È caos a Los Angeles, dove la protesta contro i raid dell’immigrazione si è trasformata in guerriglia urbana. Auto incendiate, scontri violenti con la polizia e almeno 120 arresti: la città californiana è sotto assedio, mentre il presidente Donald Trump ha ordinato l’invio di 2.000 soldati della Guardia Nazionale e minaccia persino l’uso dei Marines per riportare l’ordine.

    Le tensioni sono esplose dopo che gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) hanno effettuato retate in diversi magazzini e aziende, sospettati di impiegare lavoratori con documenti falsi. La notizia ha fatto scendere in strada centinaia di manifestanti, dando vita a un’escalation di violenza.

    La polizia di Los Angeles parla di “agenti sotto attacco”, con lanci di molotov e pietre e agenti che hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il capo della polizia, Raul Jovel, ha riferito di 27 arresti solo nella giornata di ieri, mentre la California Highway Patrol ha fermato altri 17 manifestanti che bloccavano l’autostrada 101.

    Trump, dal canto suo, non ha esitato a evocare l’arresto “di chiunque indossi una mascherina” e a minacciare l’uso dei Marines: “Lì avremo legge e un ordine molto forti. Se serve, avremo truppe ovunque”, ha scritto su Truth Social.

    La risposta del governatore democratico Gavin Newsom non si è fatta attendere. Ha definito Trump “un dittatore” e lo ha sfidato pubblicamente: “Minacciano di arrestarmi? Venite a prendermi. Non mi impediranno di difendere la California”. Il governatore ha chiesto formalmente la revoca del dispiegamento dei militari, accusando la Casa Bianca di violare la sovranità statale.

    Le immagini trasmesse dalle tv americane mostrano una città in fiamme: auto incendiate, vetrine distrutte e manifestanti in maschera che si scontrano con i soldati e la polizia. È una situazione che ricorda le rivolte di Los Angeles del 1992 dopo l’assoluzione dei poliziotti per il pestaggio di Rodney King e quelle del 2020 per l’uccisione di George Floyd.

    “Gli agenti sono davvero sotto attacco”, ha ribadito Jovel, mentre il procuratore del distretto centrale della California, Bill Essayli, ha confermato la presenza di “infiltrazioni di estremisti e nuovi focolai di violenza”.

    La Guardia Nazionale è già in strada, ma la tensione resta altissima. La sfida tra Trump e la California sembra destinata a proseguire, con la città che si prepara a un altro giorno di proteste e scontri. E l’America, ancora una volta, torna a fare i conti con la sua frattura più profonda.

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      Freedom Flotilla fermata: Greta Thunberg a bordo, Israele sequestra la nave con aiuti per Gaza

      A bordo della nave c’erano undici volontari, tra cui Greta Thunberg e Rima Hassan. Israele: “Li abbiamo fermati, vedano i video del 7 ottobre”. Macron chiede il ritorno dei francesi

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        Attorno alla mezzanotte, il mare davanti alla Striscia di Gaza si è trasformato in teatro di uno scontro diplomatico e militare. La Madleen, la nave della Freedom Flotilla che trasportava aiuti umanitari per Gaza, è stata sequestrata dalle forze israeliane. A bordo c’erano undici volontari, tra cui l’attivista svedese Greta Thunberg e l’europarlamentare Rima Hassan. Secondo i racconti arrivati in diretta dai social, l’attacco è stato fulmineo: droni hanno lanciato sostanze urticanti sul ponte, poi l’abbordaggio dell’Idf e il sequestro della nave.

        Gli attivisti avevano lanciato messaggi di allarme: “Ci stanno lanciando prodotti chimici, bloccare una nave umanitaria è un crimine”, ha detto Rima Hassan prima che la linea cadesse. La Madleen si trovava ancora in acque internazionali, ma per Israele aveva oltrepassato la “linea di contatto” unilaterale. Ora la nave è stata portata nel porto israeliano di Ashdod, mentre il destino dei volontari rimane incerto.

        Un video diffuso dal ministero degli Esteri israeliano mostra gli attivisti con i giubbotti di salvataggio, visibilmente tesi, ricevere acqua e cibo da un militare. Il ministro della Difesa Israel Katz ha rincarato la dose: “Greta l’antisemita e i suoi amici sostengono Hamas, è giusto che vedano i video del 7 ottobre”, ha dichiarato, ordinando di mostrare agli arrestati le immagini dell’attacco di Hamas.

        La missione umanitaria, organizzata dalla Freedom Flotilla, mirava a denunciare il blocco navale e portare medicine e generi di prima necessità a Gaza. “Il nostro è un viaggio legale e pacifico, l’Onu stesso riconosce il diritto di passaggio”, avevano spiegato gli attivisti prima della partenza. Ma Israele aveva già avvisato: “Non li lasceremo arrivare a Gaza”.

        L’azione militare ha scatenato reazioni internazionali. Il presidente francese Macron ha chiesto “il rientro immediato” dei sei attivisti francesi a bordo. Il governo spagnolo ha convocato l’incaricato israeliano a Madrid per protestare, mentre la Turchia ha parlato di “chiara violazione del diritto internazionale”.

        Sui canali social della Flotilla, un appello: “Sono cittadini stranieri, facciamo pressione diplomatica perché siano liberati”. Il timore degli attivisti è che la vicenda finisca nel silenzio. La Freedom Flotilla, che già in passato ha sfidato il blocco navale, rivendica il diritto a portare aiuti e solidarietà. Ma per Tel Aviv si tratta di una provocazione. “Non permetteremo – ha detto Katz – che queste navi violino il blocco imposto per difendere Israele dai terroristi di Hamas”.

        La Madleen è solo l’ultima a essere fermata. E la tensione continua a crescere.

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          Elon Musk e Donald Trump, la faida si infiamma: un video su Epstein e il “nuovo partito” dell’80%

          Elon Musk rilancia un video che ritrae Trump alle feste di Epstein e propone un nuovo partito che rappresenti l’80% degli americani. Trump contrattacca minacciando di rivedere i contratti con le aziende di Musk e promette “conseguenze gravi” se finanzierà i suoi avversari. La guerra è solo all’inizio.

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            La guerra tra Elon Musk e Donald Trump sembra essere entrata in una fase di fuoco aperto. Tutto è iniziato con un video, condiviso da Musk sui suoi profili social, che mostra l’ex presidente americano a feste organizzate da Jeffrey Epstein. Una provocazione vera e propria, accompagnata dall’emoji di una faccina perplessa. Il video, originariamente trasmesso da Msnbc, è bastato a innescare un altro capitolo nella faida già tesissima tra il presidente Usa e il magnate di Tesla e SpaceX.

            Nonostante Musk abbia poi cancellato il post, il segnale è stato forte e chiaro. La tensione è ormai alle stelle, tanto che lo stesso Musk è arrivato a proporre la nascita di un nuovo partito politico: “Il popolo ha parlato. Serve un partito che rappresenti l’80% degli americani”, ha scritto in un sondaggio pubblicato su X, a cui hanno risposto 6 milioni di utenti. Ha anche proposto un nome, “the America Party”. È evidente che il ceo di Tesla non può correre per la Casa Bianca (essendo nato in Sudafrica), ma la potenza economica che può mobilitare lo rende un alleato o un nemico temibile per chiunque, anche per Trump.

            La risposta del presidente non si è fatta attendere. In un’intervista a Nbc News, Trump ha minacciato ritorsioni economiche se Musk dovesse davvero sostenere i suoi avversari: “Se lo farà, pagherà conseguenze gravi”, ha detto senza specificare quali. Poco prima, a bordo dell’Air Force One, aveva già messo in guardia: “Rivedremo tutti i contratti tra l’amministrazione e le aziende di Musk. Sono un sacco di soldi e faremo ciò che è giusto”.

            Un avvertimento pesante per Musk, che negli ultimi anni è diventato un pilastro strategico per il governo americano grazie a SpaceX e alle sue altre aziende. Ma il presidente sembra pronto a sfidare questo ruolo, mentre il Doge – il dipartimento creato ad hoc per i rapporti con Musk – resta attivo, anche se Trump ha già detto chiaramente: “Direi che i nostri rapporti sono finiti”.

            La faida, intanto, continua a far tremare i repubblicani e a preoccupare l’America. Con due personalità così potenti e senza freni, la miccia è sempre accesa. E nessuno, per ora, osa spegnerla.

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              L’Osservatore Romano confonde il nome del Papa: “Leone XVI” invece di “XIV”

              Un refuso diventato subito un caso: l’Osservatore Romano ha titolato in prima pagina “Leone XVI” al posto di “Leone XIV”. L’errore non è passato inosservato e molti cardinali chiedono al Papa un riassetto radicale della comunicazione vaticana, puntando il dito contro il direttore Andrea Monda.

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                Non c’è più religione, si direbbe, se persino l’Osservatore Romano inciampa su un errore tanto vistoso. È successo martedì 3 giugno, quando il quotidiano ufficiale della Santa Sede ha sbagliato clamorosamente la numerazione del Papa: anziché “Leone XIV”, in prima pagina è apparso “Leone XVI”. Una gaffe che ha suscitato non solo ilarità ma anche indignazione dentro e fuori le mura vaticane.

                A fare notizia non è solo il refuso, ma il contesto in cui arriva: la comunicazione della Santa Sede è già sotto accusa da mesi. Il direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda, nominato da Papa Francesco nel 2018, è finito nel mirino dei porporati durante le Congregazioni generali prima dell’elezione del nuovo pontefice. In molti hanno lamentato “errori macroscopici” e “mala gestio” che minano la credibilità dell’informazione vaticana.

                Secondo fonti vicine alla Curia, Papa Prevost starebbe pensando a un riassetto totale del Dicastero per la Comunicazione. Una riforma invocata da numerosi cardinali che temono che queste sviste, apparentemente banali, possano in realtà riflettere un problema più ampio di gestione e attenzione. Il clamore suscitato dall’errore ha fatto il giro delle sacre stanze, con molti prelati convinti che serva un cambio di passo e, forse, anche di persone.

                L’Osservatore Romano, da sempre considerato la voce ufficiale del Vaticano, è oggi al centro di un piccolo terremoto mediatico che rischia di avere conseguenze non solo sull’immagine, ma anche sulla linea di comunicazione dell’intera Santa Sede. Dall’errore nella numerazione del Papa alle critiche interne sul modo di raccontare l’elezione e le sfide del pontificato, il tema è diventato bollente.

                Nel frattempo, la “gaffe del Leone” ha fatto il giro del mondo, rimbalzando su social e siti d’informazione. Una figuraccia in piena regola, che in un altro momento sarebbe forse passata sotto silenzio, ma che in questo clima di tensione e transizione ha finito per accendere i riflettori su chi guida la macchina mediatica vaticana. Adesso, occhi puntati su Papa Prevost e sulle decisioni che prenderà per salvaguardare la credibilità – e la precisione – della voce ufficiale del cattolicesimo.

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