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Cronaca

Una sbavatura sul marmo: l’errore tipografico sulla tomba di Papa Francesco

Un errore di crenatura tipografica rovina l’armonia della lapide destinata a custodire la memoria di Papa Francesco. Un dettaglio che diventa simbolo: nel luogo in cui la forma è sostanza, anche una dissonanza grafica suona come mancanza di rispetto.

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    Nel silenzio solenne di Santa Maria Maggiore, dove ogni raggio di luce si posa sulle navate con l’intenzione di non disturbare, una nota stonata si è fatta largo tra i marmi. È una nota visiva, quasi impercettibile, ma che rompe l’armonia del luogo in cui si intendeva celebrare con sobrietà la memoria di Papa Francesco. La lapide in questione – quella che, secondo le disposizioni rese note nei giorni scorsi, segnerà il luogo dove riposeranno le sue spoglie – porta inciso il nome Franciscus. Ma qualcosa, in quelle lettere, non funziona. O meglio: non convince l’occhio.

    Non è un errore di ortografia né un’incisione sbagliata. È una questione di spaziatura. In termini tipografici, si parla di “crenatura” – o kerning, come si dice nel linguaggio internazionale del design – ovvero l’arte minuziosa e invisibile di calibrare la distanza tra una lettera e l’altra affinché la parola appaia compatta, coerente, armonica. Un’arte che in questo caso sembra essere mancata del tutto. Le lettere si inseguono con una cadenza incerta: la “R” scivola via dalla “A”, la “N” rimane appesa nel vuoto come in attesa di essere raggiunta. Un dettaglio minimo, si dirà. Eppure, in certi luoghi e in certe circostanze, i dettagli sono tutto.

    A notarlo sono stati i primi visitatori e poi, con maggiore enfasi, il settimanale L’Espresso, che ha acceso i riflettori su quella che a tutti gli effetti è una svista difficile da ignorare. Non tanto per il fastidio visivo, quanto per il significato che porta con sé. La lapide di un Papa – tanto più di un Papa come Francesco, il cui pontificato ha fatto dell’essenzialità e dell’attenzione ai simboli un tratto distintivo – non può permettersi una leggerezza estetica. Non è questione di formalismo, ma di rispetto. Per la figura, per la memoria, per il luogo.

    Chiunque abbia mai lavorato nella grafica lo sa bene: la distanza tra due lettere non è mai una pura misura matematica. È un’illusione ottica da governare. La “A” si accosta in un modo alla “V”, in un altro alla “T”. Serve occhio, sensibilità, mestiere. Ma soprattutto serve consapevolezza del contesto. Qui non si sta incidendo un’insegna, ma un nome destinato a durare nel tempo, scolpito sulla pietra, davanti a milioni di sguardi.

    E allora quell’anomalia – così piccola, così clamorosa – rischia di diventare simbolica. Perché si è scelta la lapide più semplice, come richiesto dal pontefice. Perché si è deciso di collocarla in una delle basiliche più amate da Bergoglio, a pochi metri dall’icona della Madonna Salus Populi Romani, davanti alla quale ha pregato tante volte. Eppure, proprio lì, dove ogni gesto avrebbe dovuto risuonare con cura e solennità, è arrivata una svista. Una stonatura che dice, senza volerlo, che qualcosa è andato perso nel passaggio tra intenzione e realizzazione.

    Forse si è trattato di una fretta mal riposta, forse di una mancanza di coordinamento tra chi ha progettato, inciso, approvato. Non ci sono colpe ufficiali, ma resta l’effetto. Perché se è vero che l’occhio umano sa perdonare molto, è altrettanto vero che certi errori restano impressi proprio perché fuori posto. La pietra parla, sempre. E quando le lettere si allontanano l’una dall’altra, si allontana anche il senso.

    Non si tratta di un processo a chi ha sbagliato. Si tratta piuttosto di una riflessione su come, anche nei gesti più concreti – incidere un nome, posare una lastra – si giochi la responsabilità della memoria. Il nome “Franciscus” avrebbe dovuto vibrare di silenzio e compostezza, come un saluto sussurrato. Invece si è incrinato, lasciando che la forma tradisse la sostanza. E in un’epoca in cui la forma è sostanza, anche una sbavatura tipografica sa raccontare più di quanto si creda.

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      Mondo

      Carlo Acutis trova pace. Sarà santo il giovane del web che ha conquistato il cielo

      Il 7 settembre la canonizzazione del ragazzo milanese che ha reso straordinario l’ordinario: ecco chi era e quali miracoli gli sono stati attribuiti.

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        La Chiesa Cattolica ha finalmente stabilito la data: Carlo Acutis sarà canonizzato il 7 settembre, assieme a Pier Giorgio Frassati. La cerimonia, annunciata da Papa Leone XIV, era attesa da tempo e avverrà nel giorno della Natività della Beata Vergine Maria. Nato a Londra nel 1991 e cresciuto a Milano, Carlo Acutis è morto a soli 15 anni per una leucemia fulminante il 12 ottobre 2006. Amava l’informatica e utilizzava il web per diffondere la fede, creando un sito che raccoglieva le Eucaristie miracolose riconosciute dalla Chiesa. Era un ragazzo comune, allegro e vivace, ma con una forte spiritualità. Frequentava Assisi, città dove oggi riposa nel Santuario della Spogliazione, e aveva una profonda devozione per San Francesco.

        Perché diventerà santo?

        La canonizzazione di Acutis è possibile grazie al riconoscimento di due miracoli attribuiti alla sua intercessione. Il primo miracolo, che lo ha portato alla beatificazione nel 2020, riguarda la guarigione di Matheus, un bambino brasiliano di 3 anni, affetto da una grave patologia del pancreas nel 2013. Il secondo miracolo, decisivo per la sua canonizzazione, è la guarigione miracolosa di Valeria Valverde, una giovane costaricana di 24 anni, che nel 2022 ha riportato un grave trauma cranico dopo una caduta dalla bicicletta a Firenze. La sua mamma aveva pregato Carlo ad Assisi, e Valeria si è ripresa inspiegabilmente.

        Acutis un santo vicino ai giovani

        Carlo Acutis viene spesso definito il “santo del web”, ma più che un prodigio tecnologico, è stato un ragazzo capace di rendere straordinario l’ordinario. La sua santità era semplice, fatta di piccoli gesti e di una vita vissuta con profonda fede. La devozione nei suoi confronti è ormai internazionale, con pellegrinaggi dedicati non solo in Italia, ma anche a Cuba. Il suo esempio continua a ispirare giovani, mostrando come la fede possa essere moderna e accessibile. A soli 15 anni, Carlo ha lasciato un’eredità spirituale che oggi, con la canonizzazione, verrà celebrata per sempre. Un santo giovane, un santo vicino alla gente. Un santo che, con la sua semplicità, ha raggiunto il cielo.

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          Mistero

          La hostess che sopravvisse a un volo di oltre 10.000 metri senza paracadute

          La storia di Vesna Vulović è davvero straordinaria. Nel 1972, questa assistente di volo serba sopravvisse a una caduta di 10.160 metri senza paracadute dopo che l’aereo su cui lavorava esplose a causa di un attentato terroristico1. Nonostante le gravi ferite e un lungo periodo di riabilitazione, Vesna Vulović divenne un simbolo di speranza e resilienza, detenendo il Guinness World Record per la caduta più alta sopravvissuta senza paracadute2. La sua storia è un incredibile esempio di sopravvivenza e coraggio.

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            Nel 1972, l’hostess Vesna Vulović sopravvisse incredibilmente a una caduta di 10.160 metri senza paracadute dopo che un attentato terroristico fece esplodere l’aereo su cui stava lavorando. Ripercorriamo questa storia straordinaria, esplorando le cause dell’incidente e come Vesna riuscì a sopravvivere a una tale tragedia.

            L’aereo della JAT Yugoslav Airlines, un DC-9, esplose in volo il 26 gennaio 1972 a causa di una bomba nascosta nella stiva, presumibilmente piazzata da un gruppo terroristico croato. L’esplosione avvenne mentre l’aereo sorvolava la Cecoslovacchia (l’attuale Repubblica Ceca), disintegrando l’aereo e lanciando i suoi resti a terra.

            Vesna Vulović, che si trovava nella parte posteriore dell’aereo, fu l’unica sopravvissuta tra le 28 persone a bordo. La fusoliera si schiantò su un’area montuosa innevata, e alcuni alberi e il manto nevoso attutirono l’impatto, contribuendo alla sua sopravvivenza. Inoltre, si ritiene che la pressione della cabina depressurizzata e il fatto che Vesna fosse all’interno di una piccola sezione della fusoliera che rimase relativamente intatta, abbiano giocato un ruolo cruciale.

            Vesna subì gravi ferite, tra cui fratture al cranio, alle gambe e alla colonna vertebrale, che la lasciarono temporaneamente paralizzata dalla vita in giù. Tuttavia, dopo mesi di convalescenza e un’intensa riabilitazione, riuscì a camminare di nuovo.

            La sopravvivenza di Vesna Vulović a un incidente così devastante è considerata un caso unico nella storia dell’aviazione, tanto da essere riconosciuta dal Guinness dei Primati per la sopravvivenza alla caduta libera senza paracadute da maggiore altitudine.

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              Mondo

              Tel Aviv, sotto i missili la spiaggia resiste: tra corse nei rifugi e tuffi nel mare

              Mentre i cieli di Israele restano sotto tiro, a Tel Aviv la spiaggia diventa rifugio emotivo e simbolico. I corpi si muovono come se niente fosse. Ma gli occhi restano incollati al cielo, pronti a scattare.

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                Il mare è calmo. Il cielo no.

                È il quarto giorno di guerra a colpi di missili tra Israele e Iran, ma sulla spiaggia di Tel Aviv la vita – per quanto possa – prova a resistere. Tra una sirena e l’altra, c’è chi si sdraia sull’asciugamano, chi si tuffa, chi gioca a racchettoni con l’orecchio teso al rumore di fondo.

                La città vive sospesa. Ogni ombrellone è montato con la consapevolezza che potrebbe essere abbandonato in fretta. I bambini costruiscono castelli di sabbia mentre i genitori controllano il telefono, pronti a leggere l’allerta in arrivo. In lontananza, un boato sordo. Nessuno grida, ma il movimento cambia. Qualcuno si alza, qualcuno resta. Un silenzio breve, poi di nuovo le voci.

                “È come vivere in una pausa tra due frasi”, dice Yael, 42 anni, che ha portato le figlie a prendere un gelato. “Stiamo cercando un momento di normalità. Anche se dura poco, vale la pena”.

                A due metri da lei, due giovani soldati in tenuta leggera si rilassano sulla sabbia. Il fucile d’assalto è poggiato accanto allo zaino. Sembrano in licenza, ma restano vigili. Uno guarda il telefono ogni dieci secondi. L’altro si concede un tuffo.

                Il bagnino fischia. Non per una sirena, ma per richiamare dei ragazzi che si spingono troppo al largo. A Tel Aviv si continua a fare il bagno, anche quando la guerra bussa dal cielo. È una forma di resistenza sottile, quotidiana, ostinata.

                “Non ci abituiamo, ma impariamo a convivere con l’imprevisto”, dice Moshe, 29 anni, insegnante in pausa forzata. “La spiaggia è uno dei pochi posti dove riesco ancora a respirare”.

                Poco distante, un turista italiano racconta: “Ho pensato di andarmene. Ma poi ho visto questa gente al mare, tranquilla. Mi sono detto: se loro restano, posso farlo anch’io”.

                La sabbia è tiepida, l’acqua limpida. Ma sopra le teste, il cielo resta incerto. A tratti azzurro, a tratti tagliato da scie lontane. Tutti sanno che può succedere di nuovo. Eppure restano.

                La guerra è appena cominciata, ma Tel Aviv – almeno per ora – non vuole arrendersi. Nemmeno al mare.

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