Arte e mostre
Andrea Murdock Alpini: «Esplorare il mondo sommerso è una necessità per conoscere noi stessi e il nostro passato»
Un’esperienza unica nel mondo sommerso, tra relitti, grotte e miniere allagate, raccontata dall’esploratore subacqueo Andrea Murdock Alpini il 12 novembre al Goggler Club di Milano

L’esploratore Andrea Murdock Alpini condividerà le sue incredibili esperienze di ricerca subacquea, raccontando storie affascinanti e inedite dalle sue spedizioni in luoghi iconici come il relitto dell’Andrea Doria, il Mar Baltico e le grotte allagate di Romania e Russia. Un appuntamento imperdibile per gli appassionati di avventura e storia.
Il Goggler Club Milano ospiterà Andrea Murdock Alpini, esploratore subacqueo di fama internazionale, per una conferenza che promette di incantare il pubblico con storie di ricerca, avventura e passione per il mondo sommerso. Martedì 12 novembre 2024, alle ore 20:30, l’incontro avrà luogo presso il Palazzo delle Federazioni del CONI a Milano, e sarà un’occasione unica per scoprire i retroscena di alcune delle sue spedizioni più affascinanti, raccontate attraverso filmati e fotografie tratte dai suoi libri “Andrea Doria: un lembo di patria” e “Immersioni Selvagge” (editi da Magenes). La conferenza sarà accompagnata da numerosi filmati inediti e immagini suggestive, che raccontano paesaggi solitari e incontaminati dove il rapporto tra il subacqueo e la natura diventa protagonista. L’ingresso è gratuito, poiché i posti sono limitati, è consigliata la prenotazione inviando una email a info@goggler.it.
Abbiamo rivolto delle domande all’esploratore Andrea Murdock Alpini, insignito del prestigioso “Tridente D’Oro”, che guiderà il pubblico in un viaggio emozionante tra relitti, grotte e miniere allagate. Si partirà dal celebre relitto dell’Andrea Doria, documentato nella spedizione “Un lembo di patria” con PHY Diving Equipment, patrocinata dal Comune di Genova e dalla Fondazione Ansaldo. Il viaggio proseguirà nel Mar Baltico, dove sono stati esplorati navi affondate nel XVI secolo, e in grotte allagate tra Romania e Russia, oltre alle miniere sommerse in Sud Africa. Murdock Alpini racconterà anche le sue immersioni nel Mar Mediterraneo, nello Stretto di Messina, tra antichi porti romani, foreste di gorgonie e il famoso relitto della Motonave Viminale, uno dei più belli d’Italia.






Cosa ti ha spinto a intraprendere un percorso così avventuroso e ricco di sfide come l’esplorazione subacquea?
L’esplorazione subacquea per me rappresenta un’opportunità per conoscermi meglio e per scoprire il mondo. Attraverso questa pratica, posso sviluppare nuove tecniche e materiali, grazie anche al marchio PHY Diving, con cui progettiamo attrezzature per le immersioni. Inoltre, l’esplorazione subacquea mi permette di approfondire temi come la geologia, la biologia, la storia, la geografia e gli insediamenti umani, inclusi migrazioni e fattori sociali. In sostanza, le immersioni sono un mezzo per esplorare e comprendere il mondo sotto vari aspetti.
Come è nata l’idea di creare PHY Diving Equipment e in che modo questo marchio si distingue nel panorama dell’attrezzatura subacquea?
PHY Diving è nato dalla mia esigenza di sviluppare attrezzature specifiche per le spedizioni
subacquee, poiché non esistevano prodotti adeguati. Il primo prodotto creato è stato un cappuccio subacqueo speciale, testato in condizioni estreme durante un’esplorazione in una grotta degli Urali, con temperature fino a -25°C e acqua a 4°C. Successivamente, ho focalizzato la ricerca su attrezzature leggere e termiche, ideali per ambienti freddi, come indumenti sottili ma molto caldi. Il nostro fiore all’occhiello sono le mute subacquee, progettate con materiali e design innovativi, per migliorare qualità e performance. Tutti i nostri prodotti sono rigorosamente made in Italy. Il nome PHY è ispirato alla lettera greca “phi” e alla sezione aurea, simboli di armonia e bellezza, che riflettono i principi che guidano il nostro lavoro. La sfida più grande è stata l’esplorazione dell’Andrea Doria, che ha spinto la ricerca di soluzioni ancora più innovative.
Quali sono state le maggiori sfide incontrate durante la spedizione sull’Andrea Doria e quali scoperte sono emerse?
La spedizione sull’Andrea Doria è stata una missione complessa, patrocinata dal Comune di Genova e dalla Fondazione Ansaldo, con l’obiettivo di studiare lo stato di conservazione del relitto, in vista della sua probabile scomparsa nei prossimi 15-20 anni. Le riprese subacquee hanno documentato la nave e raccontato la sua storia, suscitando un forte impatto mediatico. Un elemento innovativo della spedizione è stata l’immersione nel relitto della prua della Stockholm, la nave svedese coinvolta nell’incidente con l’Andrea Doria, che ha aggiunto una prospettiva unica sulla tragedia storica.
Perché hai scelto di esplorare i relitti del Mar Baltico e quali sono le particolarità di questi siti archeologici sommersi?
Ho scelto di esplorare i relitti nel Mar Baltico per la loro straordinaria conservazione, dovuta alle acque fredde e a bassa salinità. Ho esplorato siti archeologici, come quelli nelle acque di Dalarö (sud di Stoccolma), dove giacciono navi in legno del XV e XVI secolo, e l’arcipelago di Åland, con relitti più recenti risalenti dalla fine dell’Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale, inclusi rompighiaccio. Il Mar Baltico mi affascina anche per i suoi paesaggi nordici. A dicembre, organizzerò una nuova spedizione a Narvik, in Norvegia, per documentare relitti di navi da guerra affondate durante la Seconda Guerra Mondiale. Questi progetti si inseriscono in studi scientifici sulla fisiologia del subacqueo in ambienti freddi e sulla decompressione, condotti in collaborazione con il CNR di Milano Niguarda e il Master di Medicina Iperbarica di Padova.
Quali sono le differenze principali tra esplorare grotte allagate e miniere sommerse? Quali sono i rischi maggiori associati a questi ambienti?
Le differenze principali tra grotte sommerse e miniere allagate riguardano la loro origine e stabilità. Le miniere, create dall’uomo, tendono a diventare instabili dopo l’abbandono, con rischi strutturali e frane, rendendole ambienti pericolanti. Le grotte sommerse, di origine naturale, sono generalmente più stabili. I rischi comuni includono la profondità, il sedimento e l’instabilità. Nelle miniere, l’instabilità strutturale è il pericolo maggiore, mentre nelle grotte le correnti sotterranee possono essere rischiose, con la possibilità di piene improvvise. Se moderate, però, mantengono il flusso e l’acqua pulita.



Cosa rende così affascinante e unico lo Stretto di Messina dal punto di vista subacqueo? Lo Stretto di Messina è un ecosistema subacqueo unico, dove si incontrano il mare Ionio a sud e il Tirreno a nord, creando un “imbuto” che genera correnti particolari e fondali ricchi di
biodiversità. Questo Stretto è stato abitato da diverse popolazioni nel corso dei secoli, lasciando tracce nei fondali, dai relitti moderni a quelli più antichi, inclusi resti archeologici. Le forti correnti mantengono l’acqua cristallina, favorendo una ricca varietà di fauna e flora, con specie autoctone uniche. È fondamentale tutelare e preservare questo straordinario ecosistema per le future generazioni.
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Quali sono le qualità fondamentali che un esploratore subacqueo deve possedere?
Un esploratore subacqueo deve possedere qualità essenziali per affrontare le sfide del mondo sommerso. La curiosità è fondamentale, spingendo a scoprire l’ignoto, mentre la pazienza e le competenze organizzative sono cruciali per coordinare risorse e attrezzature in ambienti difficili. L’autocontrollo è necessario per gestire i rischi e mantenere la calma, ma deve essere equilibrato dal coraggio di superare i propri limiti con prudenza. La capacità di gestire le emozioni è altrettanto importante, poiché solo con queste qualità un esploratore può ottenere nuove conoscenze e arricchire la storia dell’esplorazione subacquea.
Quali sono i tuoi progetti futuri e quali nuove frontiere dell’esplorazione subacquea vorresti affrontare?
Il mio lavoro di esploratore subacqueo è strettamente legato allo sviluppo della tecnica, con un focus particolare sull’area grecanica della Calabria, dove sto esplorando fondali ricchi di storia. Ho avviato un progetto chiamato Grecanic Wreak Valley, che mira a raccontare la connessione tra la geografia storica della regione e i numerosi relitti sommersi, legati alla Magna Grecia. A lungo termine, mi sto preparando per una spedizione sul Britannic, nave gemella del Titanic, affondata nel 1916. L’obiettivo è esplorare il relitto e approfondire la storia poco conosciuta di questa nave e delle sue sorelle, il Titanic e l’Olympic. Sto preparando un libro che non solo parlerà del relitto, ma esplorerà anche il ruolo delle donne a bordo delle navi all’inizio del Novecento, offrendo un’analisi nuova, che unisce storia, tecnica e dimensione sociale.
Come concili la tua passione per l’esplorazione con la necessità di divulgare le conoscenze acquisite al grande pubblico?
Per me, esplorare è una passione che va oltre la scoperta personale: è una necessità di condividere ciò che vivo. La divulgazione è un obiettivo fondamentale dell’esplorazione, perché credo che la conoscenza debba essere restituita al pubblico. Quando esploro, lo faccio per fare ricerca e poi condividere i risultati tramite report, articoli, conferenze, libri e filmati. Non mi limito all’aspetto tecnico dell’immersione, ma cerco di raccontare storie più ampie che comprendano geografia, storia, economia e relazioni umane. La mia passione per la comunicazione mi permette di coinvolgere anche chi non è subacqueo, offrendo loro la possibilità di scoprire nuovi mondi e magari intraprendere esperienze simili. Voglio suscitare curiosità e incoraggiare gli altri a esplorare e a guardare il mondo da nuovi punti di vista.
Qual è il tuo punto di vista sulla tutela e la conservazione dei siti archeologici sommersi?
I siti archeologici sommersi sono una parte essenziale del nostro patrimonio culturale e vanno tutelati e valorizzati correttamente. Non basta catalogarli, ma bisogna gestirli in modo che siano fruibili e responsabili. Le immersioni archeologiche, pur essendo affascinanti, richiedono grande preparazione e rispetto per il valore dei beni, alcuni dei quali vanno solo osservati per preservarne l’integrità. È fondamentale collaborare con le soprintendenze archeologiche e coinvolgere i giovani in progetti che sensibilizzino sull’importanza di preservare e valorizzare il nostro patrimonio sommerso. Solo così i siti archeologici possono avere un vero significato per la collettività e essere trasmessi alle generazioni future.
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Quale consiglio daresti ai giovani che desiderano seguire le tue orme?
Il mio consiglio è di essere estremamente curiosi e di credere nei propri sogni, ma per realizzarli è necessario fare rinunce e concentrarsi su un unico obiettivo, eliminando il superfluo. Raggiungere un sogno è difficile, tra tentazioni e difficoltà, ma solo con grande determinazione e voglia di successo si può riuscire. L’esplorazione subacquea è affascinante perché unisce molte discipline, dalla scienza alla tecnica, all’arte. Non è necessario partire da una formazione umanistica, ma qualsiasi campo di partenza può portare alla ricerca sotto acqua. Tuttavia, la maggior parte del lavoro di ricerca si svolge in superficie, tra studio e lettura, e il successo arriva solo con pazienza, determinazione e convinzione.
Quali sono le sfide e le opportunità che si presentano per l’esplorazione subacquea nei prossimi anni?
Le sfide e le opportunità per l’esplorazione subacquea nei prossimi anni sono due principali. Da un lato, c’è la possibilità di esplorare in profondità grazie a tecnologie avanzate, come batiscafi e strumenti sofisticati. Dall’altro, anche a pochi metri di profondità, dove si concentra gran parte della storia umana, ci sono enormi possibilità di scoperta. Il mare non solo ci permette di comprendere il nostro passato, ma anche di costruire il nostro futuro.
Qual è l’oggetto più prezioso che hai identificato durante le tue immersioni?
Durante le immersioni ho scoperto tanti dettagli affascinanti. Alcuni piccoli elementi, come un’etichetta su un motore che identifica un relitto, o oggetti storici come piatti, cristalli e equipaggiamenti antichi, mi hanno emozionato. In Mar Baltico, ho trovato boccali da birra del ‘600 e scarpe di ufficiali ottocenteschi. Tuttavia, il ritrovamento più emozionante è stato in un lago in provincia di Varese, il lago di Monate, dove ho esplorato una palafitta preistorica risalente all’età del bronzo. I tronchi dei pali che costituivano le fondamenta del villaggio, insieme a tracce di vita quotidiana come punte di freccia e macine, mi hanno permesso di connettermi con una civiltà antica. Questo ritrovamento, a soli 2-3 metri di profondità, mi ha ricordato che a volte l’esplorazione non riguarda la profondità, ma il significato di ciò che scopriamo.
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Arte e mostre
Wu Keyang, il pittore che unisce Oriente e Occidente: «La mia vita è come il mio nome: sembra semplice, ma ha un significato nascosto»
La sua missione è chiara: superare il conflitto tra civiltà attraverso la forza universale dell’arte. Dalla pittura a olio incompresa in Oriente ai volti senza pupille di Modigliani, l’artista rivela come il pensiero di Jung e la spiritualità del Tao abbiano forgiato il suo percorso. Un’intervista profonda, tra visioni, rinascite e la convinzione che l’arte non appartenga a un popolo ma all’umanità intera.

Apre il sipario il suono di un nome: Wu. Un cognome che in cinese si pronuncia sempre allo stesso modo, ma può essere scritto con ideogrammi profondamente diversi.
Può essere 吴, semplice e comune. Oppure 武, il segno che fonde la lancia (戈) e il fermare (止), e che dunque non significa guerra, ma “arte di fermarla”. E infine 無, il vuoto, l’assenza, il Tao che non si può dire. Tre simboli per un solo suono.
E forse anche tre anime per un solo artista. Perché in Wu Keyang ogni pennellata è soglia, ogni segno è un passaggio tra mondi. Ciò che sembra noto, nasconde una verità più profonda. La sua intera opera, come il suo nome, è un invito a guardare oltre la superficie.
Cosa resta oltre la forma? Quale voce sussurra nel silenzio tra spirito e materia? A tentare di rispondere, con colori e visioni, è proprio Wu Keyang, protagonista della mostra personale “Beyond the Form, Within the Cosmos”, che si terrà a Firenze dal 10 luglio al 1° agosto 2025, nelle sale storiche di Palazzo Bellini (Lungarno Soderini 3).



L’evento, promosso da Hestia Gallery, rappresenta la terza tappa italiana dell’artista negli ultimi tre anni, dopo le esposizioni a Palazzo Pisani di Venezia e alla Garibaldi Gallery di Milano. Un percorso coerente e crescente, che sta contribuendo a far conoscere anche in Occidente il linguaggio originale e profondo di questo pittore “filosofo”.











In esposizione, oltre 30 grandi dipinti a olio e quasi 80 disegni inediti appartenenti alla serie “super-imaginale”: un progetto che scava nel rapporto tra essere umano e cosmo, con un approccio che non è mai puramente estetico, ma sempre esistenziale. Le opere propongono uno spazio visivo di meditazione, dove i confini tra materia e pensiero si dissolvono, e il segno pittorico diventa rito, invocazione, passaggio.










Wu Keyang è nato nel 1973 a Zhao’an, nella provincia del Fujian, e ha studiato pittura a olio presso l’Università di Xiamen. Dal 2009 ha scelto di vivere in viaggio, dividendosi tra Asia ed Europa, visitando templi, grotte, musei e luoghi di natura incontaminata. Ha fatto del disegno un esercizio quotidiano, quasi un respiro costante, in cui annotare visioni e riflessioni.
Ogni foglio, ogni tela, racconta una ricerca interiore senza fine. Il suo lavoro, difficilmente etichettabile, unisce la spiritualità orientale al segno occidentale, con rimandi alla calligrafia, all’astrazione lirica, all’informale. Ma più che alle correnti, Wu sembra rispondere a un’urgenza personale: trovare una forma che non sia prigione, ma soglia.
Curatori dela rassegna sono Stefano Bigalli, Andrea Betro e Wu Changbei. La mostra “Beyond the Form, Within the Cosmos” si offre così come un dialogo aperto tra Oriente e Occidente, tempo e spirito, visibile e invisibile. Un’occasione rara per incontrare un artista che non cerca l’effetto, ma la verità.
Ingresso libero. Orari di apertura: da lunedì a sabato, 10:30–12:30 e 16:00–18:00.
Wu Keyang, dalle tue opere emerge chiaramente un affascinante contrasto tra culture orientali e occidentali. Quando hai cominciato a percepirlo nella tua vita? E in quali circostanze hai sentito il bisogno di diventare un ponte tra questi due mondi?
È una domanda che porto dentro da tanto tempo. In realtà, da bambino già percepivo certe differenze tra Oriente e Occidente, ma è stato durante gli anni dell’università che ho davvero preso coscienza di questo “conflitto”. In quel periodo ho cominciato a studiare la filosofia occidentale: Socrate, Platone, Aristotele, fino ad arrivare a Hegel, Nietzsche… Ma colui che mi ha toccato più profondamente è stato Carl Jung. Jung è stato, per me, il primo che ha saputo utilizzare il pensiero logico occidentale per spiegare e comprendere il pensiero orientale. Non era solo uno studioso, era anche un praticante, un artista. Ha persino dipinto. Una delle sue opere più importanti, Il Libro Rosso, si ispira direttamente a un testo classico taoista cinese, Il Classico della Vita Dorata di Taiyi. È lì che ho sentito che lui stava facendo quello che io, inconsciamente, desideravo fare: unire due mondi.
È stata la filosofia a farti scattare questa consapevolezza?
Non solo la filosofia, ma anche la mia esperienza concreta come pittore. Dipingo a olio, e spesso ho notato che il pubblico orientale non riesce a comprendere appieno questo linguaggio visivo. Molti guardano solo se il dipinto “somiglia” alla realtà, se sembra una fotografia. Ma non colgono la profondità spirituale e filosofica che sta dietro la pittura occidentale, soprattutto quella classica e medievale. Allo stesso tempo, anche molti occidentali non comprendono a fondo la cultura orientale: la vedono come qualcosa di “mistico”, ma distante, quasi esotico. Io vedo in questo una grande frattura. Per me l’arte non è solo immagine, è trasmissione di spirito. Come l’arte classica occidentale, che non è solo tecnica ma un mezzo per cercare il Vero.
Che ruolo ha la cultura tradizionale cinese nella tua arte?
È qualcosa che ho nel sangue. Ho sempre praticato e studiato profondamente le tradizioni spirituali del Confucianesimo, del Taoismo e del Buddhismo. In particolare la coltivazione interiore, quella che chiamiamo “coltivare il cuore”. È una forma di lavoro spirituale che eleva la coscienza e la vita stessa. Non è solo teoria: l’ho vissuto, l’ho praticato, l’ho sperimentato.
Inoltre, ho vissuto tre esperienze di pre-morte. In quei momenti ho toccato qualcosa di molto profondo, come se il cielo mi avesse dato un’altra possibilità, una chiamata. Non era ancora il mio momento di andarmene. Da allora, ho sentito che avevo una missione: dipingere tutto ciò che avevo vissuto e compreso, per condividerlo con il mondo.
Cosa significa per te “missione”?
Penso che la mia missione sia quella di colmare la distanza tra Oriente e Occidente. Di mostrare, attraverso l’arte, che le due visioni del mondo – anche se a volte sembrano opposte – in realtà cercano la stessa verità. La cultura, secondo me, non ha confini. Non appartiene a un popolo, a una razza, a una nazione. La cultura vera, quella che cerca il Bello, il Bene e il Vero, è patrimonio dell’umanità. E l’arte è il linguaggio perfetto per superare le barriere: può comunicare a tutti, al di là delle lingue.
Una curiosità: il tuo cognome crea qualche equivoco, giusto?
Sì, è vero! Il mio cognome si pronuncia allo stesso modo di un altro carattere cinese, ma è scritto con un ideogramma diverso. È un dettaglio curioso, ma significativo: come tutta la mia vita, che sembra una cosa familiare, ma in realtà ha un significato più profondo.
Per te l’arte ha un valore spirituale? Può favorire il dialogo tra civiltà?
Assolutamente sì. L’arte, per me, non è solo una questione estetica o visiva. È uno strumento spirituale, un canale attraverso cui le anime di diverse civiltà possono comunicare. Il mio lavoro non vuole semplicemente rappresentare la superficie delle culture, ma mettere in dialogo le anime stesse di due civiltà diverse.
Quindi trasmette qualcosa che va oltre il visibile?
Esattamente. Anche se i colori, le luci, le pennellate nelle mie opere sono importanti, la cosa più essenziale è ciò che sta dietro: la componente spirituale. Lo spirito. Questo spirito non si vede con gli occhi, ma si percepisce con l’anima. Per esempio Modigliani: i suoi volti hanno il collo allungato, gli occhi spesso senza pupille. Per molti può sembrare una scelta stilistica, ma in realtà è un modo per rappresentare lo spirito umano, non solo l’apparenza.
Ti ispiri anche alla filosofia taoista?
Sì. Il pensiero taoista è fondamentale per me. Dice: “Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao”. Questo significa che la verità ultima non può essere spiegata con le parole. Ma l’arte può avvicinarsi a quella verità. Il mio scopo è cercare di arrivare all’essenza, all’origine, al nucleo invisibile del mondo. Quando dipingo, cerco di trovare un linguaggio visivo che possa esprimere quell’essenza: con linee, colori, forme o simboli.
Il pubblico comprende subito le tue opere?
Non sempre. Anzi, a volte ci vogliono mesi, o addirittura anni, prima che qualcuno comprenda veramente il significato profondo di un mio quadro. Ma non è importante. L’opera nasce da un’esperienza vissuta nell’attimo presente: una visione del mondo, della natura, dell’universo. È un’esplosione interiore. Non mi interessa spiegare tutto: voglio che chi guarda trovi, nel tempo, una propria connessione con quella energia.
Hai citato Modigliani, ma anche Picasso…
Sì. Picasso, Modigliani e altri maestri non si sono fermati alla rappresentazione realistica. Hanno decostruito le immagini per raggiungere un altro livello, quello dello spirito. Hanno cercato, come me, un ponte tra forma e essenza, tra materia e spirito.
Quando ti sei sentito, per la prima volta, un artista “del mondo”?
Posso dire che è successo nel 2015, quando ho vissuto la mia terza esperienza vicina alla morte. Tornato indietro da quel confine estremo, ho capito che non ero più limitato dallo spazio-tempo. Mi sono sentito parte di una missione umana più grande: rappresentare la ricerca universale della verità, della bontà e della bellezza. L’arte, specialmente la pittura, precede la lingua e il testo. Non ha bisogno di parole per essere compresa. Per questo, è universale. E in quel momento ho sentito che il mio lavoro non era più solo “cinese” ma umano.
Com’è la situazione dell’arte contemporanea cinese oggi? In che direzione va?
Come artista orientale, posso dire che oggi in Cina coesistono due sistemi artistici. Uno è quello “istituzionale”, legato allo stato e ai temi ufficiali. L’altro è quello degli artisti indipendenti, come me. Quest’ultimo è molto difficile da sostenere in Cina. Per molto tempo era quasi impossibile sopravvivere fuori dal sistema. Ma io, dopo tre esperienze di vita e morte, e con la mia dedizione assoluta all’arte e alla spiritualità, ho trovato persone nel mondo della cultura, dell’impresa e della ricerca che mi hanno sostenuto. Non è facile, ma è possibile. Ora, però, vedo segnali positivi: giovani artisti nati negli anni ‘80 e ‘90 stanno emergendo con una loro visione, grazie all’accesso a molte informazioni e alla possibilità di confrontarsi con il mondo. Alcuni di loro stanno raggiungendo risultati significativi. Non è un percorso facile, ma è promettente.
Molti ancora associano l’arte cinese a soggetti convenzionali, istituzionali. Ma l’arte non dovrebbe essere solo riproduzione o propaganda. Dal mio punto di vista, l’arte deve nascere dall’autentica comprensione della propria vita e del proprio tempo. Negli anni ‘80 ci fu una prima ondata di arte contemporanea in Cina. Alcuni di quei nomi sono diventati famosi anche in Occidente, spesso grazie a un legame con temi politici. Ma oggi c’è un cambiamento. Dalla fine degli anni 2000, sempre più artisti cercano le radici della nostra cultura. Si sta ritrovando fiducia nel patrimonio culturale cinese.
Anch’io, per anni, ho dipinto soggetti buddisti e religiosi, usando tecniche classiche. Erano molto apprezzati e valutati in Cina. Ma dopo le mie esperienze profonde, la mia arte si è trasformata. È diventata una ricerca dell’essenza. Una ricerca spirituale. Oggi stanno emergendo nuovi artisti indipendenti, con visione propria. Questa è una nuova era per l’arte contemporanea cinese, e io sono fiducioso nel suo futuro.
Arte e mostre
Wu Keyang, il pittore dell’universo interiore, in mostra a Firenze
Considerato una delle voci più originali nel panorama dell’arte contemporanea cinese, Wu Keyang coniuga misticismo e segno, forma e intuizione, offrendo una visione pittorica sospesa tra il visibile e l’invisibile.

Cosa resta oltre la forma? Quale voce sussurra nel silenzio tra spirito e materia? A tentare di rispondere, con colori e visioni, è l’artista cinese Wu Keyang, protagonista della mostra personale “Beyond the Form, Within the Cosmos”, che si terrà a Firenze dal 10 luglio al 1° agosto 2025, nelle sale storiche di Palazzo Bellini (Lungarno Soderini 3).
L’evento, promosso da Hestia Gallery, rappresenta la terza tappa italiana dell’artista negli ultimi tre anni, dopo le esposizioni a Palazzo Pisani di Venezia e alla Garibaldi Gallery di Milano. Un percorso coerente e crescente, che sta contribuendo a far conoscere anche in Occidente il linguaggio originale e profondo di questo pittore “filosofo”.



La mostra verrà inaugurata giovedì 10 luglio alle ore 19:00, con la presenza dell’artista e dei curatori Stefano Bigalli, Andrea Betro e Wu Changbei.
In esposizione, oltre 30 grandi dipinti a olio e quasi 80 disegni inediti appartenenti alla serie “super-imaginale”: un progetto che scava nel rapporto tra essere umano e cosmo, con un approccio che non è mai puramente estetico, ma sempre esistenziale. Le opere propongono uno spazio visivo di meditazione, dove i confini tra materia e pensiero si dissolvono, e il segno pittorico diventa rito, invocazione, passaggio.
Wu Keyang è nato nel 1973 a Zhao’an, nella provincia del Fujian, e ha studiato pittura a olio presso l’Università di Xiamen. Dal 2009 ha scelto di vivere in viaggio, dividendosi tra Asia ed Europa, visitando templi, grotte, musei e luoghi di natura incontaminata. Ha fatto del disegno un esercizio quotidiano, quasi un respiro costante, in cui annotare visioni e riflessioni. Ogni foglio, ogni tela, racconta una ricerca interiore senza fine.
Il suo lavoro, difficilmente etichettabile, unisce la spiritualità orientale al segno occidentale, con rimandi alla calligrafia, all’astrazione lirica, all’informale. Ma più che alle correnti, Wu sembra rispondere a un’urgenza personale: trovare una forma che non sia prigione, ma soglia.
La mostra “Beyond the Form, Within the Cosmos” si offre così come un dialogo aperto tra Oriente e Occidente, tempo e spirito, visibile e invisibile. Un’occasione rara per incontrare un artista che non cerca l’effetto, ma la verità.
Ingresso libero.
Orari di apertura: da lunedì a sabato, 10:30–12:30 e 16:00–18:00.
CHI È WU KEYANG
Wu Keyang è nato nel 1973 a Zhao’an, nella provincia del Fujian, in Cina. Si è formato in pittura a olio presso l’Università di Xiamen, per poi sviluppare un linguaggio artistico personale e riconoscibile, che unisce il pensiero filosofico orientale alle tecniche pittoriche occidentali.
Dal 2009 vive e lavora tra Asia ed Europa, attraversando musei, monasteri, siti archeologici e paesaggi remoti, alla costante ricerca di connessioni tra arte, spiritualità e natura. Nei suoi viaggi, ha fatto del disegno una pratica quotidiana e ininterrotta, annotando visioni, impressioni e riflessioni che diventano spesso la base per i suoi lavori su tela.
Arte e mostre
Lutto nel mondo dell’arte italiana e mondiale: si è spento Arnaldo Pomodoro
Nella serata di ieri, presso la sua casa di Milano, ci ha lasciati Arnaldo Pomodoro. Oggi avrebbe festeggiato 99 anni. Con lui se ne va uno dei più grandi artisti italiani del Novecento, scultore visionario e inconfondibile, celebre in tutto il mondo per le sue monumentali “sfere di bronzo”, opere che hanno ridefinito il linguaggio della scultura contemporanea. La notizia della sua scomparsa è stata diffusa dalla Fondazione Arnaldo Pomodoro, da lui stesso fondata nel 1995, che oggi ne custodisce il lascito artistico e culturale. «Il mondo dell’arte perde una delle sue voci più lucide e originali», ha dichiarato la direttrice Carlotta Montebello. «Pomodoro lascia un’eredità imponente: un pensiero plastico che continua a interrogare il presente».

Nato a Montefeltro di Romagna nel 1926, Pomodoro ha attraversato quasi un secolo con una ricerca coerente e al tempo stesso in continua evoluzione. Le sue opere fondono rigore geometrico e tensione interiore, bellezza e inquietudine, facendo della materia un mezzo di indagine filosofica. Il bronzo, il suo materiale d’elezione, è trattato come fosse carne viva: inciso, fratturato, scavato, trasformato in paesaggio interiore.
Famoso per le sue sfere
Le celebri Sfere con sfera, visibili in musei e spazi pubblici di tutto il mondo – da New York a Dublino, da Mosca a Tokyo – sono diventate icone del nostro tempo. Una superficie liscia e perfetta si apre, si lacera, rivelando ingranaggi, ferite, meccanismi: simboli di un’umanità complessa, in equilibrio precario tra ordine e caos, luce e buio.
Una carriera costellata di riconoscimenti
Dagli esordi nella Milano degli anni Cinquanta, Pomodoro ha costruito un linguaggio unico, distinguendosi da ogni corrente e moda. Ha ricevuto alcuni dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali, come il Gran Premio Henry Moore (1981) e il Praemium Imperiale conferito dalla Japan Art Association (1990). Tra le sue opere più rappresentative si ricordano Disco Solare (Mosca, 1991), Papyrus (Darmstadt, 1992), Lancia di Luce (Terni, 1995), Portale del Duomo di Cefalù (1998) e Cuneo con frecce (Torino, 2007).
Scenografie, architettura e spiritualità
Pomodoro non si è mai limitato alla scultura. Ha esplorato con passione la scenografia teatrale, firmando allestimenti memorabili come Semiramide di Rossini al Teatro dell’Opera di Roma (1982), L’Orestea a Gibellina (1983–85), La Passione di Cleopatra (1989) e Un ballo in maschera all’Opernhaus di Lipsia (2005). Anche l’arte sacra ha avuto un ruolo centrale nella sua visione, come testimoniano le sue opere nella Chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo e nel Duomo di Cefalù.
Il legame con Pesaro e la “Sfera Grande”
Tra i luoghi più legati alla memoria pubblica di Pomodoro c’è sicuramente Pesaro. Qui, in piazzale della Libertà, si erge la maestosa Sfera Grande, fusione in bronzo realizzata nel 1998, divenuta in breve tempo un simbolo della città. I pesaresi la chiamano affettuosamente “la palla di Pomodoro”, punto di ritrovo, riferimento urbano e icona identitaria. L’originale, creato nel 1967 per l’Expo di Montreal, è oggi collocato di fronte alla Farnesina, sede del Ministero degli Esteri.
Un’eredità viva
La Fondazione Arnaldo Pomodoro, cuore pulsante dell’attività dell’artista negli ultimi decenni, continuerà a promuoverne il pensiero e l’opera. Archivio, centro studi, spazio espositivo e luogo di formazione, la Fondazione rappresenta il futuro della memoria del Maestro. «Arnaldo Pomodoro ha saputo trasformare la materia in pensiero», ha detto ancora Montebello. «E il suo pensiero continuerà a parlare».
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