Storie vere
Chiamano il neonato Lucifero: la scelta che fa discutere di una giovane coppia che ha vinto la causa con l’anagrafe
Nato nella sala parto 6, trasferito nel letto 6 della stanza 6: la vicenda accende il dibattito sull’opportunità di scegliere nomi così particolari. I genitori: “Siamo normali, il nome ha un significato per noi

Nel Derbyshire, una tranquilla contea inglese, Dan e Mandy Sheldon hanno fatto una scelta che non poteva passare inosservata: chiamare il loro figlio Lucifero. La decisione, spiegano i genitori, è nata per motivi personali, ma ha immediatamente suscitato polemiche e una reazione inaspettata da parte delle autorità.
La storia è diventata ancor più curiosa per una serie di coincidenze numeriche: il bambino è nato nella sala parto numero 6, e la madre è stata poi trasferita nel letto 6 della stanza 6. Dettagli che hanno acceso l’immaginazione di molti e alimentato discussioni sui social.
Quando la coppia si è recata all’anagrafe per registrare il nome, l’ufficiale si è opposto, definendo il nome inappropriato a causa delle sue connotazioni religiose e culturali. La questione è finita in tribunale, dove i Sheldon hanno vinto la causa, ottenendo il diritto di registrare ufficialmente il nome scelto per il loro bambino.
Lucifero: il significato oltre il pregiudizio
Il nome Lucifero ha origini latine e significa letteralmente “portatore di luce”, un riferimento poetico all’astro del mattino. Tuttavia, a partire dalla tradizione cristiana, è diventato sinonimo del diavolo, assumendo un significato carico di negatività.
Nonostante ciò, Dan e Mandy difendono con fermezza la loro scelta: «Per noi, Lucifero non ha nulla a che fare con il diavolo. È un nome bello, unico, e rappresenta qualcosa di positivo. Non siamo persone strane né provocatori. Siamo genitori normali».
Una vicenda che divide
La storia ha rapidamente fatto il giro del mondo, scatenando dibattiti tra chi sostiene la libertà di scelta dei genitori e chi teme che il bambino possa subire pregiudizi e bullismo per via del suo nome. Sui social, i commenti spaziano dall’ironia all’indignazione, passando per l’incoraggiamento.
Un utente ha scritto: «Forse non sarà facile crescere con un nome così, ma almeno nessuno lo dimenticherà mai». Altri, invece, hanno criticato la decisione: «Un nome è per tutta la vita, i genitori dovrebbero pensarci meglio».
L’intervento dell’anagrafe
La scelta del nome Lucifero ha portato l’ufficiale dell’anagrafe a esprimere un’opinione molto netta: «Non possiamo accettare un nome che può essere percepito come offensivo o inappropriato». Tuttavia, i giudici hanno stabilito che il rifiuto violava il diritto della coppia di scegliere liberamente il nome del figlio, a meno che non fosse palesemente lesivo per il bambino, cosa che non è stata dimostrata.
Libertà e limiti nella scelta dei nomi
Il caso dei Sheldon apre un dibattito più ampio sul confine tra libertà individuale e responsabilità. Se da un lato i genitori hanno il diritto di scegliere un nome unico e personale, dall’altro esiste il rischio di imporre un peso emotivo e sociale su chi dovrà portarlo per tutta la vita.
In attesa che il piccolo Lucifero cresca e racconti la sua storia, il caso rimane un simbolo delle complessità legate a una libertà che, pur essendo sacrosanta, può avere conseguenze inaspettate.
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Storie vere
Il bambino costretto a vivere in una bolla: ha toccato il mondo senza mai toccarlo. L’incredibile storia di David Vetter
La ricerca scientifica ha fatto molti progressi nella cura dell’ADA-SCID, e oggi esistono terapie geniche innovative che offrono una speranza di guarigione a questi bambini.

“Non ha mai toccato il mondo, ma il mondo è stato toccato da lui.” Questa è l’epigrafe di David Phillip Vetter, noto per aver vissuto tutta la sua breve vita all’interno di una bolla di plastica a causa di una grave malattia. Nato nel settembre del 1971, David è morto a soli 12 anni nell’ottobre del 1984. Soffriva di ADA-SCID (Severe Combined Immunodeficiency Disease – Sindrome di Immunodeficienza Combinata grave da deficit di Adenosin-deaminasi), una malattia genetica che annulla le difese immunitarie. Per questo motivo, David è stato costretto a vivere in una bolla di plastica per evitare che virus e batteri potessero causargli infezioni mortali.
Un caso mediatico che ispirò documentari e film
La pratica della bolla di plastica era l’unico modo per far sopravvivere i bambini affetti da questa malattia negli anni ’70. David uscì dalla bolla solo per un trapianto di midollo osseo, nella speranza di salvarlo. Il donatore fu sua sorella, ma purtroppo l’intervento non ebbe successo . Morì poche settimane dopo a causa di gravi infezioni. Il bambino divenne un caso mediatico, il primo “bambino-bolla” della storia. Il New York Times gli dedicò un documentario intitolato “The Boy In The Bubble – David Vetter“. La sua storia ha ispirato anche il film “The Boy in the Plastic Bubble” (1976), con John Travolta.
Vetter non era l’unico bambino a vivere in quelle condizioni
Nel corso degli anni, molti altri bambini hanno subito la stessa sorte. La storia di David Vetter ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia e ha spinto la ricerca scientifica a trovare nuove cure. A partire dagli anni ’90, sono stati fatti molti progressi nella terapia genica per la SCID. In particolare, la terapia sviluppata dall’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano, chiamata Strimvelis, ha rappresentato una svolta nella cura di questa malattia. Strimvelis è la prima terapia genica a base di cellule staminali approvata in Europa per una malattia genetica rara. Ha offerto una speranza di futuro a molti pazienti affetti da ADA-SCID che non avevano un donatore compatibile di midollo osseo.
Storie vere
Minacciato dalla camorra e protetto dai servizi segreti? Cosa c’è di vero nel ritorno di Riccardo Flammini rintracciato a Parigi. Una storia avvolta nel mistero
L’attore romano era scomparso dal 2022. Contattata la redazione di “Chi l’ha visto?”, racconta una fuga misteriosa tra presunte minacce e protezione dei servizi segreti.

Dopo tre anni di silenzio, l’attore Riccardo Flammini è stato rintracciato a Parigi. L’annuncio è arrivato dalla trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?“, che ha incontrato l’uomo nella capitale francese. Là dove era stato avvistato l’ultima volta nel 2022. A contattare la redazione è stato lo stesso Flammini, 45enne attore romano, attraverso una serie di email. L’inviato del programma si è recato sul posto per incontrarlo e raccogliere il suo racconto. L’uomo ha dichiarato di essere fuggito «con l’aiuto dei servizi segreti». E il motivo? «Minacce di morte ricevute dalla camorra», affermazioni che al momento necessitano di ulteriori verifiche.
L’incontro con la sorella Valentina
Durante l’incontro, Flammini ha spiegato di aver perso i documenti e di essere stato messo in contatto con la sorella Valentina, che in questi anni non ha mai smesso di cercarlo. La redazione ha mostrato un messaggio inviato da Valentina a Riccardo. «Fratellino mio, buongiorno, mi riconosci? Sono io, sono nella tua cameretta e ci sono le tue cose. Sono qui perché ti sto aspettando. Aspetto da cinque anni che ritorni. Sono rimasta da sola, perché la mamma un mese fa è morta e papà vive in Spagna». Flammini ha risposto con parole cariche di incertezza. «Solamente quando sarà fatto tutto il percorso di protezione potrò tornare a Roma. Tornerò solo con la protezione».
Avviate le procedure per il rientro di Riccardo Flammini
Dopo l’incontro, Riccardo Flammini è stato accompagnato presso l’Ambasciata italiana e successivamente al Consolato per avviare le procedure per rifare i documenti smarriti. Come precisato da Federica Sciarelli, la vicenda presenta ancora molti punti oscuri e necessita di ulteriori verifiche. Valentina, presente in studio durante la puntata del 5 febbraio, ha espresso il suo scetticismo. «Voglio sperare che non sia reale, me lo auguro insomma». Nonostante le difficoltà, ha voluto ringraziare la redazione. «Vi ringrazio di cuore per quello che avete fatto per Riccardo. Avete accolto la sua richiesta di aiuto e siete stati gli unici».
Storie vere
L’uomo a piedi nudi che sfida il dolore e i limiti umani: la storia di Antonio Peretti
Conosciuto come “l’uomo a piedi nudi”, Antonio Peretti percorre distanze impossibili e condizioni estreme. Dall’alpinismo senza scarpe ai 150 km in Himalaya, la sua storia è un inno al coraggio e alla determinazione. «In 14 minuti spengo il dolore, ma l’organismo poi presenta il conto». Un esempio di resilienza che ispira giovani e meno giovani.

Erano in trecento a Breganze, per ascoltare la storia di Antonio Peretti, 64 anni, originario di Sovizzo, nel Vicentino, noto come “l’alpinista scalzo” o “l’uomo a piedi nudi”. Una vita fatta di sfide estreme, luoghi ai confini dell’umano e situazioni che mettono alla prova i limiti del corpo e della mente. Da vent’anni, Peretti, conosciuto anche con il nome di Tom Perry, ha deciso di reinventarsi, creando un personaggio fuori dagli schemi per spingersi oltre ogni confine immaginabile. «Tom Perry è il personaggio che mi sono creato, quello che mi spinge ad andare oltre i limiti», racconta.

La sua passione nasce all’età di 42 anni, ma il suo rapporto con lo sport ha radici più profonde. «Sono stato un forte atleta di mezzofondo, ho corso con campioni del calibro di Alberto Cova e Gelindo Bordin», spiega. «Poi mi sono accorto della deriva dell’atletica e del fatto che circolavano sostanze strane. Mi sono chiamato fuori, avevo 18 anni e non volevo quello per la mia vita. Mi iscrissi al corso ufficiale per diventare paracadutista della Folgore. La scelta migliore che potessi fare: il militare ti fa capire il valore del sacrificio».

Nonostante una carriera da agronomo, Antonio sentiva di non aver raggiunto le soddisfazioni che avrebbe meritato. «Ho creato Tom, un personaggio fuori dai canoni regolari, qualcosa di mio che mi sono costruito. Avevo solo me stesso da seguire, con sfide sempre più fuori dagli schemi», prosegue. La svolta arriva quando, durante una scalata, decide di togliersi gli scarponi. «Volevo superare i limiti. Una volta mi tolsi gli scarponi e decisi di proseguire senza, accorgendomi di avere una predisposizione. Cominciai con piccole salite e piccole discese, fino a quando capii che il dolore “si chiudeva” dopo 14 minuti».

Da quel momento, le imprese diventano sempre più ambiziose. Dalle Piccole Dolomiti al Kilimangiaro, dalla Bolivia al Nepal, passando per il Messico e il Guatemala, Antonio guida un team di fotografi e operatori video in condizioni estreme. «Nel 2004 creammo un team con un giornalista e un fotografo, a cui poi si aggiunse un operatore video, Massimo Belluzzo. Lo scoprii tramite Ferruccio Gard. Da lì in poi andammo ovunque». Tuttavia, l’alpinismo diventa una definizione stretta per il suo operato. «Capii che l’alpinismo era solo una nicchia, il Cai continuava a contestare me e le mie imprese. Mi tolsi questo appellativo e mi definii “l’uomo a piedi nudi”».

Ma come riesce a sopportare dolori così intensi? «Costringendo il cervello con una tecnica tibetana. Lo martello, a tal punto che se prima ci mettevo quattordici minuti a “chiudere” il dolore, adesso ci metto due secondi. Poi, quando l’organismo si sveglia, mi fa pagare il conto, e lì son dolori veri». E il limite? «Devo ancora scoprirlo. Mi curo i denti senza anestesia, non prendo alcun antidolorifico. Sono riuscito a sconfiggere il dolore fisiologico umano. Fare 150 chilometri a piedi nudi in Himalaya salendo dai 3000 ai 7000 è qualcosa di difficilmente spiegabile», dice con orgoglio.
Tra le sue imprese più difficili c’è l’Etna, nel marzo 2007. «Salire e scendere dall’Etna dopo un’eruzione a piedi nudi è stata una delle esperienze più dure della mia vita. Rischiai seriamente di morire. Ho convissuto per sei mesi con ustioni in tutto il corpo e avevo costantemente la pressione da 180 ai 240. Mi sentivo come Hulk», racconta. Eppure, nonostante le difficoltà, continua a sfidare se stesso e la natura, spinto da una forza interiore che definisce quasi mistica. «Qualcuno lassù mi protegge, mi ha messo una sorta di protezione. Io voglio far capire ai giovani il senso della fatica. Vorrei creare uno spot televisivo che desse un significato alla mia storia».
Antonio non risparmia critiche alla società moderna. «La gente non fa più figli e preferisce avere un cane. Ci rendiamo conto? Vedo troppe persone spente e senza stimoli. Lo chiamo il malessere del benessere». Nonostante tutto, il suo spirito rimane indomito, come dimostra la sua ultima impresa in Perù. «L’ho raccontata a Breganze nel mio nuovo documentario Alla scoperta del Perù segreto. C’erano 300 persone, sono rimaste a bocca aperta. Spero di averle colpite».
Il viaggio di Antonio Peretti, alias Tom Perry, continua, spinto dalla volontà di dimostrare che i limiti umani possono essere sfidati e superati, un passo alla volta.
-
Gossip11 mesi fa
Elisabetta Canalis, che Sex bomb! è suo il primo topless del 2024 (GALLERY SENZA CENSURA!)
-
Cronaca Nera7 mesi fa
Bossetti è innocente? Ecco tutti i lati deboli dell’accusa
-
Speciale Olimpiadi 20246 mesi fa
Fact checking su Imane Khelif, la pugile al centro delle polemiche. Davvero è trans?
-
Speciale Grande Fratello5 mesi fa
Shaila del Grande Fratello: balzi da “Gatta” nei programmi Mediaset
-
Sex and La City9 mesi fa
Dick Rating: che voto mi dai se te lo posto?
-
Moda e modi6 mesi fa
L’estate senza trucco di Belén Rodriguez
-
Gossip8 mesi fa
È crisi tra Stefano Rosso e Francesca Chillemi? Colpa di Can?
-
Speciale Grande Fratello5 mesi fa
Helena Prestes, chi è la concorrente vip del Grande Fratello? Età, carriera, vita privata e curiosità