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Politica

Giorgia la più votata, bene Vannacci e Elly Schlein, Salis eletta con Annunziata. Bocciati i pacifismi di facciata di Santoro, Tarquinio e Conte.

Con Fratelli d’Italia al 29% e il Partito Democratico al 24%, la partita delle elezioni europee si gioca ora sulle preferenze individuali. Giorgia Meloni è la primatista assoluta con oltre 2,5 milioni di voti, mentre Antonio Tajani di Forza Italia eccelle con 390.000 preferenze. Deludente risultato per il Movimento 5 Stelle che scende sotto il 10%. Successo per Alleanza Verdi e Sinistra grazie a Ilaria Salis. La competizione interna al Pd vede spiccare Cecilia Strada e Antonio Decaro. Risultati significativi anche per Roberto Vannacci (Lega) e Pasquale Tridico (M5S).

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    Europee 2024: preferenze e composizione del Parlamento

    Con il voto per le elezioni europee stabilizzato (FdI al 29% e Pd al 24%), la partita si sposta sulle preferenze individuali e sulla composizione dei 76 parlamentari che l’Italia invierà a Strasburgo.

    Bene la destra

    Nella coalizione di centrodestra, Forza Italia supera la Lega con il 9,7% contro il 9,1% del Carroccio. Deludente il risultato del Movimento 5 Stelle che scende sotto il 10%, fermandosi al 9,9%. Un successo invece per Alleanza Verdi e Sinistra che, grazie alla candidatura di Ilaria Salis, va oltre il 6,6%. Non superano invece la soglia del 4% i riformisti al centro: gli “Stati Uniti d’Europa” di Renzi e Bonino si fermano al 3,7% e la lista “Siamo europei” di Calenda al 3,3%.

    Giorgia sfonda

    Giorgia Meloni, come previsto, è la primatista assoluta di consensi personali: si prepara a superare i 2 milioni e mezzo di preferenze (nella circoscrizione del Nord-Ovest ha ottenuto 582.565 voti, 379.253 nella sola Lombardia), essendosi schierata come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni. Tuttavia, la premier cederà il suo seggio ad altri componenti delle liste e, nonostante l’ottima performance personale, non avvicina il primato di consensi personali stabilito da Silvio Berlusconi nel 1999 con tre milioni di voti. “È un messaggio personale che gli italiani mi hanno dato e che mi riempie di orgoglio e di responsabilità. I festeggiamenti, per quanto mi riguarda, quando le elezioni vanno bene durano 5 minuti. Dopo viene tutto trasformato in responsabilità”, ha commentato la premier.

    Vannacci piace

    Molto atteso, in casa Lega ma non solo, il risultato di Roberto Vannacci: il generale stacca tutti, superando il mezzo milione di consensi con record nella circoscrizione Nord-Ovest.

    Nel Pd spicca, ma in negativo, l’esperimento di Marco Tarquinio: l’ex direttore di Avvenire, schieratosi su posizioni apertamente pacifiste ma anche molto critico in materia di diritti per le coppie omosessuali, rischia di non essere eletto.

    Pacifisti di facciata

    Nella circoscrizione Italia centrale Tarquinio non va oltre le 27.000 schede ed è sopravanzato da altri sei compagni di partito. Al contrario, gli elettori dem hanno premiato l’altra candidatura “esterna”, quella di Cecilia Strada: al Nord-Ovest, la figlia del fondatore di Emergency raccoglie 235.000 voti e supera nettamente il secondo arrivato, il sindaco uscente di Bergamo Giorgio Gori.

    Annunziata ok

    La giornalista Lucia Annunziata è stata invece eletta all’Europarlamento nelle liste del Pd. È quanto fa sapere YouTrend in un post sul suo account X. In base ai calcoli risulterebbe eletto anche il sindaco uscente di Firenze, Dario Nardella.

    Sempre nel Pd, emerge l’exploit del sindaco di Bari Antonio Decaro, al centro di una polemica dai risvolti giudiziari durante la campagna elettorale. Un inciampo che non ha intaccato la popolarità del candidato, a cui l’elettorato ha attribuito nella circoscrizione dell’Italia meridionale ben 482.900 voti. Decaro trascina l’intero partito a un risultato sorprendente: la Puglia diventa la seconda piazzaforte “rossa” dopo l’Emilia Romagna e prima della Toscana. Il primo cittadino di Bari prende il doppio dei voti dell’altra big in lista, Lucia Annunziata, e quattro volte tanto Pina Picierno, parlamentare uscente in casa dem.

    Bene il PD

    Elly Schlein, candidata al Centro e nelle Isole, non supera i 200.000 voti; fa meglio della segretaria Stefano Bonaccini che nella “sua” Emilia porta a casa 380.000 preferenze.

    Altro nome che ha animato la campagna elettorale è stato quello di Ilaria Salis. L’attivista, che si trova ai domiciliari a Budapest, ha indubbiamente contribuito al successo della lista Verdi-Sinistra: quando mancano ancora i dati di poche centinaia di sezioni, l’attivista supera i 164.000 voti nelle due circoscrizioni dove è candidata con Avs, il Nord-Ovest, dove è capolista, e le Isole.

    Tajani fa il pieno

    In Forza Italia, il recordman delle preferenze è Antonio Tajani: il segretario del partito e vicepremier raccoglie circa 390.000 voti, essendo candidato in tutte le circoscrizioni tranne le Isole. Al Sud ottiene il risultato migliore, con oltre 140.000 preferenze. In Sicilia e Sardegna, le urne premiano l’assessore siciliano Edy Tamajo, che supera la capolista Caterina Chinnici. Al Nord-Ovest non brilla Letizia Moratti (terza con 36.000 voti), mentre l’endorsement dell’ultima ora di Umberto Bossi a favore dell’ex leghista Marco Reguzzoni non sortisce effetti miracolosi: 6.700 voti, troppo poco.

    Ciao ciao Renzi

    Non è servito alla causa il risultato personale di Matteo Renzi: l’ex premier ha richiamato sul suo nome 150.000 preferenze, ma la lista Stati Uniti d’Europa resta al di sotto della soglia di sbarramento del 4%.

    Nel M5S l’unico nome a emergere è quello dell’ex presidente Inps Pasquale Tridico, capace di assommare nella circoscrizione Sud 115.000 preferenze.

    Fuori Alessandro Tommasi, candidato con Azione: il fondatore di Will ha preso 1.030 preferenze. L’imprenditore, che lo scorso settembre ha fondato il media-partito Nos, correva nell’Italia nord-occidentale.

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      Politica

      Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)

      Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

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        Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.

        Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.

        La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.

        Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.

        E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.

        Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.

        E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.

        Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.

        Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.

        In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.

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          Politica

          Lollobrigida e la bresaola yankee: il ministro e la teoria della carne ormonata “di scambio”

          Francesco Lollobrigida tenta il colpo diplomatico: “Facciamo la bresaola con la loro carne ormonata, ma solo per il loro mercato”. L’idea, presentata al forum di Bruno Vespa, scatena l’ironia dei social. E c’è chi parla di “bresaola sconsigliata” e salumi con la retromarcia.

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            Francesco Lollobrigida ha parlato. E quando lo fa, il made in Italy trema. Al forum in Masseria di Bruno Vespa, il ministro dell’Agricoltura ha rivelato la sua arma segreta per convincere Donald Trump a rivedere i dazi: vendere agli americani bresaola fatta con la loro carne, piena di ormoni, secondo il loro “modello alimentare”. Sì, avete letto bene. Perché, come spiega lo stesso ministro con slancio acrobatico, “tanto già importiamo il 90% della carne per fare la bresaola”. E allora, perché non prenderla direttamente dagli USA? Magari infilandoci un fiocco tricolore, per poi rivendergliela “secondo i loro standard”, aggiunge lui, “anche se io la sconsiglio”. Una trovata geniale, quasi da Premio IgNobel.

            Il popolo dei social si è scatenato. C’è chi scrive che “persino il criceto che ha in testa si dissocia” e chi invoca il ritiro del passaporto alimentare italiano. Ma il ministro non indietreggia. Dopo aver difeso il vino con la celebre frase “anche l’abuso di acqua può portare alla morte”, ora prova a far passare l’idea che la bresaola ormonata americana sia una brillante strategia diplomatica. Più che un baratto commerciale, un compromesso al sapore di contraddizione.

            Dietro l’azzardo, c’è l’ansia da trattativa. Trump minaccia dazi fino al 17% su prodotti europei e Lollobrigida, di ritorno da una missione americana, si aggrappa a ogni leva possibile: dalla bresaola “made in USA” alla soia. “La compriamo quasi tutta da Brasile e Argentina”, dice, “solo un sesto dagli Stati Uniti”. Quindi? Un’ulteriore offerta sul piatto per “riequilibrare” una bilancia commerciale che ci vede esportare verso Washington per 8 miliardi, contro appena 1,7 importati.

            E così, pur ribadendo che la carne americana non rispetta i nostri standard sanitari, il ministro si mostra pronto a trasformarla in salumi “per loro”. Con la logica contorta del “noi non la mangiamo, ma se la vogliono loro…”, si spalanca un nuovo fronte gastronomico-diplomatico, dove la salute pubblica si mescola alla geopolitica commerciale.

            A Manduria, dove si teneva il forum, tra un calice di Primitivo e l’altro, qualcuno deve aver pensato che fosse uno sketch. Invece no. È la nuova frontiera del made in Italy, versione Lollobrigida: noi ci teniamo i salumi buoni, agli altri vendiamo la bresaola sconsigliata. E speriamo che Trump abbocchi.

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              Politica

              Mangiano bene, incassano meglio: la mensa della Camera è un affare d’oro

              La “Cd Servizi spa”, creata per gestire pulizie, parcheggi e ristorazione alla Camera, chiude l’anno con quasi mezzo milione di euro di utile. A fare la differenza? Il cibo: materie prime da 723 mila euro, incassi per 2,4 milioni. E intanto l’organico esplode: 257 dipendenti in quattro mesi

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                Altro che austerity: a Montecitorio si mangia bene, si spende poco e si guadagna parecchio. La nuova creatura dell’amministrazione della Camera, la Cd Servizi spa, ha chiuso il suo primo bilancio con un utile netto di 448.022 euro, a fronte di ricavi complessivi per 5,34 milioni. Non male per una società nata ufficialmente il primo settembre 2024 e operativa per appena quattro mesi.

                La spa, voluta dall’ufficio di presidenza guidato da Lorenzo Fontana, ha assorbito una serie di servizi prima affidati all’esterno: pulizie, giardinaggio, gestione dei dati interni, facchinaggio, parcheggio dei deputati, ma soprattutto la ristorazione. Ed è proprio tra i tavoli del ristorante e della mensa parlamentare che il bilancio ha trovato il suo piatto forte.

                I numeri sono lampanti: materie prime alimentari acquistate per 723.015 euro, a fronte di ricavi per 2,485 milioni. Un moltiplicatore generoso, se si considera che i famigerati “prezzi politici” rendono i pasti a Montecitorio decisamente più convenienti rispetto al mercato. Ma il volume – si sa – può far miracoli.

                Subito dietro, tra le voci che più contribuiscono al fatturato, ci sono i servizi di pulizia (1,63 milioni), la gestione dati (669 mila) e il facchinaggio (485 mila). In tutto, la macchina ha ingranato subito, anche grazie all’assorbimento del personale: oltre 256 dipendenti medi, tra cui un dirigente, due quadri, quasi 40 impiegati e più di 215 operai.

                Il costo del personale ha toccato 3,43 milioni di euro. Ma nonostante le spese, il bilancio resta positivo. Tra le curiosità: l’acquisto di un’auto intestata alla società per 53.500 euro e una consulenza da quasi 29mila euro per un medico del lavoro, definito tecnicamente “medico competente”.

                I conti, insomma, tornano eccome. E se è vero che l’obiettivo dichiarato era l’efficienza e la trasparenza, è altrettanto vero che la gestione “in house” si sta rivelando un investimento tutt’altro che in perdita.

                Sarà interessante vedere cosa succederà nel prossimo esercizio, quando la società sarà attiva per l’intero anno. Per ora, però, una cosa è certa: a Montecitorio non solo si mangia bene, ma si guadagna pure, e con contorni decisamente appetitosi.

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