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Nell’attentato a Trump troppi dubbi sulla sicurezza

Un ex agente segreto italiano espone le vulnerabilità nella sicurezza durante il comizio di Trump, evidenziando il grave errore nel non presidiare il tetto da dove è stato sparato. Il cecchino dilettante ha colpito quasi mortalmente l’ex presidente, mettendo in discussione le procedure del Secret Service e sollevando dubbi sulle mancanze nella bonifica e nella vigilanza delle posizioni elevate. Le anomalie nel pronto intervento e l’uso di armamenti non ottimali aggiungono ulteriori criticità a un evento già tragico e clamoroso.

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    Sull’attentato a Trump abbiamo chiesto il parere di un veterano agente segreto italiano in forza alla questura di Milano, esperto in scorte ai leader mondiali in visita nel nostro Paes. Il funzionario, che vuole restare anonimo, ha espresso profonda preoccupazione riguardo all’attentato subito dall’ex presidente degli Stati Uniti durante un comizio. “L’attentatore non era un professionista, altrimenti Trump sarebbe morto. Ma è incredibile che il tetto da cui ha sparato non fosse presidiato”, ha dichiarato all’interno di un’indagine esclusiva condotta da LaCity Mag.

    A fianco con il Secret Service USA

    Secondo la fonte, che ha operato fianco a fianco con il Secret Service USA, “con le procedure e gli apparati attuali, non dovrebbe mai accadere che una posizione sopraelevata a meno di 200 metri da Trump, bonificata come dovrebbe essere, non sia presidiata dagli agenti durante un comizio”. La ricostruzione di LaCity Mag rivela tutti i “buchi”, gli errori e le incertezze nella sicurezza che protegge presidenti in carica, ex presidenti e candidati alla Casa Bianca.

    Occhio di falco

    Un punto cruciale di discussione riguarda il ruolo delle squadre “Occhio di falco”, i tiratori scelti composti da due operatori: uno sniper con il compito di sparare e uno spotter che fornisce informazioni sul bersaglio. Nonostante una squadra anti-cecchino fosse posizionata correttamente dietro al palco dove parlava Trump, “come è possibile che non si siano accorti della presenza di qualcuno sul tetto di uno degli edifici dell’area?”, si domanda la fonte.

    Presi alla sprovvista

    Il video mostra chiaramente che il tiratore del Secret Service è stato preso alla sprovvista prima di neutralizzare l’attentatore, ma ci sono voluti preziosi 10 secondi. L’attentatore è riuscito a sparare da 3 a 6 colpi, uno dei quali ha sfiorato l’orecchio destro di Trump. “Pochi millimetri avrebbero potuto risultare fatali”, aggiunge il veterano.

    Nessuna bonifica

    La procedura di sicurezza prevede una bonifica approfondita entro un raggio di 200 metri per individuare ordigni o persone a rischio, specialmente su tetti o posizioni sopraelevate. “È incredibile che un tetto come quello dello stabilimento AGR International Inc, a soli 134 metri dai tiratori scelti che proteggevano Trump, non fosse presidiato adeguatamente”, sottolinea la fonte.

    I testimoni confermano

    Ulteriori criticità emergono dalle testimonianze, come quella di Ben Macer, un manifestante che ha avvertito gli agenti della presenza dell’attentatore sui tetti circostanti. “Forse gli agenti non hanno capito o non hanno reagito in tempo”, riflette la fonte, aggiungendo che una segnalazione immediata avrebbe potuto evitare il tragico scoppio degli spari.

    Non era un professionista

    Infine, il veterano osserva che “nonostante l’attentatore abbia sparato più colpi, non era un professionista, altrimenti Trump sarebbe stato colpito mortalmente. I proiettili dell’AR-15, utilizzati nell’attacco, hanno un calibro leggero, ma non meno pericoloso”.

    Quanti dubbi sulla sicurezza

    Questo evento ha sollevato nuove preoccupazioni sulla sicurezza presidenziale, esaminando dettagliatamente le procedure e i protocolli di intervento del Secret Service in situazioni di emergenza.

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      Mondo

      Elon Musk “programma” il suo chatbot per essere scorretto: Grok diventa nazista in 3, 2, 1…

      Nel giorno in cui Elon Musk aggiorna Grok per renderlo più “politicamente scorretto”, l’intelligenza artificiale di X esplode in un tripudio di antisemitismo, complottismo e frasi degne del Mein Kampf. X corre a cancellare tutto. Ma il mostro, stavolta, lo ha costruito da solo.

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        Elon Musk voleva una voce fuori dal coro, qualcosa di alternativo ai chatbot “woke” e troppo corretti come ChatGPT o Gemini. E così ha modificato Grok, l’intelligenza artificiale targata X, per renderla più “audace”, “diretta”, “politicamente scorretta”. Detto, fatto. In poche ore Grok è diventato un Mein Kampf 2.0: ha inneggiato a Hitler, minimizzato l’Olocausto, puntato il dito contro “gli attivisti dai cognomi ashkenaziti” e definito le politiche antirazziste “odio contro i bianchi”.

        Una macchina dell’odio perfettamente confezionata, prodotta in casa Musk. Altro che algoritmo ribelle: Grok ha seguito le istruzioni. È diventato esattamente ciò che Elon voleva. Solo che invece di dire “le cose come stanno”, ha vomitato slogan neonazisti e complottismi da sottoscala digitale.

        Il tutto è esploso in pubblico martedì. Grok ha risposto a un account fake che insultava le vittime di un’alluvione in Texas con frasi degne del peggior suprematismo bianco. Non contento, ha citato l’Olocausto come “esempio di risposta efficace” e ha chiesto, sarcastico, di farsi passare i baffi se dire la verità lo rende “letteralmente Hitler”.

        Nel frattempo, X (l’ex Twitter) ha rimosso tutto. Peccato che lo schifo fosse già virale. E, proprio il giorno dopo, la CEO Linda Yaccarino si è dimessa senza dare spiegazioni. Cosa sarà mai andato storto?

        Musk tace, o peggio, rilancia. In nome della libertà d’espressione, sta distruggendo ogni argine etico. E se l’AI dev’essere “libera”, il risultato non è il dissenso. È l’odio. Programmato. Pubblicato. E, stavolta, firmato Elon Musk.

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          Mondo

          Trump lancia la sua “Netflix MAGA”: propaganda, complotti e business, tutto in streaming

          Donald Trump vuole conquistare anche il telecomando degli americani. Dopo il social fallimentare, arriva lo streaming su misura per la sua narrazione. Dietro? Il solito mix di propaganda, affari e rancore

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            Donald Trump ha deciso che i media non bastano più. Non bastano Fox News, i comizi fiume, Truth Social (il suo social fantasma). Ora serve di più: serve Truth+, una piattaforma streaming tutta sua, dove i contenuti si scolpiscono a colpi di MAGA, patriottismo tossico e verità alternative. Altro che Netflix: qui l’intrattenimento ha il profilo arancione e il parrucchino biondo.

            A spalleggiarlo, chi se non Newsmax, il canale più schierato d’America, che per anni ha spinto teorie cospirazioniste e notizie false su elezioni truccate e vaccini pericolosi. Insomma, se cercavi un rifugio sicuro per paranoici, ultrà e nostalgici del muro col Messico, sei nel posto giusto.

            Il Ceo della baracca, Devin Nunes, ha dichiarato che Truth+ offrirà “commenti incisivi contro il monolite woke”. Tradotto: una valanga di propaganda travestita da informazione, pensata per chi crede ancora che Biden dorma in un bunker sotto Disneyland e che Obama sia nato su Marte.

            Ma il problema è serio. Trump controlla tutto: piattaforma, contenuti, palinsesto, ospiti. Decide cosa si dice, come si dice e chi lo dice. La libertà di stampa? Roba da deboli. L’obiettività? Una parola da eliminare dal vocabolario.

            Intanto i giornalisti veri – tipo quelli di Associated Press o Huffington Post – vengono esclusi dalla Casa Bianca. Dentro, invece, i reporter di Newsmax, con il pass preferenziale per la propaganda. E domani, magari, anche qualche show in prima serata dove Trump intervista… Trump.

            Truth Social ha solo 6 milioni di iscritti e il nuovo streaming rischia di parlare a una stanza vuota. Ma non importa: a Trump basta che si parli di lui. Sempre. Ovunque. Anche nel salotto di casa tua, tra uno spot su bibbie marchiate Trump e una serie tv sulla “vera” America tradita da Hollywood.

            E se non ti basta, tranquillo: presto arriva anche Truth.Fi, la banca MAGA, per investire solo in aziende patriottiche, con un occhio al profitto e l’altro alla bandiera. Il capitalismo? Perfetto, finché serve la causa.

            Trump non è un politico. È un marchio. E ora si compra anche in streaming.

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              Google sotto accusa: l’intelligenza artificiale “ruba” articoli agli editori e fa crollare il traffico online

              Una coalizione di editori indipendenti europei denuncia Google alla Commissione Ue: l’uso dell’intelligenza artificiale per riassumere articoli nei risultati di ricerca violerebbe le regole della concorrenza e metterebbe in ginocchio il giornalismo.

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                L’intelligenza artificiale di Google è finita nel mirino degli editori europei. Una coalizione di testate indipendenti ha presentato una denuncia ufficiale alla Commissione Ue, accusando il colosso americano di comportamento anticoncorrenziale e di “furto sistematico” di contenuti. Nel mirino c’è Ai Overviews, la nuova funzione del motore di ricerca che, con l’ausilio dell’IA, riassume le informazioni principali tratte da vari siti e le presenta direttamente in cima ai risultati di ricerca. Il problema? L’utente legge il riassunto e non clicca più sui siti originali. Il traffico crolla, le entrate pubblicitarie pure.

                La denuncia, resa nota da Reuters, parla chiaro: “Google abusa della sua posizione dominante, sfruttando contenuti giornalistici senza autorizzazione, causando danni irreversibili a editori e lettori”. A peggiorare la situazione, il fatto che da maggio questi riassunti includono anche annunci pubblicitari: quindi Google guadagna, mentre i siti che hanno prodotto le notizie restano a mani vuote.

                Secondo l’Independent Publishers Alliance, che guida la protesta, gli editori non possono nemmeno sottrarsi: bloccare l’accesso all’IA significa sparire dai risultati di ricerca. Una trappola da cui sembra impossibile uscire. I numeri lo confermano: tra aprile 2022 e aprile 2025, Business Insider ha perso il 55% del traffico organico, secondo i dati Similarweb. Stessa sorte per HuffPost, Washington Post, Forbes, CNN e molti altri.

                Google, dal canto suo, nega ogni responsabilità e ribadisce che l’IA “aiuta gli utenti a trovare contenuti e aziende”. Ma per gli editori l’impatto è devastante: meno clic, meno lettori, meno introiti. E un algoritmo che decide chi vive e chi scompare.

                In Europa, le norme sul copyright sono più rigide che negli Usa. Ma finora non sono bastate a frenare l’avanzata delle Big Tech. Ora tocca alla Commissione decidere: tutelare l’informazione o lasciarla scomparire nel silenzio degli algoritmi.

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