Politica
Esami la domenica e 110 e lode: la laurea record della ministra Calderone finisce in Procura
Esami di domenica, nessuna traccia della triennale, una cattedra mentre era ancora studentessa: il caso della ministra Calderone si ingrossa. Il governo tace, l’università cancella le prove dal web e ora tocca alla magistratura. Perché “l’etica pubblica non può restare fuori dall’aula”.

Esami di domenica, promozioni-lampo, docenze concesse quando era ancora studentessa e una laurea magistrale ottenuta con 110 e lode pur partendo da una media modesta. Il caso della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone, già definito dallo scoop del Fatto Quotidiano come “la laurea della domenica”, non si sgonfia. Anzi, cresce. E arriva in Procura.
Un esposto alla Procura
A muoversi è stato Saverio Regasto, professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Brescia, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che venga fatta luce sulle modalità con cui la ministra ha conseguito i titoli accademici presso la Link Campus University. Non un attacco politico, ma un’iniziativa “per etica pubblica e a tutela della credibilità del sistema universitario italiano”, come ha spiegato lo stesso docente.
Troppe incongruenze
L’esposto elenca punto per punto le incongruenze emerse finora: l’iscrizione alla laurea magistrale senza traccia della triennale nell’anagrafe ufficiale dei laureati, una serie di esami concentrati anche due al giorno, perfino di domenica, la mancanza di doppie commissioni, come prevede la legge, e una docenza in Relazioni industriali concessa alla ministra mentre era ancora iscritta al corso e presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro.
Il marito nel consiglio
A rendere la vicenda ancora più controversa c’è la posizione del marito della ministra, Rosario De Luca, allora membro del consiglio di amministrazione e docente alla stessa Link Campus. Un incrocio tra potere accademico e incarichi politici che suscita più di un interrogativo: le docenze della ministra e del marito sono state comunicate al Ministero e all’Anvur? Nessuna risposta. Solo silenzio.
Il governo non risponde
A due settimane dall’inchiesta giornalistica, il caso non ha ricevuto chiarimenti ufficiali. Durante il question time del 26 marzo, la ministra Calderone ha letto una dichiarazione scritta in cui ha parlato genericamente di “dossieraggio politico”, senza fornire smentite puntuali o spiegazioni tecniche. E alla richiesta delle opposizioni di un’informativa urgente da parte della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, è seguito un balbettante “sono d’accordo con lei”, senza ulteriori approfondimenti.
Link University ha rimosso la pagina
Nel frattempo, la Link Campus University ha rimosso dal proprio sito web le pagine imbarazzanti, compresa una sezione nascosta (“paginasegretadoc”) in cui risultavano docenti sia Marina Calderone che il marito. Anche Wikipedia è stata “ripulita”: la voce che attribuiva alla ministra una laurea a Cagliari, mai confermata, è stata modificata. E della sua controversa carriera universitaria alla Link non si fa più cenno.
Il ministero tace
Silenzio anche da parte degli organi che dovrebbero garantire trasparenza e qualità del sistema universitario: nessuna risposta dal Ministero dell’Università, nessuna nota dall’Anvur o dalla Crui. Eppure due ex rettori e altri testimoni accademici, sentiti dai giornalisti, hanno confermato che le modalità d’esame erano irregolari, con commissioni formate da un solo docente, quando per legge devono essere almeno due. Parole pesanti anche da parte dell’ex rettore Adriano De Maio, che ha dichiarato: “Lì si compravano i titoli di studio”.
Una storia già vista
Il nome della Link Campus University non è nuovo alle cronache. La Procura di Firenze ha aperto da tempo un’inchiesta sulle cosiddette “lauree facili” concesse a membri della Polizia di Stato, in base a una convenzione tra l’ateneo e il sindacato Siulp. I vertici dell’università sono a processo, con sentenza attesa a giugno. Negli stessi anni, anche il Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro – allora guidato da Calderone – aveva siglato una convenzione simile con la Link.
Resta da capire se, e in che misura, la ministra stessa abbia beneficiato di quel meccanismo.
In ballo la figura dell’Università
Il caso, ora al vaglio della magistratura, rischia di travolgere non solo una figura politica di primo piano, ma anche l’immagine stessa dell’università italiana. In un Paese in cui ogni giorno migliaia di studenti si sottopongono a prove regolari, sessioni impegnative e anni di sacrifici, è legittimo chiedere chiarezza su chi sembra aver percorso una scorciatoia.
Il silenzio delle istituzioni, a questo punto, non è più solo imbarazzante. È complice.
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Politica
Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)
Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.
Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.
La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.
Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.
E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.
Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.
E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.
Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.
Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.
In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.
Politica
Lollobrigida e la bresaola yankee: il ministro e la teoria della carne ormonata “di scambio”
Francesco Lollobrigida tenta il colpo diplomatico: “Facciamo la bresaola con la loro carne ormonata, ma solo per il loro mercato”. L’idea, presentata al forum di Bruno Vespa, scatena l’ironia dei social. E c’è chi parla di “bresaola sconsigliata” e salumi con la retromarcia.

Francesco Lollobrigida ha parlato. E quando lo fa, il made in Italy trema. Al forum in Masseria di Bruno Vespa, il ministro dell’Agricoltura ha rivelato la sua arma segreta per convincere Donald Trump a rivedere i dazi: vendere agli americani bresaola fatta con la loro carne, piena di ormoni, secondo il loro “modello alimentare”. Sì, avete letto bene. Perché, come spiega lo stesso ministro con slancio acrobatico, “tanto già importiamo il 90% della carne per fare la bresaola”. E allora, perché non prenderla direttamente dagli USA? Magari infilandoci un fiocco tricolore, per poi rivendergliela “secondo i loro standard”, aggiunge lui, “anche se io la sconsiglio”. Una trovata geniale, quasi da Premio IgNobel.
Il popolo dei social si è scatenato. C’è chi scrive che “persino il criceto che ha in testa si dissocia” e chi invoca il ritiro del passaporto alimentare italiano. Ma il ministro non indietreggia. Dopo aver difeso il vino con la celebre frase “anche l’abuso di acqua può portare alla morte”, ora prova a far passare l’idea che la bresaola ormonata americana sia una brillante strategia diplomatica. Più che un baratto commerciale, un compromesso al sapore di contraddizione.
Dietro l’azzardo, c’è l’ansia da trattativa. Trump minaccia dazi fino al 17% su prodotti europei e Lollobrigida, di ritorno da una missione americana, si aggrappa a ogni leva possibile: dalla bresaola “made in USA” alla soia. “La compriamo quasi tutta da Brasile e Argentina”, dice, “solo un sesto dagli Stati Uniti”. Quindi? Un’ulteriore offerta sul piatto per “riequilibrare” una bilancia commerciale che ci vede esportare verso Washington per 8 miliardi, contro appena 1,7 importati.
E così, pur ribadendo che la carne americana non rispetta i nostri standard sanitari, il ministro si mostra pronto a trasformarla in salumi “per loro”. Con la logica contorta del “noi non la mangiamo, ma se la vogliono loro…”, si spalanca un nuovo fronte gastronomico-diplomatico, dove la salute pubblica si mescola alla geopolitica commerciale.
A Manduria, dove si teneva il forum, tra un calice di Primitivo e l’altro, qualcuno deve aver pensato che fosse uno sketch. Invece no. È la nuova frontiera del made in Italy, versione Lollobrigida: noi ci teniamo i salumi buoni, agli altri vendiamo la bresaola sconsigliata. E speriamo che Trump abbocchi.
Politica
Mangiano bene, incassano meglio: la mensa della Camera è un affare d’oro
La “Cd Servizi spa”, creata per gestire pulizie, parcheggi e ristorazione alla Camera, chiude l’anno con quasi mezzo milione di euro di utile. A fare la differenza? Il cibo: materie prime da 723 mila euro, incassi per 2,4 milioni. E intanto l’organico esplode: 257 dipendenti in quattro mesi

Altro che austerity: a Montecitorio si mangia bene, si spende poco e si guadagna parecchio. La nuova creatura dell’amministrazione della Camera, la Cd Servizi spa, ha chiuso il suo primo bilancio con un utile netto di 448.022 euro, a fronte di ricavi complessivi per 5,34 milioni. Non male per una società nata ufficialmente il primo settembre 2024 e operativa per appena quattro mesi.
La spa, voluta dall’ufficio di presidenza guidato da Lorenzo Fontana, ha assorbito una serie di servizi prima affidati all’esterno: pulizie, giardinaggio, gestione dei dati interni, facchinaggio, parcheggio dei deputati, ma soprattutto la ristorazione. Ed è proprio tra i tavoli del ristorante e della mensa parlamentare che il bilancio ha trovato il suo piatto forte.
I numeri sono lampanti: materie prime alimentari acquistate per 723.015 euro, a fronte di ricavi per 2,485 milioni. Un moltiplicatore generoso, se si considera che i famigerati “prezzi politici” rendono i pasti a Montecitorio decisamente più convenienti rispetto al mercato. Ma il volume – si sa – può far miracoli.
Subito dietro, tra le voci che più contribuiscono al fatturato, ci sono i servizi di pulizia (1,63 milioni), la gestione dati (669 mila) e il facchinaggio (485 mila). In tutto, la macchina ha ingranato subito, anche grazie all’assorbimento del personale: oltre 256 dipendenti medi, tra cui un dirigente, due quadri, quasi 40 impiegati e più di 215 operai.
Il costo del personale ha toccato 3,43 milioni di euro. Ma nonostante le spese, il bilancio resta positivo. Tra le curiosità: l’acquisto di un’auto intestata alla società per 53.500 euro e una consulenza da quasi 29mila euro per un medico del lavoro, definito tecnicamente “medico competente”.
I conti, insomma, tornano eccome. E se è vero che l’obiettivo dichiarato era l’efficienza e la trasparenza, è altrettanto vero che la gestione “in house” si sta rivelando un investimento tutt’altro che in perdita.
Sarà interessante vedere cosa succederà nel prossimo esercizio, quando la società sarà attiva per l’intero anno. Per ora, però, una cosa è certa: a Montecitorio non solo si mangia bene, ma si guadagna pure, e con contorni decisamente appetitosi.
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