Politica
Dal Leoncavallo ad “afuera”: Salvini dimentica il suo passato da frequentatore del centro sociale che oggi rivendica di aver fatto sgomberare
Matteo Salvini, a 21 anni, raccontava che dai 16 ai 19 il suo ritrovo era il Leoncavallo, centro sociale milanese sgomberato ieri. All’epoca lo difese a spada tratta, parlando di “idee e bisogni condivisi” e ricevendo applausi dal Pds. Trentun anni dopo, da ministro, ha brindato allo sfratto citando Milei: “Afuera!”. Intanto a Roma resta intoccata l’occupazione di Casapound, e crescono le accuse di doppiopesismo.

“Dai 16 ai 19 anni il mio ritrovo era il Leoncavallo. Mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”. Correva il 1994 e un giovane consigliere comunale, Matteo Salvini, difendeva in aula quello che oggi celebra come il trionfo della legalità calata dall’alto. Il verbale dell’epoca è chiaro: per il futuro leader della Lega, i centri sociali erano luoghi di incontro, discussione, perfino divertimento. “Ci si trova per confrontarsi, bere una birra e divertirsi” disse allora, ricevendo l’approvazione persino del capogruppo del Pds, Stefano Draghi, che definì il suo intervento “lucido ed equilibrato”.
Trentun anni dopo, la scena è ribaltata. All’indomani dello sgombero dello storico centro sociale di via Watteau, Salvini ha esultato sui social: “Decenni di illegalità tollerata: afuera!”. Una citazione del presidente argentino Milei che ha fatto il giro delle bacheche, non senza imbarazzo per i ricordi che riaffiorano. Perché Salvini, prima di vestire i panni del “capitano”, è stato un giovane comunista padano che al Leonka, come lo chiamano a Milano, ci andava davvero.
Lo sfratto ha riaperto ferite storiche. Il sindaco Giuseppe Sala ha denunciato di non essere stato avvisato dell’operazione, nonostante il comitato per l’ordine e la sicurezza si fosse riunito il giorno prima. “Un valore storico e sociale della città” ha ribadito Sala, convinto che il Leoncavallo debba continuare a produrre cultura “in un contesto di legalità”.
Ma la polemica politica si allarga. Luca Casarini parla di “sgombero con sotterfugio”, Angelo Bonelli denuncia il doppio standard: “Si chiude il Leoncavallo e si lascia intatto il palazzo occupato da Casapound nel cuore di Roma”. Giorgia Meloni, invece, plaude: “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche”.
Così lo spirito del Leonka torna al centro della contesa politica, sospeso tra la memoria di chi lo visse come spazio di socialità e la narrazione di chi oggi lo liquida come simbolo di illegalità. In mezzo resta la contraddizione di Salvini: da giovane lo difendeva, da ministro lo caccia via.
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Politica
Onorevoli morosi: i parlamentari che non pagano le quote e fanno piangere le casse dei partiti (ma non mollano la poltrona)
Sono eletti, ma non pagano. Siedono in Aula, ma latitano alla cassa. In tutti i partiti abbondano i morosi delle quote, quelli che dovrebbero versare contributi e invece fanno gli gnorri. Mentre i tesorieri impazziscono e i bilanci piangono, spunta la minaccia dell’incandidabilità. Ma qualcuno pensa davvero che funzionerà?

Pagano le bollette, forse. Versano il mutuo, magari. Ma quando si tratta di pagare le quote al partito, gli onorevoli si eclissano come fossero a un vertice Nato… ma senza invito. Benvenuti nel meraviglioso mondo degli “onorevoli morosi”: categoria trasversale, bipartisan, e sorprendentemente creativa nel trovare scuse per evitare di saldare i conti con il proprio partito.
Il caso più emblematico è quello del Movimento 5 Stelle, che ha scoperto di avere un buco di 2,8 milioni di euro in quote non versate da parlamentari e consiglieri regionali. E per non farsi mancare nulla, ci sono altri 1,4 milioni mai restituiti in indennità di fine mandato. A quel punto il tesoriere Claudio Cominardi ha detto basta: “O paghi o resti fuori dai giochi”. Tradotto: niente più candidature né incarichi per chi fa lo gnorri alla cassa.
Il risultato? Il partito ha chiuso comunque il bilancio 2024 con un avanzo di oltre due milioni. Magia? No, solo una buona gestione e qualche recupero forzato. Altro che “uno vale uno”: qui vale chi versa.
Ma non pensiate che i grillini siano un’eccezione. Il vizietto del “non pago, tanto chi se ne accorge” colpisce un po’ ovunque. Nel Partito democratico, il buco da morosità è di 441 mila euro, anche se in leggero calo rispetto all’anno scorso grazie ad azioni legali. Insomma: se non vuoi versare spontaneamente, ti citano. Con affetto, si intende. E nonostante tutto, al Nazareno si brinda: avanzo da 650 mila euro, anche grazie al 2×1000 (oltre 10 milioni). Unico problema? L’affitto: 502 mila euro per la sede. Perché sì, la politica costa. Soprattutto se vuoi farla con il parquet.
Il partito con il miglior comportamento? Sinistra italiana, che vede lievitare i contributi da 204 a 281 mila euro in un anno. Unico caso virtuoso. Forse perché, senza grandi mecenati, lì le quote sono come il pane: o le hai, o resti a digiuno.
E il centrodestra? Beh… Fratelli d’Italia, che lascia i versamenti alla volontà degli eletti, ha perso 1,2 milioni. La Lega ne ha lasciati sul campo 700 mila. Risultato: entrambi in rosso, e con i bilanci da rianimare. Tanto che anche loro stanno meditando il modello 5 Stelle: “paghi o fuori”.
In casa Forza Italia, invece, le cose vanno (relativamente) meglio. Il buco c’è – 307 mila euro di disavanzo – ma a tappare le falle ci hanno pensato 128 imprenditori con un cuore grande come una donazione: oltre 1,5 milioni versati. Altro che fundraising: questo è il Superenalotto.
E intanto, mentre i tesorieri fanno i conti con Excel e tachipirina, i parlamentari si dividono in tre categorie:
– quelli che pagano senza fiatare,
– quelli che rimandano “alla prossima settimana” da sei mesi,
– e quelli che proprio spariscono, rispondendo alle PEC con gif di gattini.
L’idea dell’incandidabilità per chi non versa? Bellissima. Ma un po’ come il gelato in spiaggia: parte bene, poi si squaglia.
Perché diciamolo: in politica tutti promettono, ma alla cassa arrivano in pochi. Soprattutto se devono mettere mano al portafogli e non al microfono.
Politica
Speciale TG LaC: lo spoglio in diretta delle Regionali Calabria 2025. Occhiuto, Tridico e Toscano si giocano la guida della Regione

Le urne si sono chiuse e ora la parola passa ai numeri. In Calabria è il giorno dello spoglio: dalle 15 prende il via la lunga diretta dello Speciale TG LaC, per raccontare in tempo reale la sfida che deciderà chi guiderà la Regione nei prossimi cinque anni. Un appuntamento in contemporanea su LaC Tv (canale 11 del digitale terrestre), LaC Play e su tutti i canali social del gruppo, con collegamenti dai seggi, ospiti, analisi e aggiornamenti minuto per minuto.È stata una tornata elettorale breve ma ad alta tensione, con tre candidati in campo e quasi 1,9 milioni di calabresi chiamati a scegliere il nuovo presidente e i consiglieri regionali. L’uscente Roberto Occhiuto, sostenuto dal centrodestra unito – Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega, Noi Moderati, Udc e le civiche “Occhiuto Presidente” e “Forza Azzurri” – cerca la riconferma dopo le dimissioni anticipate con cui ha voluto rimettere ai cittadini la fiducia, in seguito all’avviso di garanzia che lo ha travolto in estate.A sfidarlo c’è Pasquale Tridico, economista ed europarlamentare del Movimento Cinque Stelle, già presidente dell’Inps, candidato del centrosinistra con l’appoggio di Pd, M5S, Alleanza Verdi-Sinistra, Italia Viva e le liste “Democratici e Progressisti” e “Tridico Presidente”. Terzo in corsa Francesco Toscano, giornalista e leader di “Democrazia Sovrana e Popolare”, che tenta di intercettare il voto di protesta e dei delusi dai grandi schieramenti.Nelle 2.406 sezioni elettorali delle cinque province, l’affluenza è stata moderata ma in linea con le previsioni: segno di un elettorato ancora diviso tra disincanto e voglia di cambiamento. Decisive le aree di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, dove si gioca il destino politico della regione.Lo Speciale TG LaC seguirà passo dopo passo lo scrutinio con una squadra di inviati e analisti politici. Dalle prime sezioni alle proiezioni, fino ai risultati ufficiali, la diretta accompagnerà i calabresi per tutta la giornata e la serata, con interviste ai protagonisti e ai rappresentanti dei partiti.Chi vincerà la sfida per la guida della Calabria? Lo scopriremo insieme, in diretta su LaC Tv, LaC Play e sui canali social.
Politica
Maria Rosaria Boccia, l’ex compagna di Gennaro Sangiuliano verso il processo: accuse di stalking e diffamazione
Dopo mesi di indagini, i pm contestano a Boccia una “condotta persecutoria e diffamatoria” ai danni dell’ex compagno. Gli avvocati di Sangiuliano: «Primo passo verso la verità».

La storia d’amore finita tra Gennaro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia approda in tribunale. La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per l’imprenditrice, accusata di stalking aggravato, lesioni personali, diffamazione e interferenze illecite nella vita privata. I fatti contestati risalgono ai mesi successivi alla rottura con l’ex ministro della Cultura, che aveva presentato una denuncia parlando di “atti ossessivi e intimidatori” da parte della ex compagna.
Secondo i magistrati, Boccia avrebbe messo in atto un comportamento “reiterato e persecutorio”, fatto di contatti indesiderati, messaggi, pedinamenti e presunti episodi di aggressione. Tra gli elementi al centro del fascicolo figura anche una ferita riportata da Sangiuliano durante un litigio, documentata da una foto diffusa tempo fa sui media.
































Oltre allo stalking, all’ex compagna del politico vengono contestate anche false dichiarazioni nel curriculum, utilizzate – secondo l’accusa – per ottenere incarichi nel settore culturale. Un capitolo secondario ma che rafforza, secondo la Procura, il profilo di una gestione “opaca e manipolatoria” dei rapporti professionali.
«Ci costituiremo parte civile – hanno dichiarato gli avvocati Silverio Sica e Giuseppe Pepe, difensori di Sangiuliano –. È il primo passo verso la piena conferma della verità del nostro assistito». Il giornalista, oggi tornato alla guida del Giornale Radio Rai dopo l’esperienza al ministero, ha preferito non rilasciare dichiarazioni, limitandosi a ribadire la fiducia nella magistratura.
Diversa la versione della difesa di Boccia, che respinge ogni accusa: «Non c’è stato alcun comportamento persecutorio. Si tratta di una storia privata travisata e trasformata in un caso mediatico».
L’inchiesta, seguita con discrezione dagli investigatori romani, si è concentrata su un ampio materiale di chat, messaggi e testimonianze. Ora sarà il giudice dell’udienza preliminare a decidere se mandare a processo la donna o archiviare il caso.
Se il rinvio sarà confermato, l’ex ministra e la sua ex compagna si ritroveranno presto di fronte, questa volta non più davanti ai riflettori, ma in un’aula di tribunale.
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