Mondo
Vaccini, Boris Johnson e l’invasione fantasma: “Volevo attaccare l’Olanda per riprendermi le dosi”
“Dopo mesi di negoziati inutili, l’Ue ci trattava con dispetto”: così Johnson giustifica l’idea estrema di intervenire militarmente in un paese alleato

Londra – Un’operazione militare in Olanda per recuperare le dosi di vaccino anti-Covid “prese in ostaggio” dall’Unione europea con “malizia e dispetto”. Questo è uno dei passaggi più sorprendenti della nuova autobiografia di Boris Johnson, intitolata Unleashed – letteralmente, “sguinzagliato” – in uscita il 10 ottobre nel Regno Unito. L’ex primo ministro britannico ha svelato retroscena mai rivelati prima sui suoi anni al potere, incluso un possibile raid militare durante la pandemia per recuperare vaccini bloccati in territorio olandese.
Secondo quanto riportato in un’anteprima pubblicata dal Daily Mail, Johnson ha raccontato di una riunione segreta nel marzo 2021 a Downing Street, in cui le forze armate britanniche studiarono la fattibilità di un’operazione in Olanda. L’obiettivo? Recuperare cinque milioni di dosi di AstraZeneca custodite nello stabilimento Halix di Leiden, bloccate dall’Ue e impossibili da esportare in Gran Bretagna.
Johnson descrive la scena nei minimi dettagli: “Il generale Doug Chalmers, vice capo di stato maggiore della Difesa, spiegò che un intervento era possibile: avremmo potuto inviare una squadra su un aereo civile e un’altra su gommoni militari”. Ma l’ex premier ricorda di essersi trattenuto: “Sapevo che era una pazzia, ma ero disperato. Fintanto che la gente del mio paese continuava a morire di Covid, credevo fosse mio dovere mettere le mani su quelle dosi e usarle per salvare vite nel Regno Unito”.
L’assalto mai avvenuto
L’operazione, fortunatamente mai realizzata, avrebbe potuto creare un grave incidente diplomatico, dal momento che l’Olanda è un paese membro della Nato, alleato della Gran Bretagna. Tuttavia, l’insistenza di Johnson sul fatto che l’Ue stesse trattenendo le dosi “con dispetto” per punire il Regno Unito, reo di aver lasciato l’Unione con la Brexit, lo spinse a considerare l’intervento.
In quel periodo, ricorda Johnson, il Regno Unito stava vaccinando a ritmi record, grazie proprio al vaccino AstraZeneca, sviluppato con fondi governativi britannici. Dopo due mesi di “futili negoziazioni” con Bruxelles, l’ex premier arrivò alla conclusione che l’Ue stava volutamente sabotando il successo del Regno Unito. “Potevo vedere lo stabilimento su Google Earth, sembrava facile da svaligiare”, scherza Johnson nella sua autobiografia.
Critiche alla retorica bellica
Le rivelazioni di Johnson hanno subito scatenato critiche, anche da parte di testate tradizionalmente vicine ai conservatori. The Spectator, ad esempio, ha messo in dubbio la lucidità dell’ex premier, sottolineando come già nel marzo 2021 fosse evidente che il vaccino AstraZeneca presentava dei limiti, e che un leader più saggio avrebbe evitato azioni sconsiderate. “Era così inebriato dal successo del vaccino post-Brexit – scrive il giornalista Ross Clarke – che la sua capacità di giudizio ne risultò compromessa”.
“Grazie alla Brexit abbiamo vinto la corsa al vaccino”
Nell’autobiografia, Johnson non mostra alcun segno di ripensamento: anzi, rivendica il successo della Gran Bretagna nella corsa al vaccino, che attribuisce interamente alla Brexit. “È grazie alla Brexit e a Kate Bingham, che guidò l’operazione vaccini, se siamo stati i primi a vaccinare la nostra popolazione. Avevo ragione quando, su un muro di Notting Hill, lessi la scritta ‘la Brexit salva vite'”, afferma con orgoglio l’ex primo ministro.
Lo stile diretto e spesso provocatorio di Johnson emerge in diversi passaggi del libro. Parlando della sua predecessora Theresa May, scrive di aver sempre apprezzato “l’arroganza da maestra” e il modo in cui alzava gli occhi al cielo ogni volta che lui le diceva “qualcosa di scandaloso”. Inoltre, Johnson rivela di essere stato incaricato di parlare con il principe Harry per convincerlo a non trasferirsi in California, un episodio che Buckingham Palace ha prontamente smentito.
In ogni caso, Unleashed promette di essere una lettura esplosiva che riporterà Johnson al centro del dibattito politico e mediatico britannico, proprio come ai tempi del suo governo.
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Anfore di oltre 3,4 mila anni ritrovate in Israele
Il ritrovamento non solo riscrive la storia della navigazione, ma offre anche una finestra unica sul passato, dimostrando l’esistenza di scambi commerciali vivaci nel Mediterraneo orientale durante la tarda età del Bronzo.

Pur impegnato su due fronti di guerra in Israele, a circa 90 chilometri dalla costa di Haifa a una profondità di 1.800 metri, è stato rinvenuto il relitto di una nave mercantile risalente a 3.400 anni fa. Questa scoperta davvero straordinaria potrebbe riscrivere la storia della navigazione nell’età del Bronzo.
Navigare lontano dalla costa
Il ritrovamento, annunciato dall’Autorità per le antichità di Israele è avvenuto grazie a Energean, compagnia di gas naturale. Durante l’esplorazione del fondale marino, ha individuato una pila di anfore sul fondo. Storicamente si tratta di un ritrovamento molto importante e significativo. Perché? Perché rivela l’abilità dei marinai dell’età del Bronzo di navigare lontano dalla vista della costa. Ribaltando le ipotesi accademiche precedenti che suggerivano per quel periodo storico una navigazione esclusivamente costiera.
Ben conservati grazie allo strato di fango che ricopriva il relitto
La nave, lunga tra i 12 e i 16 metri, sembra essere affondata improvvisamente, forse a causa di una tempesta o di un attacco pirata. Il carico di anfore, tipiche della tarda età del Bronzo e utilizzate per trasportare olio, vino e frutta, è stato trovato intatto grazie al fango che ha contribuito a preservare i reperti per millenni. Il ritrovamento di questo relitto offre agli scienziati una preziosa opportunità per comprendere meglio gli scambi commerciali e la vita nell’età del Bronzo.
Età del Bronzo senza più segreti
L’utilizzo di un robot subacqueo ad alta tecnologia è stato fondamentale per recuperare i primi reperti senza danneggiarli. Gli archeologi sperano di trovare ulteriori tracce all’interno delle stesse anfore che possano rivelare maggiori dettagli sui prodotti trasportati e sul commercio dell’epoca.
Un florido commercio in epoche lontane
Questo ritrovamento non solo riscrive la storia della navigazione, ma offre anche una finestra unica sul passato, dimostrando l’esistenza di scambi commerciali vivaci nel Mediterraneo orientale durante la tarda età del Bronzo.
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Il nipote rompe il silenzio: “Zio Trump ha i segni dell’Alzheimer”
“Riconosco quei segnali”: il nipote dell’ex presidente rompe il silenzio e chiede trasparenza. Sintomi, storia familiare e un memoir che riaccende il dibattito. Intanto la politica americana si interroga sull’età dei suoi leader

La domanda che aleggia da mesi nei corridoi della politica americana ora arriva da dentro casa: Donald Trump sta mostrando i primi segni dell’Alzheimer? A rompere il muro di silenzio non sono avversari politici o analisti, ma un parente diretto. Fred Trump III, figlio del fratello maggiore dell’ex presidente, ha parlato apertamente della sua preoccupazione per lo zio, evocando ricordi dolorosi legati alla lunga malattia del nonno Fred Trump Sr., morto nel 1999 dopo otto anni di lotta contro l’Alzheimer.
«Non sono un medico, ma riconosco quei segnali», ha detto il nipote in un’intervista a SiriusXM. Il riferimento è a momenti di incoerenza nei discorsi pubblici di Donald Trump, pause sospette, divagazioni improvvise, che – a suo dire – ricordano il declino cognitivo già vissuto all’interno della famiglia. Nessuna accusa, precisa Fred Trump III, ma un invito alla trasparenza. «Chi guida una nazione ha il dovere di essere lucido. E se ci sono dubbi, vanno chiariti. Anche per rispetto del ruolo».
Il caso non arriva a caso. Il nipote ha appena pubblicato il libro “All in the Family: The Trumps and How We Got This Way”, un memoir che racconta luci e ombre della dinastia Trump. Tra le pagine, si parla della disabilità del figlio William, di conflitti familiari mai sopiti e di un isolamento che avrebbe colpito i Trump “di serie B”, esclusi dal cuore del potere. Ma il passaggio che ha fatto più rumore è proprio quello sulla salute dell’ex presidente: una possibile ereditarietà genetica e il timore che i primi sintomi vengano ignorati o sottovalutati.
Nel 2020, fu lo stesso Donald Trump a vantarsi dei risultati ottenuti nel Montreal Cognitive Assessment, una sorta di test per verificare le funzioni cognitive di base. Lo usò come clava politica contro Joe Biden. Oggi, però, la parte si inverte: Fred Trump III chiede che sia lo zio a sottoporsi a un nuovo test, per dissipare ogni dubbio. «Non è una questione di parte», ha detto. «È un tema di salute pubblica».
I segnali a cui il nipote fa riferimento sono quelli noti agli esperti: dimenticanze ripetute, discorsi sconnessi, calo del linguaggio fluido, cambiamenti d’umore, disorientamento. Presi da soli potrebbero sembrare normali segni dell’invecchiamento. Ma quando si presentano insieme e con frequenza, è bene non ignorarli. Tanto più se riguardano un leader globale.
Trump ha oggi 77 anni ed è, con Biden, uno dei candidati più anziani alla Casa Bianca nella storia americana. La questione dell’età e della lucidità mentale è ormai parte integrante del dibattito elettorale, e non senza motivo: nel luglio 2024 Joe Biden ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa alla rielezione, lasciando il testimone a Kamala Harris. Le pressioni sul suo stato mentale erano diventate insostenibili.
Nessuna replica ufficiale finora da parte di Trump o del suo staff alle dichiarazioni del nipote. Ma la sensazione, a Washington e dintorni, è che il tema sia destinato a esplodere, in un’America sempre più spaccata, dove anche la salute diventa arma politica.
E quando la battaglia si combatte in famiglia, diventa ancora più difficile ignorarla.
Mondo
Vaccini in calo, l’infanzia torna a morire: decuplicati i casi di morbillo in Europa
Colpa della pandemia, delle guerre e della disinformazione: l’immunizzazione infantile arretra ovunque e le malattie considerate debellate tornano a colpire. Nel 2024 l’Unione europea ha registrato dieci volte più casi di morbillo rispetto all’anno precedente. L’Oms teme una nuova ondata di morti evitabili

C’è un segnale che si sta facendo largo nei silenzi delle agende politiche e nei reparti pediatrici del mondo: i bambini stanno tornando a morire per malattie che si pensavano sconfitte da decenni. Il dato più allarmante arriva dall’Unione europea: nel 2024 i casi di morbillo sono aumentati di dieci volte rispetto all’anno precedente. Negli Stati Uniti, solo nel mese di maggio 2025, sono stati registrati più di mille nuovi contagi, superando l’intero bilancio del 2024. La causa? Un crollo della copertura vaccinale, che non riguarda soltanto i Paesi poveri, ma anche quelli più industrializzati.
A lanciare l’allarme è uno studio pubblicato dalla rivista scientifica The Lancet, che analizza la situazione in 204 Paesi e territori. Secondo il rapporto, l’immunizzazione infantile è in calo in tutto il pianeta: la pandemia ha rotto il ritmo delle campagne vaccinali, le guerre hanno sfollato milioni di persone e la disinformazione ha fatto il resto. Una combinazione micidiale, che rischia di far saltare decenni di progressi.
Il quadro tracciato dallo studio è sconfortante. Dal 2020 al 2023, quasi 13 milioni di bambini in più rispetto agli anni precedenti non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino, mentre oltre 15 milioni non hanno completato il ciclo per difterite, tetano, pertosse o morbillo. Paesi interi hanno perso terreno: in America Latina e nei Caraibi, la copertura contro il morbillo si è dimezzata tra il 2010 e il 2019. E il trend non si è fermato.
Nemmeno l’Europa è immune. Negli ultimi due anni, anche nei Paesi ad alto reddito, si è registrato un calo nell’immunizzazione di base, con un progressivo indebolimento della protezione collettiva. La ripresa è lenta, frammentaria, e i segnali di allarme spesso ignorati. In Africa subsahariana e Asia meridionale, la situazione è ancora più grave: oltre la metà dei 15,7 milioni di bambini non vaccinati nel 2023 vive in appena otto Paesi, dove mancano strutture, farmaci, medici e – troppo spesso – anche la volontà politica di intervenire.
Eppure, i numeri del passato dovrebbero bastare a ricordare quanto siano state determinanti le vaccinazioni: più di 150 milioni di vite salvate negli ultimi quarant’anni secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, con una copertura raddoppiata tra il 1980 e il 2023. Un successo che oggi appare fragile, persino reversibile.
«È la prima volta da decenni che il numero di bambini che muoiono nel mondo rischia di aumentare invece di diminuire», ha dichiarato Bill Gates, finanziatore della ricerca attraverso la sua fondazione. «È una tragedia». E se oggi il traguardo di vaccinare il 90% dei bambini del mondo sembra lontanissimo, lo è ancora di più l’obiettivo di dimezzare, entro il 2030, la quota di bambini che non ricevono nemmeno una dose entro l’anno di età. Ad oggi, solo 18 Paesi su 204 hanno raggiunto questo obiettivo.
A perdere tempo, adesso, è l’intera umanità. Ma a pagare il prezzo più alto, ancora una volta, saranno i più piccoli.
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