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Benessere

La dieta del panettone: dimagrire mangiandolo è un’illusione natalizia?

Un dolce come panacea per perdere peso? La “dieta del panettone” promette miracoli, ma è davvero possibile dimagrire mangiando solo pandoro e dolci natalizi? Scopriamo perché questo trend rischia di danneggiare la tua salute e il tuo corpo.

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    La dieta del panettone: un paradosso natalizio
    La “dieta del panettone” è un concetto che negli ultimi anni ha fatto molto discutere nel mondo della nutrizione. L’idea di base è semplice: per dimagrire o mantenere il peso, si può consumare panettone o pandoro come alimento principale per un certo periodo di tempo.

    Come funziona (o meglio, come non funziona)
    Questa dieta si basa su alcune premesse che, scientificamente, non trovano alcun fondamento:
    Effetto termogenico: Si sostiene che il corpo bruci più calorie per digerire il panettone rispetto a quanto ne apporta. Questa teoria è infondata e non supportata da studi scientifici.
    Restrizione calorica: La dieta del panettone prevede una restrizione calorica, ma questa può essere ottenuta con qualsiasi altro alimento, non necessariamente con un dolce natalizio.
    Orario dei pasti: Si consiglia di consumare il panettone entro una certa ora (es. entro le 21) per favorire il dimagrimento. Anche questa affermazione non ha alcun fondamento scientifico.

    Perché la dieta del panettone non è consigliata?
    Squilibrio nutrizionale: Il panettone, pur essendo un dolce, apporta principalmente carboidrati. Una dieta basata esclusivamente su questo alimento porta a una carenza di proteine, fibre, vitamine e minerali, essenziali per il corretto funzionamento dell’organismo. Effetto yo-yo: La perdita di peso ottenuta con diete drastiche e squilibrate è spesso seguita da un rapido riacquisto di peso, con il rischio di mettere su più chili di quelli persi inizialmente.
    Rischi per la salute: Una dieta così restrittiva può causare stanchezza, mal di testa, difficoltà di concentrazione e altri disturbi.

    Cosa dicono gli esperti?
    Nutrizionisti ed endocrinologi sconsigliano vivamente la dieta del panettone. Un’alimentazione sana ed equilibrata, basata su una varietà di cibi, è fondamentale per mantenere un peso sano e prevenire malattie. Il panettone, come tutti i dolci, va consumato con moderazione e in occasioni speciali.

    Conclusioni

    La dieta del panettone è una moda passeggera, priva di fondamenti scientifici e potenzialmente dannosa per la salute. Se desideri dimagrire o mantenere il peso forma, è fondamentale rivolgersi a un professionista della nutrizione per un piano alimentare personalizzato e sicuro.

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      Benessere

      Formaggi e intolleranza al lattosio: cosa si può davvero mangiare

      La stagionatura riduce naturalmente il lattosio, rendendo molti formaggi adatti a chi ha difficoltà a digerirlo. Ecco quali scegliere, cosa evitare e perché.

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      Formaggi e intolleranza al lattosio

        Per molte persone scoprire di essere intolleranti al lattosio significa eliminare latte e derivati in blocco. Ma non sempre è necessario. L’intolleranza, dovuta a una ridotta produzione dell’enzima lattasi, provoca disturbi gastrointestinali solo quando la quantità di lattosio supera la soglia tollerata dal singolo individuo. E la buona notizia è che alcuni formaggi, grazie ai processi di produzione e stagionatura, contengono quantità molto basse di zucchero del latte, spesso inferiori allo 0,1%.

        Perché alcuni formaggi sono naturalmente “lactose free”

        Durante la trasformazione del latte in formaggio, i batteri lattici presenti negli starter consumano il lattosio come fonte di energia, trasformandolo in acido lattico. Più lunga è la stagionatura, più completo è questo processo. È per questo che i formaggi a pasta dura e molto stagionati sono generalmente sicuri per la maggior parte degli intolleranti.

        Non si tratta di prodotti artificialmente modificati: è il metabolismo naturale dei microrganismi a far scomparire quasi del tutto il lattosio.

        I formaggi che si possono mangiare senza problemi

        Gli enti di ricerca alimentare e le associazioni internazionali dedicate alle intolleranze concordano: molti formaggi stagionati contengono tracce trascurabili di lattosio. Tra i più indicati:

        • Parmigiano Reggiano: dopo 12 mesi di stagionatura il lattosio è assente; i consorzi garantiscono ufficialmente che il prodotto è naturalmente privo di lattosio già dal nono mese.
        • Grana Padano: anche qui il lattosio viene completamente metabolizzato dai batteri durante la maturazione; il formaggio stagionato oltre 12 mesi è considerato sicuro.
        • Pecorino stagionato: le versioni oltre i 6-8 mesi hanno contenuti di lattosio praticamente nulli.
        • Gorgonzola piccante e altri erborinati maturi: la lunga fermentazione riduce drasticamente il lattosio.
        • Provolone stagionato: più è vecchio, meno lattosio contiene.
        • Emmental, Gruyère, Comté: tutti caratterizzati da lunghi tempi di stagionatura.
        • Cheddar stagionato: nelle versioni mature il lattosio è molto basso.

        Tutti questi formaggi sono normalmente tollerati dalla maggior parte dei soggetti intolleranti, poiché il contenuto di lattosio è inferiore allo 0,1%—quantità che rientra nella soglia “lactose free” riconosciuta a livello europeo.

        E quelli da evitare?

        I formaggi freschi o a breve stagionatura mantengono una quota più elevata di lattosio. Tra quelli più problematici:

        • Mozzarella (soprattutto vaccina): contiene lattosio residuo, anche se in quantità moderate.
        • Ricotta: non è un formaggio in senso stretto ma un latticino ottenuto dal siero, più ricco di lattosio.
        • Mascarpone: molto ricco di lattosio.
        • Fiocchi di latte e formaggi spalmabili: crema di formaggi freschi dove il lattosio è presente in quantità rilevanti.
        • Stracchino, crescenza, robiola fresca: la stagionatura brevissima non permette ai batteri di consumare il lattosio.

        Per chi è molto sensibile, esistono comunque versioni delattosate di quasi tutti i prodotti, ottenute tramite aggiunta di lattasi o processi enzimatici specifici.

        Il consiglio degli esperti: ascoltare la propria soglia

        L’intolleranza al lattosio non è uguale per tutti. Alcune persone digeriscono bene piccole quantità, altre devono evitarlo quasi del tutto. Le linee guida dei nutrizionisti suggeriscono di:

        • introdurre i formaggi stagionati gradualmente;
        • osservare la risposta del proprio organismo;
        • preferire piccole porzioni distribuite nella giornata;
        • evitare di consumare più prodotti freschi nello stesso pasto.

        Un’alimentazione più varia, senza rinunce

        Sapere che molti formaggi sono naturalmente privi di lattosio significa poter tornare a gustarli senza timori. La soluzione sta nell’informarsi, leggere le etichette e conoscere le differenze tra un prodotto fresco e uno stagionato.

        Per chi convive con l’intolleranza, è una libertà in più a tavola: un modo per non rinunciare al gusto, rispettando allo stesso tempo il proprio benessere.

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          Benessere

          Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

          Gli studi mostrano che la meditazione riduce stress, ansia e iperattività mentale, tra le principali cause dei disturbi del sonno. Ecco come applicarla a casa con esercizi semplici e sicuri.

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          Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

            Difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni, pensieri che corrono come un treno in piena notte: l’insonnia è un problema in aumento. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un terzo degli adulti sperimenta disturbi del sonno significativi almeno una volta nella vita. In Italia, le stime parlano di uno su cinque con insonnia cronica o ricorrente. A risentirne non è solo l’energia al mattino: dormire poco indebolisce memoria, umore, capacità di concentrazione e persino il sistema immunitario.

            Non sorprende, quindi, che si cerchino soluzioni non farmacologiche, soprattutto quando lo stress è il motore principale del problema. Tra queste, la mindfulness — una forma di meditazione basata sulla consapevolezza del momento presente — sta dimostrando efficacia clinica crescente. Studi pubblicati su riviste come JAMA Internal Medicine e Sleep hanno rilevato che programmi di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) migliorano la qualità del sonno in persone con insonnia lieve o moderata, riducendo i sintomi dell’ansia e diminuendo la latenza dell’addormentamento.

            Perché funziona

            Il meccanismo è semplice nella teoria, meno nella pratica: la mindfulness smonta l’iperattivazione mentale, la stessa che porta a girarsi nel letto per ore.
            Quando si medita, il sistema nervoso riduce l’attività della risposta “lotta o fuggi” e aumenta quella del sistema parasimpatico, collegato al rilassamento. Si abbassano i livelli di cortisolo e rallenta il flusso dei pensieri intrusivi, quelli che iniziano con “domani devo…”.

            Non si tratta di “spegnere” il cervello, ma di spostare l’attenzione: dal rimuginio al respiro, dalle preoccupazioni alle sensazioni del corpo, dal futuro al presente.

            Le tecniche da provare subito

            Ecco alcuni esercizi semplici da fare a casa, senza attrezzature e senza competenze particolari:

            1) Respirazione 4-4-6

            Indicata per rallentare il battito e sciogliere la tensione.

            • inspira dal naso per 4 secondi
            • trattieni l’aria 4 secondi
            • espira lentamente 6 secondi
              Ripetere 4-6 volte.

            2) Body scan

            Distesi, occhi chiusi: si passa mentalmente una “torcia” su ogni parte del corpo, dai piedi alla testa.
            Osserva tensioni e lascia andare senza giudizio.
            Utile per spegnere la ruminazione mentale.

            3) Mindfulness dei suoni

            Attenzione ai rumori circostanti: respiro, silenzio, rumore lontano.
            Accettarli invece di combatterli aiuta a ridurre la reattività allo stress.

            4) Il pensiero-ancora

            Quando arriva un pensiero molesto (“E se domani…?”), invece di inseguirlo:

            • riconoscilo
            • etichettalo: «Ecco un pensiero di preoccupazione»
            • torna al respiro
              È un metodo clinicamente validato per gestire l’ansia notturna.

            Quando praticarla

            La mindfulness non agisce come un interruttore immediato, ma come una palestra mentale: più si allena il cervello, più si abitua a rilassarsi. Bastano 10-15 minuti al giorno, meglio se la sera, in un rituale privo di schermi e luci forti.

            Consigli pratici:

            • Smartphone lontano dal letto
            • Luci calde e ambiente fresco
            • Niente notifiche o contenuti stimolanti prima di dormire
            • Routine regolare: stesso orario per addormentarsi e svegliarsi

            Una cura senza controindicazioni

            Mentre i farmaci per dormire possono generare dipendenza o tolleranza, la mindfulness non ha effetti collaterali rilevanti ed è raccomandata da specialisti del sonno come supporto alle terapie tradizionali. In molti casi, può essere il primo passo prima di ricorrere a cure farmacologiche.

            Quando il disturbo persiste per settimane, però, è importante chiedere aiuto a un medico o a uno specialista del sonno: insonnia, ansia e depressione sono strettamente correlate e non vanno sottovalutate.

            Dormire bene è un’abitudine

            Ascoltare il proprio corpo, imparare a fare spazio alla calma, riconoscere che spegnere il mondo esterno è possibile: sono piccoli gesti che, ripetuti ogni sera, trasformano il sonno da nemico a complice.

            L’insonnia non è una colpa né una condanna.
            È un segnale — e la consapevolezza può diventare la via per spegnerlo dolcemente.

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              Craving, il desiderio che accende il cervello: capire e gestire la spinta alla dipendenza

              Dalle sostanze ai comportamenti compulsivi, il craving è un bisogno improvviso e intenso che può riaccendere la dipendenza anche dopo anni di astinenza. Le neuroscienze spiegano perché nasce e come affrontarlo con strategie terapeutiche mirate.

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                Un impulso che parte dal cervello

                In psicologia clinica, il termine craving indica un desiderio intenso, quasi irresistibile, di assumere una sostanza o di ripetere un comportamento che in passato ha generato piacere o sollievo. È un’esperienza comune nei disturbi da uso di sostanze — come alcol, nicotina, cocaina o oppiacei — ma anche nelle dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo, il cibo o l’uso compulsivo di internet.

                A livello biologico, il craving è una risposta del cervello ai sistemi di ricompensa, governati da neurotrasmettitori come dopamina e serotonina. Queste sostanze chimiche regolano la motivazione, il piacere e la memoria emotiva: quando vengono alterate da un’esperienza di forte gratificazione, il cervello “impara” ad associare quella sensazione a un segnale di benessere immediato, creando una traccia difficile da cancellare.

                Perché si manifesta anche dopo molto tempo

                Uno degli aspetti più insidiosi del craving è la sua capacità di riemergere anche dopo anni di astinenza. Gli stimoli che lo innescano — un odore, una canzone, un luogo o un’emozione — riattivano la memoria della gratificazione passata. Gli esperti parlano di “memoria del piacere”, una sorta di scorciatoia che il cervello utilizza nei momenti di stress o vulnerabilità emotiva.

                Secondo il National Institute on Drug Abuse (NIDA), questa riattivazione può avvenire per via di cambiamenti duraturi nei circuiti neuronali, in particolare nell’amigdala e nella corteccia prefrontale, aree coinvolte nel controllo delle emozioni e nelle decisioni razionali.

                Il craving, dunque, non è un segno di debolezza o mancanza di volontà, ma una reazione fisiologica di adattamento. Comprenderlo in questa chiave è essenziale per ridurre il senso di colpa e favorire un approccio terapeutico più realistico e compassionevole.

                Come si affronta: strategie e terapie

                Gestire il craving richiede un lavoro su più livelli. Le tecniche cognitivo-comportamentali aiutano a riconoscere i pensieri automatici e a sostituirli con risposte più consapevoli. Il mindfulness training — ossia la consapevolezza del momento presente — si è dimostrato efficace nel ridurre l’intensità dell’impulso, così come l’esercizio fisico regolare, che stimola la produzione naturale di dopamina e endorfine.

                Ma da solo, il controllo mentale non basta. Nelle fasi iniziali dell’astinenza, è fondamentale il supporto di professionisti e di una rete terapeutica integrata, che includa psicologi, psichiatri e gruppi di sostegno. Gli interventi farmacologici — come quelli che modulano i recettori dopaminergici o serotoninergici — possono ridurre l’urgenza del desiderio e migliorare l’aderenza ai percorsi di disintossicazione.

                Dal controllo alla consapevolezza

                Superare il craving non significa eliminarlo del tutto, ma imparare a riconoscerlo e gestirlo. Gli specialisti dell’Istituto Europeo delle Dipendenze (IEuD) sottolineano che monitorare gli episodi, annotare i fattori scatenanti e parlarne apertamente aiuta a “ridurre il potere” dell’impulso. Con il tempo, la persona costruisce una nuova relazione con sé stessa e con le proprie emozioni, trasformando il bisogno in conoscenza di sé.

                La chiave, quindi, non è reprimere il desiderio, ma comprenderlo: solo così si può spezzare il legame tra impulso e azione. In questa prospettiva, la libertà non coincide con l’assenza di craving, ma con la capacità di scegliere consapevolmente come rispondere a esso.

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