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Cronaca

Rito abbreviato per il rapper Shiva

Il rapper Shiva, coinvolto in un caso di sparatoria nel 2023 a Settimo Milanese, affronta accuse di tentato omicidio. Il processo procederà con il rito abbreviato, con la difesa che sostiene la legittima difesa durante l’aggressione da parte dei feriti. Ulteriori problemi legali includono un’indagine per una rissa a San Benedetto del Tronto nello stesso anno.

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    Shiva, noto anche come Andrea Arrigoni, si trova al centro di un caso legale dopo un episodio di sparatoria accaduto nel 2023 a Settimo Milanese. Il rapper affronta le accuse di tentato omicidio e ricettazione e ora il suo processo procederà con il rito abbreviato, con la speranza di ottenere uno sconto sulla pena.

    Nel luglio del 2023, due giovani furono feriti da colpi d’arma da fuoco davanti alla casa discografica di Shiva, e il rapper fu arrestato per tentato omicidio, porto abusivo di arma da fuoco ed esplosioni pericolose. Ora, con l’accusa di ricettazione aggiunta alle imputazioni, il suo team legale ha ottenuto che il processo si svolgesse con il rito abbreviato, che offre uno sconto di un terzo sulla pena in caso di condanna.

    Secondo la difesa, Shiva avrebbe agito in legittima difesa durante un tentativo di aggressione da parte dei due ragazzi, entrambi lottatori di arti marziali miste (MMA). L’episodio avrebbe causato la rottura della mandibola di Shiva, che ha continuato a fare musica anche durante la sua permanenza nel carcere di San Vittore.

    Ma i problemi legali di Shiva non finiscono qui. È coinvolto anche in un’altra indagine, insieme ad altri cinque individui, per una rissa avvenuta a San Benedetto del Tronto nel 2023. Il giudice di Ascoli Piceno ha emesso un obbligo di dimora nei suoi confronti, attenuando così la misura cautelare dei domiciliari.

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      Italia

      Prospero Pica di ABP Partners: “Il core banking decide chi sopravvive”

      Resilienza digitale, dati, rischi e processi: la trasformazione non è informatica ma strutturale. La chiave, spiega Prospero Pica, è far seguire la tecnologia alla banca e non il contrario. Italia e Svizzera accelerano perché senza un core moderno cloud, AI e personalizzazione restano solo promesse.

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        La digitalizzazione bancaria in Europa sta entrando in una fase completamente nuova. Dopo anni in cui l’attenzione si è concentrata soprattutto sulle app, sulla qualità dell’esperienza utente e sui servizi online, nel 2025 i consigli di amministrazione stanno guardando molto più in profondità. Il nuovo terreno di investimento è il core banking, cioè il cuore tecnologico della banca: il sistema che gestisce conti, movimenti, prodotti finanziari, dati dei clienti, controlli e report.

        Si tratta di un ritorno deciso al “motore”, spinto sia da ragioni economiche sia da nuove regole che stanno ridisegnando il settore. Il primo elemento che ha accelerato questa corsa è normativo. Dal 17 gennaio 2025 sarà pienamente operativo il regolamento europeo DORA, il Digital Operational Resilience Act. È una normativa che chiede alle istituzioni finanziarie una resilienza digitale molto più elevata, più controllo sul rischio ICT e una gestione rigorosa dei fornitori tecnologici. Anche molte banche svizzere, pur non facendo parte dell’Unione Europea, si stanno adeguando: operano con clienti europei o sono connesse al mercato comunitario e non possono permettersi di restare indietro.

        In termini concreti, DORA rende evidente un problema che il settore porta con sé da anni: sistemi troppo vecchi, pieni di integrazioni costruite nel tempo, diventano instabili e difficili da controllare. Questo aumenta i rischi operativi, complica la tracciabilità dei dati e rende più fragile la continuità dei servizi. È qui che nasce la necessità di tornare al core.

        Il secondo fattore è economico. I margini bancari sono sotto pressione, i costi aumentano e la concorrenza di fintech e digital bank è sempre più forte. I vecchi sistemi centrali, monolitici e stratificati, rallentano tutto: il lancio di nuovi prodotti, la capacità di personalizzare i servizi e perfino l’utilizzo di tecnologie come cloud e intelligenza artificiale. Per questo oggi la modernizzazione del core non è più una scelta tecnica ma una condizione per restare competitivi.

        In questo scenario si inserisce l’analisi di Prospero Pica, fondatore di ABP Partners ed esperto internazionale di project management bancario. La sua lettura è semplice e molto diretta: «La modernizzazione del core non è un progetto IT, è una trasformazione di banca». Prospero Pica ripete un principio che sta diventando centrale: «La tecnologia deve seguire la banca, non sostituirla. Il cuore del cambiamento è il DNA bancario».
        Il messaggio è chiaro: cambiare il core non significa solo installare un nuovo software, ma ridisegnare processi, controlli, responsabilità e perfino il modo in cui la banca prende decisioni e gestisce i rischi.

        Ed è anche il motivo per cui molti progetti falliscono. L’errore più comune, spiega Prospero Pica, è partire dalla piattaforma e poi cercare di adattare la banca al software scelto. L’approccio corretto è l’opposto: prima si definiscono governance, processi critici, requisiti regolatori e obiettivi di business; solo dopo si configura la tecnologia. In altre parole, è la banca a guidare la scelta tecnica, non viceversa.

        Secondo l’analisi di Prospero Pica, tre elementi stanno facendo davvero la differenza nei progetti più maturi. Il primo è la qualità dei dati: senza una data governance solida, anche il miglior sistema resta scollegato dalla realtà operativa. Il secondo è l’adozione di architetture modulari e basate su API, che permettono di evolvere velocemente senza ricostruire tutto ogni volta. Il terzo è la gestione del rischio operativo: la transizione deve essere governata dal business almeno quanto dall’IT, perché la resilienza richiesta da DORA non ammette passi falsi.

        Per Italia e Svizzera la direzione è quindi tracciata: il core banking è tornato al centro e sarà la leva decisiva per efficienza, innovazione e solidità. Il punto evidenziato da Prospero Pica resta il più importante: non conta solo quale tecnologia scegli, ma come governi la trasformazione. In un’Europa in cui DORA rende più pesante la responsabilità digitale, la tecnologia non può sostituire la banca. Può solo seguirla, rafforzandone il DNA operativo.

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          Cronaca

          Attentato a Ranucci, la pista albanese prende corpo: il nome di Artur Shehu entra nell’inchiesta e apre scenari internazionali

          Secondo gli inquirenti il movente potrebbe essere collegato al servizio dedicato agli hotspot per migranti: una pista complessa che coinvolge rapporti economici, territori sensibili e figure vicine alla criminalità internazionale.

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          Sigfrido Ranucci

            Nell’indagine sull’attentato contro Sigfrido Ranucci emerge un nome che porta lontano da Roma e conduce in Albania: Artur Shehu, 58 anni, imprenditore da tempo negli Stati Uniti e considerato dagli investigatori figura di peso della criminalità del suo Paese. Una presenza che torna ogni volta che si citano traffici internazionali e ambienti mafiosi. Secondo fonti giudiziarie, la sua posizione sarebbe stata segnalata anche alla Direzione investigativa antimafia, sulla base di rapporti arrivati da Valona.

            L’inchiesta in TV

            A indirizzare gli investigatori verso il fronte albanese è stata la puntata di Report del 21 aprile scorso, dedicata al progetto degli hotspot per migranti previsto dall’accordo Italia–Albania. Nel servizio, intitolato “(Hot) Spot Albanese”, il nome di Shehu compare più volte, associato a inchieste internazionali e presunti legami con Cosa Nostra e Sacra Corona Unita. Un elemento che, oggi, viene valutato come possibile nodo d’interesse per individuare un movente. Il programma raccontava inoltre la donazione di 30 mila metri quadrati di terreno vicino Valona a una fondazione italiana, mediata da figure vicine al governo albanese.

            Una scia di ombre

            La Direzione distrettuale antimafia di Roma lavora insieme ai carabinieri per chiarire se l’attentato sia la risposta a quel servizio o se si tratti di una ritorsione legata a fronti documentati in altre inchieste. Parallelamente si verifica la dinamica materiale dell’esplosione: chi ha collocato l’ordigno, se siano stati effettuati sopralluoghi, se esista un coordinamento all’estero. A inquietare ulteriormente è un precedente: la scorsa estate sarebbe stato tentato l’ingresso nella seconda casa del conduttore, episodio oggi valutato come possibile segnale d’allarme.

            Dicono gli investigatori

            Il quadro investigativo si muove su un terreno complesso, dove piste giudiziarie, politica internazionale e criminalità organizzata rischiano di sovrapporsi. L’ombra che attraversa l’Adriatico è ancora densa di punti oscuri, ma per gli inquirenti non è affatto marginale. La trasmissione di Ranucci, negli ultimi anni, ha più volte raccontato vicende capaci di toccare interessi economici enormi, società di mezzi e figure pubbliche di primo piano.

            Per questo motivo, spiegano fonti interne, ogni collegamento viene vagliato con estrema cautela. Intorno al giornalista cresce intanto un clima di solidarietà istituzionale, con un livello di attenzione che gli investigatori definiscono «molto alto». Saranno i prossimi accertamenti a stabilire se la pista albanese supera lo stadio preliminare e diventa una direttrice concreta dell’inchiesta.

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              Mistero

              Marilyn Monroe, mistero infinito: James Patterson rilancia l’ombra dei Kennedy, di Sinatra e della Mafia

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                Marilyn Monroe non smette di far parlare di sé, nemmeno 63 anni dopo la morte. Nel suo nuovo libro The Last Days of Marilyn Monroe: A True Crime Thriller, James Patterson — uno degli autori più letti al mondo — rimette in scena la teoria più inquietante: la diva sarebbe morta non per un gesto volontario, ma per le informazioni che custodiva. «Navigava in acque molto pericolose», ha detto al Hollywood Reporter. Le sue frequentazioni? John e Robert Kennedy, Frank Sinatra, figure legate alla Mafia. «Gente che le confidava cose. E lei ne teneva traccia».

                Un’indagine mai chiusa, tra autopsie incomplete e detective dubbiosi

                Il corpo di Marilyn fu trovato nella sua casa di Brentwood: barbiturici sul comodino, una bottiglia di Nembutal, la tesi del suicidio archivata in poche ore. Ma, ricorda Patterson, l’autopsia «non fu completa come avrebbe dovuto». Non tutti i dettagli tornarono. E uno dei detective arrivati sul posto si convinse “di trovarsi davanti a una messa in scena”. Elementi che alimentano un alone di sospetto mai dissolto, alimentato dalle tantissime versioni circolate negli anni.

                Una vita romanzo, tra dodici famiglie affidatarie e un talento che travolge

                Il libro scritto con Imogen Edwards-Jones si muove tra fatti, ricostruzioni e dialoghi immaginati — dichiarati come tali — ripercorrendo anche l’infanzia drammatica della diva, cresciuta in undici famiglie affidatarie e segnata da una balbuzie che solo anni dopo riuscì a controllare. Patterson sostiene che il pubblico non conosca davvero la sua storia e che, dietro ogni fotografia patinata, ci fosse un percorso pieno di crepe e fragilità.

                Oggi Marilyn è ancora al centro della cultura pop come simbolo, ossessione e mito irrisolto. Patterson spera ora che il libro diventi una serie tv. Per Hollywood, un altro tassello nell’eterno ritorno della sua stella più luminosa — e più controversa.

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