Politica
I conti (mai) in ordine di Daniela Santanchè: Visibilia bocciata dal revisore, bilancio “falsato” e azienda a rischio
Il revisore contabile dà un giudizio negativo sul bilancio di Visibilia Editore, società controllata per il 90% da Daniela Santanchè. “Manca una rappresentazione veritiera e corretta della situazione finanziaria”. Un intrigo societario che somiglia molto a quello per cui la ministra è già sotto processo per falso in bilancio.

C’è chi nei bilanci trova equilibrio. E chi, come Daniela Santanchè, continua a trovarci solo guai. L’ultima batosta arriva dai revisori contabili: il bilancio d’esercizio e quello consolidato 2024 di Visibilia Editore, la società controllata indirettamente dalla ministra del Turismo per quasi il 90%, è stato formalmente bocciato. Anzi, stroncato: secondo la relazione firmata da Luca Pulli (RSM), quei documenti non forniscono una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società. E a quanto pare, i numeri non sono l’unica cosa a non tornare.
Sotto processo a Milano
Alla presidenza del cda c’è Lorenzo Mazzaro, figlio di Santanchè, mentre attorno ruota un dedalo di rapporti incrociati tra controllate e controllanti che rendono difficile capire dove finisce l’azienda e dove comincia l’illusione. Proprio come accade in un altro capitolo aperto della storia giudiziaria della ministra, quello per cui è attualmente sotto processo a Milano con l’accusa di falso in bilancio.
Un castello di carta
Le relazioni di revisione, rese pubbliche il 29 aprile, raccontano un disastro annunciato. Il cuore del problema è l’intricato rapporto tra Visibilia Editore e le sue controllate, a cominciare da Visibilia Editrice, considerata dal revisore “l’unico asset” della holding. Ma Editrice non è autonoma: vive grazie ad Athena Pubblicità, società anch’essa legata a Visibilia e principale cliente per la raccolta pubblicitaria. Uno schema che, secondo Pulli, rende l’intero gruppo vulnerabile, esposto ai capricci interni e privo di qualsiasi diversificazione.
La stessa continuità aziendale – cioè la possibilità che la società resti in piedi nei prossimi 12 mesi – viene messa in dubbio. Non ci sono, lamenta RSM, “analisi puntuali degli scenari futuri” né piani di ristrutturazione (salvo uno già vecchio e superato), né indicazioni su trattative in corso con banche o fornitori. Insomma, il lettore del bilancio viene lasciato al buio.
E il cda, invece di fare chiarezza, secondo il revisore sottace i rischi, fornendo un’informazione “carente e pervasiva” tale da compromettere la capacità di giudizio degli stakeholder.
Una finanziaria fantasma e i conti “fantasma”
Al 31 dicembre 2024, Visibilia Editore aveva già perso 4,47 milioni di euro: oltre un terzo del capitale sociale. I flussi di cassa erano negativi e la società è stata tenuta in piedi solo grazie a un prestito infruttifero concesso da Athena. Anche questo intervento, però, non era previsto nel piano industriale.
Eppure il cda ha continuato ad accreditare Visibilia Editrice per 558 mila euro e ha valutato la partecipazione a 317 mila euro. Per Pulli, quei valori sono gonfiati e vanno svalutati integralmente. Risultato: l’intero patrimonio netto risulterebbe in rosso di 875 mila euro. Un disastro. Che implicherebbe un’urgente ripatrimonializzazione, molto più consistente di quella contemplata dalla governance attuale.
E tutto questo mentre la cessione di Visibilia alla sconosciuta finanziaria svizzera WIP è stata bloccata. Di chi sia questa WIP e quali garanzie possa offrire, resta un mistero.
La risposta del cda? Un rigetto stizzito
Il consiglio di amministrazione – cioè il figlio della ministra e gli altri membri – ha reagito con una nota che respinge in toto le conclusioni dei revisori: “I rilievi sono in parte non corretti, in parte non motivati”. Una difesa che però suona più come una negazione stizzita che come una replica nel merito. E che, per chi osserva la situazione da fuori, non fa che alimentare i dubbi su una gestione che da anni sembra muoversi su un crinale pericolosamente vicino alla bancarotta pilotata.
Il problema non è solo tecnico. È politico. Perché una ministra in carica, titolare di un dicastero importante come quello del Turismo, non può permettersi di avere alle spalle una rete societaria che traballa a ogni verifica contabile. Soprattutto se è già coinvolta in un processo per falso in bilancio. Soprattutto se a presiedere il consiglio di amministrazione è il figlio. Soprattutto se i revisori non si limitano a un giudizio critico, ma parlano di assenza di verità.
Il Truman Show della trasparenza
A questo punto la domanda sorge spontanea: come può Daniela Santanchè continuare a fare la ministra ignorando le accuse che pendono su di lei e i crolli delle sue società come se nulla fosse? E come può farlo un governo che ha fatto della legalità e del rigore amministrativo la propria bandiera? La risposta, forse, sta proprio in quel Truman Show di scatole cinesi, sigle opache, crediti incrociati e patrimoni di cartapesta che da anni Visibilia rappresenta.
Con una sola certezza: i conti – economici, politici e morali – non tornano mai.
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Politica
Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)
Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.
Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.
La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.
Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.
E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.
Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.
E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.
Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.
Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.
In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.
Politica
Lollobrigida e la bresaola yankee: il ministro e la teoria della carne ormonata “di scambio”
Francesco Lollobrigida tenta il colpo diplomatico: “Facciamo la bresaola con la loro carne ormonata, ma solo per il loro mercato”. L’idea, presentata al forum di Bruno Vespa, scatena l’ironia dei social. E c’è chi parla di “bresaola sconsigliata” e salumi con la retromarcia.

Francesco Lollobrigida ha parlato. E quando lo fa, il made in Italy trema. Al forum in Masseria di Bruno Vespa, il ministro dell’Agricoltura ha rivelato la sua arma segreta per convincere Donald Trump a rivedere i dazi: vendere agli americani bresaola fatta con la loro carne, piena di ormoni, secondo il loro “modello alimentare”. Sì, avete letto bene. Perché, come spiega lo stesso ministro con slancio acrobatico, “tanto già importiamo il 90% della carne per fare la bresaola”. E allora, perché non prenderla direttamente dagli USA? Magari infilandoci un fiocco tricolore, per poi rivendergliela “secondo i loro standard”, aggiunge lui, “anche se io la sconsiglio”. Una trovata geniale, quasi da Premio IgNobel.
Il popolo dei social si è scatenato. C’è chi scrive che “persino il criceto che ha in testa si dissocia” e chi invoca il ritiro del passaporto alimentare italiano. Ma il ministro non indietreggia. Dopo aver difeso il vino con la celebre frase “anche l’abuso di acqua può portare alla morte”, ora prova a far passare l’idea che la bresaola ormonata americana sia una brillante strategia diplomatica. Più che un baratto commerciale, un compromesso al sapore di contraddizione.
Dietro l’azzardo, c’è l’ansia da trattativa. Trump minaccia dazi fino al 17% su prodotti europei e Lollobrigida, di ritorno da una missione americana, si aggrappa a ogni leva possibile: dalla bresaola “made in USA” alla soia. “La compriamo quasi tutta da Brasile e Argentina”, dice, “solo un sesto dagli Stati Uniti”. Quindi? Un’ulteriore offerta sul piatto per “riequilibrare” una bilancia commerciale che ci vede esportare verso Washington per 8 miliardi, contro appena 1,7 importati.
E così, pur ribadendo che la carne americana non rispetta i nostri standard sanitari, il ministro si mostra pronto a trasformarla in salumi “per loro”. Con la logica contorta del “noi non la mangiamo, ma se la vogliono loro…”, si spalanca un nuovo fronte gastronomico-diplomatico, dove la salute pubblica si mescola alla geopolitica commerciale.
A Manduria, dove si teneva il forum, tra un calice di Primitivo e l’altro, qualcuno deve aver pensato che fosse uno sketch. Invece no. È la nuova frontiera del made in Italy, versione Lollobrigida: noi ci teniamo i salumi buoni, agli altri vendiamo la bresaola sconsigliata. E speriamo che Trump abbocchi.
Politica
Mangiano bene, incassano meglio: la mensa della Camera è un affare d’oro
La “Cd Servizi spa”, creata per gestire pulizie, parcheggi e ristorazione alla Camera, chiude l’anno con quasi mezzo milione di euro di utile. A fare la differenza? Il cibo: materie prime da 723 mila euro, incassi per 2,4 milioni. E intanto l’organico esplode: 257 dipendenti in quattro mesi

Altro che austerity: a Montecitorio si mangia bene, si spende poco e si guadagna parecchio. La nuova creatura dell’amministrazione della Camera, la Cd Servizi spa, ha chiuso il suo primo bilancio con un utile netto di 448.022 euro, a fronte di ricavi complessivi per 5,34 milioni. Non male per una società nata ufficialmente il primo settembre 2024 e operativa per appena quattro mesi.
La spa, voluta dall’ufficio di presidenza guidato da Lorenzo Fontana, ha assorbito una serie di servizi prima affidati all’esterno: pulizie, giardinaggio, gestione dei dati interni, facchinaggio, parcheggio dei deputati, ma soprattutto la ristorazione. Ed è proprio tra i tavoli del ristorante e della mensa parlamentare che il bilancio ha trovato il suo piatto forte.
I numeri sono lampanti: materie prime alimentari acquistate per 723.015 euro, a fronte di ricavi per 2,485 milioni. Un moltiplicatore generoso, se si considera che i famigerati “prezzi politici” rendono i pasti a Montecitorio decisamente più convenienti rispetto al mercato. Ma il volume – si sa – può far miracoli.
Subito dietro, tra le voci che più contribuiscono al fatturato, ci sono i servizi di pulizia (1,63 milioni), la gestione dati (669 mila) e il facchinaggio (485 mila). In tutto, la macchina ha ingranato subito, anche grazie all’assorbimento del personale: oltre 256 dipendenti medi, tra cui un dirigente, due quadri, quasi 40 impiegati e più di 215 operai.
Il costo del personale ha toccato 3,43 milioni di euro. Ma nonostante le spese, il bilancio resta positivo. Tra le curiosità: l’acquisto di un’auto intestata alla società per 53.500 euro e una consulenza da quasi 29mila euro per un medico del lavoro, definito tecnicamente “medico competente”.
I conti, insomma, tornano eccome. E se è vero che l’obiettivo dichiarato era l’efficienza e la trasparenza, è altrettanto vero che la gestione “in house” si sta rivelando un investimento tutt’altro che in perdita.
Sarà interessante vedere cosa succederà nel prossimo esercizio, quando la società sarà attiva per l’intero anno. Per ora, però, una cosa è certa: a Montecitorio non solo si mangia bene, ma si guadagna pure, e con contorni decisamente appetitosi.
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