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Storie vere

Detiene un Bond milionario del Regno della Romania che vale 70 milioni e si becca una multa da 21 milioni

Nel 2017 un collezionista viaggiava con un ex titolo di Stato dell’ex Regno di Romania emesso nel 1929 dal valore di circa 70 milioni di euro. Alla dogana non lo ha dichiarato e ora dovrà pagare una multa salatissima.

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    Un tranquillo viaggio in treno da Zurigo a Milano si è trasformato in un’odissea giudiziaria per un collezionista che trasportava un ex titolo di Stato della Romania emesso durante il Regno nel 1929 dal valore di 70 milioni di euro. Un errore nella dichiarazione doganale gli è costato una multa salatissima: 20.923.989 euro. Multa confermata dalla Cassazione il 14 novembre 2023.

    Come sono andati i fatti

    Il 24 novembre 2017, l’uomo era a bordo del treno EuroCity 17 diretto a Milano, quando è stato fermato alla dogana di Chiasso dagli agenti della Guardia di Finanza. Alla domanda di routine se trasportasse contanti o titoli superiori ai 10.000 euro, la risposta è stata un secco “no”. Ma dentro la sua borsa, i finanzieri hanno trovato ben altro. Si trattava di un titolo di credito obbligazionario emesso dal Regno di Romania nel 1929, con scadenza nel 1959. Il titolo era corredato da 32 cedole semestrali e la documentazione che ne attestava l’autenticità e il valore. Questo titolo, originariamente con un valore nominale di 100 dollari, era stato certificato tramite una recente perizia come equivalente a 70 milioni di euro. Ben più di un semplice cimelio storico quindi.

    In che contesto era stato emesso il titolo di Stato della Romania?

    Il bond risale all’epoca in cui il Regno di Romania, monarchia costituzionale dal 1881, emetteva obbligazioni per sostenere l’economia durante la Grande Depressione. Dopo la caduta della monarchia nel 1947 e la trasformazione in una Repubblica comunista, il titolo ha perso il suo contesto di riferimento, finendo per diventare oggetto di interesse per il mercato collezionistico. Sebbene la maggior parte di questi titoli abbia oggi un valore puramente simbolico, quello trovato nella borsa dell’uomo era accompagnato da un rapporto di valutazione e autenticità, oltre a un contratto di acquisto e documenti bancari, che ne dimostravano la potenziale negoziabilità.

    E quindi perché una multa così alta?

    Secondo la legge italiana, chi trasporta beni o titoli di valore superiore ai 10.000 euro deve dichiararli alle autorità doganali. In caso contrario, scatta una sanzione proporzionata al valore del bene, pari al 30% del totale non dichiarato. L’uomo ha provato a sostenere che il bond avesse solo il valore “nominale” di 100 dollari, ma i giudici hanno ritenuto che i documenti in suo possesso – tra cui la perizia di autenticità e il contratto di compravendita – dimostrassero il contrario. Secondo la Corte, il titolo era “potenzialmente liquidabile” e quindi soggetto all’obbligo di dichiarazione.

    L’uomo ha tentato più volte di fare ricorso contro la sanzione

    Nel primo ricorso in Corte d’Appello, i giudici hanno confermato la legittimità della multa, ribadendo che l’ignoranza non è una scusa valida, soprattutto quando il possesso di documenti esplicativi dimostra la consapevolezza del valore del bene. La Cassazione ha confermato che l’uomo non ha dimostrato di aver agito con “ignoranza incolpevole” rispetto all’obbligo di dichiarazione. Anche la richiesta di ridurre l’importo della sanzione è stata rigettata. La Cassazione ha condannato così l’uomo al pagamento delle spese legali, per un ulteriore costo di 20.000 euro.

      Storie vere

      La superiora coinvolta in una chat erotica col prete, ma le suore negano

      La religiosa a capo del Most Holy Trinity di Arlington è stata accusata di aver violato il voto di castità con telefonate sconce con un prete. Il vescovo locale vuole prendere il controllo della struttura, ma le suore si sono ribellate

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        La saga del monastero Most Holy Trinity di Arlington, Texas, è diventata la trama principale di una telenovela dall’andamento tanto imprevedibile quanto scandaloso. Il palcoscenico di questa storia boccaccesca è un monastero in lotta tra suore ribelli e un vescovo determinato, con tanto di violazione dei voti di castità e telefonate sconce a un prete.

        Le suore carmelitane hanno alzato la voce, sfidando il Vaticano e denunciando il vescovo locale e l’Association of Christ the King. La battaglia per il controllo del monastero e dei suoi trenta ettari di terreno è diventata un vero e proprio campo di battaglia legale, con milioni di dollari in gioco e un’accusa di violazione dei voti sacri che avrebbe fatto arrossire persino il Papa.

        Il Vaticano ha emesso un decreto assegnando il controllo del monastero a un’organizzazione privata cattolica, scatenando una guerra legale senza precedenti. Ma le suore non si sono arrese facilmente: hanno chiesto di bloccare il provvedimento e hanno denunciato il vescovo locale per tentativo di appropriazione indebita.

        Ma la vera bomba è stata la rivelazione dei loschi affari della madre superiora, Teresa Agnes Gerlach, accusata di aver rotto il voto di castità con telefonate sconce a un prete di un altro monastero. Un’indagine interna condotta dal Vaticano ha portato alla rimozione di Gerlach, ma la madre superiora non si è data per vinta, sostenendo di essere vittima di un complotto ordito dal vescovo per prendere il controllo del monastero.

        Il tribunale diventa così il palcoscenico di una battaglia epica, con suore coraggiose che lottano per difendere la loro casa e il loro onore. La richiesta di 100 mila dollari di risarcimento è solo l’ultima mossa in questa partita che sembra non avere fine.

        Ma mentre il pubblico si prepara a scrutare ogni mossa sul palcoscenico del tribunale, ci si chiede: chi sarà il vincitore di questa battaglia? Le suore sono pronte a tutto pur di difendere il loro monastero, e il vescovo dovrà fare i conti con una rivolta che potrebbe mandare in fumo i suoi loschi piani.

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          Storie vere

          Ha viaggiato per il mondo per sei anni: ora, tornata a casa, Katie si sente più sola che mai

          Ha trascorso 6 anni all’avventura in giro per il mondo. A 30 anni, tornata a casa, per lei è stato un trauma. Ecco cosa le manca di più…

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            Questo pezzo potrebbe iniziare con una citazione tratta dal testo Walden ovvero vita nei boschi scritto da Henry David Thoreau nel 1817. “Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto (…)”. Eh sì perchè Katie Lemon, copywriter e autrice statunitense, ha vissuto un’esperienza che per molti è solo un sogno. Un’avventura che si avvicina molto al personaggio del libro autobiografico di Thoreau. Sei anni trascorsi esplorando il mondo, con lo zaino in spalla e il cuore aperto a ogni nuova avventura. Dal Vietnam al Nepal, passando per il Sahara e il Guatemala, Katie ha sperimentato la libertà più autentica, un’esistenza in cui la profondità delle connessioni umane e il contatto con la natura erano centrali.

            Il richiamo della semplicità

            Ma il ritorno a casa, negli Stati Uniti, non è stato affatto come lo aveva immaginato. Al contrario, si è rivelato un trauma. “Avevo bisogno di mettere radici“, racconta Katie in un’intervista a Business Insider, “ma qui mi sento più sola che mai“. Durante i suoi viaggi, Katie si muoveva a piedi o con mezzi pubblici, assaporando il ritmo lento della vita. In Guatemala, ad esempio, poteva raggiungere i mercati locali o incantevoli sentieri panoramici semplicemente camminando. “Era una vita semplice, ma mi sentivo connessa con il mondo e con le persone che incontravo“, ricorda con nostalgia. Tornata a St. Louis, negli Stati Uniti, questa connessione è scomparsa, inghiottita dalla frenesia della vita moderna. “Qui tutto è pianificato, dal fare la spesa in enormi supermercati al doversi spostare ovunque in auto. Anche le cose più banali sembrano alienanti“.

            Per Katie una vita divorata dal lavoro

            Uno dei maggiori disagi che Katie ha provato riguarda il ritmo implacabile della vita lavorativa negli Stati Uniti. “All’estero, c’era tempo per assaporare il quotidiano: un chai condiviso in India o la cultura della siesta in America Latina. Qui, il lavoro occupa ogni spazio mentale e fisico. Ritagliarsi momenti di libertà sembra quasi un atto di ribellione“. L’autrice lamenta una cultura che valorizza la produttività sopra ogni cosa, a scapito della qualità della vita. “In tanti Paesi che ho visitato, la gente sapeva come vivere davvero, godendo del tempo e delle connessioni umane. Qui sembra che tutto sia sacrificabile sull’altare del lavoro“.

            Tornare, ma a quale costo?

            Un altro aspetto che Katie fatica ad accettare è la perdita della spontaneità nelle relazioni. All’estero, nelle comunità di expat, bastava poco per creare legami sinceri: un sorriso, una conversazione improvvisata, un invito a cena. Tornata negli Stati Uniti, tutto è diverso. “Le amicizie qui sembrano programmate: brunch, gite, visite. Ogni momento è incastrato in un’agenda rigida, come se non ci fosse più spazio per un’improvvisata o una connessione autentica“. Ma Katie si rende conto altresì che la scelta di tornare era necessaria. Dopo anni di avventure, desiderava un luogo da chiamare casa. Ma quel luogo ora sembra non appartenerle più. “Sento la mancanza di un’esistenza che valorizza la semplicità, il tempo e le relazioni vere. Qui, tutto sembra artificiale, costruito, lontano dalla vita autentica che ho conosciuto”. In una riflessione che richiama le parole di Henry David Thoreau, Katie conclude: “Ho viaggiato per il mondo per trovare connessioni, bellezza e saggezza. Ora, tornata alla civiltà, mi chiedo se il prezzo da pagare sia troppo alto“.


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              Storie vere

              I primi suoni per Nicola: un miracolo di tecnologia e amore

              Bimbo di 8 mesi sordo dalla nascita ora sente per la prima volta: “Vederlo reagire un’esplosione di gioia, ora nacchere e xilofono gli strumenti che ama di più”.

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                Per la prima volta nella sua vita, il piccolo Nicola, un bimbo di appena otto mesi nato con ipoacusia profonda, ha potuto ascoltare il mondo intorno a sé. Un momento indimenticabile per lui e i suoi genitori, immortalato in una scena di pura gioia quando Nicola ha sentito la voce di mamma e papà e ha reagito con stupore e meraviglia. “Vederlo girarsi verso di noi al primo suono è stato un momento indescrivibile“, racconta emozionata Giulia Lovera, madre di Nicola. “Finalmente può sentire la nostra voce, i rumori di casa, e scoprire un mondo di suoni che gli era negato“.

                La diagnosi e l’intervento risolutivo

                Nicola è nato a Cuneo lo scorso 17 marzo. Fin dai primi giorni di vita, i medici hanno rilevato una ipoacusia profonda, una forma di sordità totale diagnosticata grazie al test delle otoemissioni acustiche. Per lui, l’unica speranza era un impianto cocleare, un dispositivo che sostituisce la funzione biologica dell’udito. L’intervento, eseguito presso l’ospedale Martini di Torino dal team del dottor Diego Di Lisi, ha rappresentato una svolta. Grazie a una tecnologia robotica innovativa, l’équipe ha inserito l’impianto cocleare con una precisione senza precedenti, garantendo a Nicola la possibilità di recuperare l’udito.

                Una tecnologia all’avanguardia

                L’intervento di Nicola è stato il primo al mondo eseguito su un bambino così piccolo con una tecnica chirurgica robotica avanzata. “Abbiamo utilizzato un braccio meccanico di ultima generazione in grado di mantenere una traiettoria chirurgica precisa al millimetro, riducendo al minimo i traumi alle delicate strutture dell’orecchio“, spiega il dottor Di Lisi. Il risultato è stato straordinario: Nicola può sentire chiaramente e la struttura anatomica dell’orecchio è stata preservata, garantendo l’adattabilità a future innovazioni tecnologiche. “La parte interna dell’impianto durerà circa vent’anni, mentre quella esterna potrà essere aggiornata ogni cinque anni senza controindicazioni“, aggiunge il medico.

                Il ritorno a casa e la gioia dei suoni

                Una volta tornati a casa dall’ospedale, amici e parenti hanno inondato Nicola di strumenti musicali per fargli sperimentare la magia dei suoni. Tra xilofono e nacchere, Nicola ha già i suoi preferiti. Ma il suono più speciale di tutti è stato quello della voce dei suoi genitori. “È straordinario poter comunicare con nostro figlio e vederlo reagire ai suoni della nostra voce. È un sogno che si realizza“, racconta mamma Giulia.

                Un Natale speciale, ma non senza ostacoli

                Per Nicola e la sua famiglia, questo sarà un Natale unico e rumoroso, pieno di musica e risate. Tuttavia, la strada non è stata priva di difficoltà. Nonostante la sua giovane età e la gravità della sua condizione iniziale, a Nicola non è stata riconosciuta alcuna forma di invalidità, come sottolinea la mamma. “Questo ci avrebbe consentito di avere più tempo per seguirlo, ma rimane una piccola stortura in una storia che, per il resto, è fatta di incontri meravigliosi e successi straordinari“.

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