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Studiare negli Stati Uniti? Ora serve anche il “visto social”

Controlli sui profili online, appuntamenti bloccati e incertezza diplomatica: ecco cosa devono sapere gli studenti italiani che sognano l’America.

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    Studiare negli Stati Uniti è sempre stato un sogno per migliaia di studenti italiani, ma oggi quel sogno passa anche da un nuovo checkpoint: i social network. Dal 18 giugno 2025, il Dipartimento di Stato americano ha introdotto una misura che impone a tutti i richiedenti di rendere pubblici i propri profili social. Post, commenti, like e condivisioni saranno passati al setaccio dai funzionari consolari. Obiettivo: individuare eventuali “segnali di ostilità” verso gli Stati Uniti, la loro cultura o le istituzioni.

    Consolati in attesa di nuovi ordini

    La misura riguarda tutti i visti legati all’istruzione e agli scambi culturali: F1 per studenti universitari, J1 per liceali e programmi di scambio, M1 per formazione professionale. E non si tratta solo di nuove richieste: anche i rinnovi saranno soggetti a questo screening digitale. Il problema? Al momento non è ancora possibile fissare nuovi appuntamenti nei consolati americani in Italia. La procedura è stata riattivata “sulla carta”, ma nei fatti resta bloccata, lasciando migliaia di studenti, ricercatori e professori in un limbo burocratico. Le critiche non si sono fatte attendere. L’American Council on Education e NAFSA hanno espresso timori sull’impatto dissuasivo della misura. Sottolineano il rischio di un calo significativo nelle iscrizioni internazionali, già segnate da oltre 1.800 revoche di visto per motivi politici o ideologici.

    Organizzazioni come ACLU e Human Rights Watch parlano di un “effetto gelido” sulla libertà di espressione, mentre il mondo accademico teme un crollo delle iscrizioni internazionali. Il rischio è che il visto diventi un test politico, soprattutto per chi ha espresso opinioni critiche, ad esempio in merito al conflitto israelo-palestinese.

    Cosa fare, allora, se si vuole studiare negli USA?

    Pulizia digitale. Rivedere i propri profili social, impostare la privacy su “pubblico” come richiesto, ma con attenzione a contenuti potenzialmente controversi. Avere sempre la documentazione pronta. Preparare con largo anticipo tutti i documenti richiesti, inclusi quelli accademici e finanziari. Monitorare i canali ufficiali come ambasciate e consolati che pubblicano aggiornamenti sulle disponibilità degli appuntamenti. Magari valutare alternative agli Stati Uniti. In caso di ritardi prolungati, considerare programmi in altri Paesi anglofoni o posticipare l’esperienza. Insomma studiare negli Stati Uniti è ancora possibile, ma occorre munirsi di più pazienza, più trasparenza e più consapevolezza digitale. Il sogno americano passa anche da un feed Instagram e ogni like potrebbe fare la differenza.

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      Mondo

      Dalla promessa di “zero conflitti” ai raid congiunti su Fordow, Natanz e Isfahan: così la Casa Bianca si allinea a Israele

      Gli Stati Uniti hanno colpito con missili di precisione le basi atomiche di Fordow, Natanz e Isfahan, affiancandosi ufficialmente all’offensiva israeliana. Teheran ha risposto con missili balistici. L’Europa trema, il Golfo Persico è sull’orlo del collasso. E l’unico a non essere sorpreso… è Trump stesso.

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        Donald Trump ha fatto pace con l’idea della guerra. Non la sua, ovviamente. Ma quella da esportare, bombardare, spettacolarizzare. Come ogni presidente americano che si rispetti. Il 45esimo, nel cuore della notte, ha lanciato l’operazione che tutti temevano e che lui stesso aveva giurato di evitare: missili su tre siti nucleari iraniani, a fianco dell’offensiva israeliana. Il tutto mentre Gerusalemme e Teheran si scambiano cortesie balistiche da oltre una settimana. Ma ora – con la benedizione a stelle e strisce – è ufficialmente una guerra.

        I raid USA hanno colpito gli impianti di Fordow, Natanz e Isfahan, centrali del programma atomico iraniano. Un attacco chirurgico, dicono dal Pentagono, ma il bisturi è passato sopra un campo minato geopolitico. Teheran ha risposto: oltre 40 missili, alcuni atterrati in territorio israeliano. Nessuna vittima, ma molti nervi saltati.

        L’Europa, nel frattempo, arranca dietro le conferenze stampa. La Farnesina ha convocato una riunione d’urgenza con intelligence e Stato Maggiore. “Valutiamo gli scenari possibili”, ha detto una fonte del governo italiano, che tradotto suona più o meno come: “Ci auguriamo di non finire in mezzo”. Da Bruxelles piovono appelli alla moderazione, che da Teheran a Tel Aviv hanno lo stesso effetto dell’acqua sulla ghisa rovente.

        Trump, intanto, si gode il caos che ha aiutato a creare. Nei giorni scorsi aveva accusato l’Iran di “attività eversive” e promesso “azioni mirate”. Traduzione: bombardamenti. Niente di nuovo. Chi si aspettava il tycoon pacifista, pronto a ritirare le truppe e a difendere l’America “prima di tutto”, oggi scopre che America First può includere anche l’ordine di far partire Tomahawk a mezzanotte, in diretta social, con il sottofondo dell’inno nazionale.

        Il Dipartimento di Stato si è affrettato a rassicurare: “Non cerchiamo un conflitto, ma non permetteremo minacce contro i nostri alleati”. Tradotto: Israele può bombardare, noi pure, purché ci chiamiate “moderatori”. E infatti, i vertici israeliani – dal ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir al premier in perenne emergenza Benjamin Netanyahu – applaudono commossi: “Grazie Donald, ora sì che siamo in buona compagnia”.

        L’Iran, dal canto suo, parla apertamente di “aggressione occidentale” e promette “risposte su più fronti”. Con Hezbollah già attiva nel Libano meridionale e i ribelli Houthi più allegri del solito, il fronte potrebbe allargarsi ben oltre il Golfo. I mercati tremano, il prezzo del greggio schizza, e qualcuno a Wall Street ha già scommesso su un nuovo conflitto redditizio.

        Intanto l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, si dichiara “gravemente preoccupata” per la sicurezza dei siti colpiti e per la tenuta del trattato di non proliferazione. Ma chi ha voglia di sentire i tecnici quando si possono seguire le esplosioni in diretta?

        Tutto questo per “contenere l’Iran”, certo. Ma anche per dimostrare che Trump, quando promette pace, intende quella che arriva dopo la guerra. Con buona pace dei pacifisti, dei trattati e di tutte le buone intenzioni lanciate in campagna elettorale e rimosse – come sempre – dopo le primarie.

        Del resto, anche la guerra è una forma di spettacolo. E lo show, come insegna The Donald, deve andare avanti.

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          Mondo

          Pentagon Pizza, la pizzeria preferita dai complottisti (e non solo)

          Altro che CIA: il vero barometro geopolitico è la pizza del Pentagono. E ogni morso potrebbe nascondere l’inizio dell’Apocalisse.

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            Chi ha detto che per prevedere l’inizio di una guerra servono briefing segreti, satelliti a infrarossi o gole profonde del Mossad? A quanto pare, basta un rider in ritardo e un paio di margherite con l’extra formaggio consegnate troppo in fretta a una base militare. Il mondo sta cambiando e anche l’intelligence si adegua: benvenuti nell’era del Pentagon Pizza Index.

            Secondo questa teoria (squisitamente assurda, irresistibilmente americana), quando nei locali intorno al Pentagono aumentano le consegne di pizza, allora sta per succedere qualcosa di grosso. Di molto grosso. Tipo un attacco militare. O peggio: un’intervista di Trump.

            Il picco più recente? La notte tra il 12 e il 13 giugno, proprio mentre Israele lanciava un raid chirurgico contro alcuni impianti in Iran. Coincidenza? Forse. Ma su X (ex Twitter), l’account “Pentagon Pizza Report” suonava già la sirena: boom di consegne segnalate da Google Maps in almeno quattro pizzerie vicine al quartier generale della Difesa USA. I nomi? We, The Pizza, Domino’s, District Pizza Palace e Extreme Pizza. Altro che Five Eyes: qui basta uno smartphone e un po’ di salsa di pomodoro.

            Niente fake news, ci tengono a precisare gli autori del report: tutto rigorosamente open source. Nessun agente segreto, solo rider, scontrini digitali e mappe online. E se l’intelligence ufficiale ignora, l’intelligenza della pizza non perdona.

            Il Pentagono ha provato a smentire, con un portavoce che ha balbettato qualcosa del tipo: “Abbiamo sushi, panini, caffè… non c’è bisogno di ordinare da fuori”. Ma ormai era troppo tardi. Il popolo della rete ha deciso: la pizza è l’oracolo del XXI secolo.

            Questa teoria non nasce oggi. Le sue radici affondano nella Guerra Fredda, quando – si racconta – gli agenti sovietici notarono che nei momenti di crisi aumentavano le consegne ai palazzi del potere. Ma la vera consacrazione arriva il 1° agosto 1990, quando il leggendario pizzaiolo Frank Meeks riceve un’ordinazione della CIA: 21 pizze in una notte. Il giorno dopo Saddam invade il Kuwait. E boom, Guerra del Golfo. Da lì in poi, ogni pizza diventa un dispaccio segreto col pomodoro.

            Nel 1998 il Washington Post lo incorona “storico della pizza non ufficiale della capitale” dopo aver rivelato che durante l’impeachment di Clinton, Capitol Hill si era fatto consegnare pizze per 11.600 dollari. Avete presente il Watergate? Spiccioli, al confronto.

            Oggi, il data journalist dell’Economist, Alex Selby-Boothroyd, lo ha definito senza mezzi termini uno strumento “sorprendentemente affidabile”. Ha pure scritto: “Chi dice che i grafici a torta non servono a niente?”. E come dargli torto.

            Certo, il sistema non è perfetto. Un picco nelle ordinazioni potrebbe anche essere colpa di una riunione troppo lunga, di un crash ai software del Pentagono o – orrore supremo – della macchinetta del caffè guasta. Ma nell’epoca dell’OSINT da divano, anche questi dettagli contano. Soprattutto se si incrociano con dati elettrici anomali, voli militari non tracciati e improvvisi blackout nei corridoi del potere.

            La morale? Come diceva il cronista Wolf Blitzer nel 1990: “Giornalisti, controllate sempre le pizze”. Perché oggi la pace nel mondo potrebbe dipendere non da un negoziato, ma da una pepperoni extra large. E se al Pentagono chiamano la pizzeria due volte di fila… forse è già troppo tardi. Meglio correre ai ripari. Con una pizza sottobraccio e il passaporto pronto.

            Nel dubbio, controllate Deliveroo. Se c’è coda davanti alla Comet Ping Pong… fate scorte.

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              Trump Inc., il bazar della Casa Bianca: tra Bibbie, sneaker e telefonini d’oro, il brand del presidente vale

              Sneaker, Bibbie, telefonini d’oro e perfino un operatore mobile: il marchio Trump è ovunque. Dalla dichiarazione dei redditi emergono 600 milioni di dollari incassati in licenze, royalty e investimenti. Ma il conflitto d’interessi, tra politica e business, è più vivo che mai.

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                Non è più la Casa Bianca: è diventata un duty free presidenziale. Chitarre, Bibbie, profumi, sneaker, orologi e perfino telefonini d’oro: tutto firmato Trump. O meglio, tutto concesso in licenza dalla Trump Organization, la holding di famiglia che sfrutta il marchio dell’ex tycoon e oggi presidente Usa come fosse un logo da supermarket. E i conti tornano, eccome: secondo i documenti depositati all’Ufficio per l’etica governativa, Donald Trump ha incassato oltre 600 milioni di dollari solo grazie ai diritti d’uso del suo nome.

                Il meccanismo è semplice: Trump concede il marchio, le aziende lo piazzano ovunque, dai cosmetici agli smartphone. Poi, incassa. Nessuna responsabilità sulla qualità dei prodotti, si capisce: che siano made in China o made in America, che funzionino o meno, non è affar suo. Le royalty sono garantite, i reclami no.

                Sneaker e Bibbie col bollino Trump

                Per dire: 45 Footwear ha pagato 2,5 milioni di dollari per stampare il suo nome su sneaker e profumi. “The Best Watches on Earth” ha versato 2,8 milioni per una linea di orologi. La Lma Productions si è accaparrata la licenza per chitarre e Bibbie – sì, Bibbie – sborsando 2,3 milioni. Il tutto mentre gli editori si contendono diritti su titoli come Letters to Trump o A Maga Journey, per cifre che arrivano ai 3 milioni di dollari. Il prezzo dell’ideologia, versione merch.

                Criptovalute e gettoni: l’oro digitale di Donald

                Ma il vero boom, secondo Reuters, arriva dal fronte cripto. Nel 2024, la vendita dei “gettoni presidenziali” emessi da World Liberty Financial ha fruttato 57,4 milioni di dollari. La valuta digitale «$Trump» promette bene, e i dividendi da fondi e investimenti in società come Caterpillar o CNH Industrial ammontano ad almeno 11 milioni. A colpire però è l’intreccio pericoloso tra affari privati e incarico pubblico: il conflitto di interessi è evidente, tanto da sollevare più di una perplessità etica.

                Il telefono di Trump (e non è una barzelletta)

                L’ultima trovata? Uno smartphone “patriottico” a 499 dollari, venduto come 100% made in USA e corredato da un servizio mobile da 47,45 dollari al mese. Ma anche qui, il presidente ci mette solo il nome. Il resto è licenza pura. L’ennesimo tassello in un puzzle dove business e politica si sovrappongono pericolosamente. Una nuova frontiera del merchandising istituzionale, dove la presidenza è il marchio e il consumatore, l’elettore.

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