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Arte e mostre

L’artista che sfida il caos e crea ponti. Francesca Licari: «Vivo tra arte, impegno sociale e resistenza»

L’11 novembre, presso la Biblioteca di Lambrate a Milano, si terrà l’inaugurazione della mostra “Bisogna avere il caos dentro di sé, per generare una stella danzante” di Francesca Licari, artista siciliana di grande talento. Un evento che celebra l’arte come strumento di riflessione sociale, integrazione culturale e impegno civile.

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    dall’11 al 23 novembre, a Lambrate, in via Valvassori Peroni 53, nel Municipio 3 di Milano, dalle ore 18.30, si terrà la mostra di Francesca Licari, dal titolo “Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante”. Questo evento esclusivo celebra l’incontro tra culture e popoli, mettendo in luce il potere trasformativo dell’arte come strumento di integrazione sociale e riflessione su tematiche urgenti come la lotta contro la violenza sulle donne, la tutela dell’infanzia e la promozione della pace tra le culture.

    La mostra non si limita a un’espressione estetica: Francesca Licari è anche una creatrice di gioielli-sculture, realizzati con materiali pregiati come argento, rame e pietra lavica dell’Etna. La sua arte diventa un potente mezzo di denuncia sociale, un impegno a difesa dei diritti umani e delle minoranze. Francesca è anche presidente dell’Associazione Culturale Europea “La Gattoparda”, un’organizzazione che promuove progetti culturali in favore delle donne, dei bambini e delle comunità marginalizzate.

    La mostra si propone come un viaggio visivo ed emotivo che racconta storie di resistenza, speranza e integrazione. Le opere esposte esplorano il dialogo tra diverse culture, mettendo in luce le difficoltà ma anche la bellezza del superamento delle barriere e della costruzione di ponti di comprensione tra i popoli. Un messaggio potente che ci invita a riflettere sul cambiamento sociale necessario per creare una società più inclusiva e armoniosa.

    L’inaugurazione della mostra e i suoi ospiti

    L’inaugurazione della mostra vedrà la partecipazione di figure di spicco nel panorama culturale e sociale. Tra i presenti ci saranno Vermondo Brugnatelli, presidente dell’Associazione Internazionale Berbera, e Pap Khouma, scrittore e giornalista specializzato nella cultura africana. Saranno inoltre presenti Ornella Piluso, presidente dell’Associazione Arte da Mangiare, Gian Battista Maderna, presidente di Ucai, Marilisa Di Giovanni, storica dell’arte, e numerosi altri esperti e rappresentanti di comunità interculturali. Un contributo speciale sarà dato da Mahjouba Akik, rappresentante della comunità marocchina, e Fatima El Quafi, mediatrice interculturale e docente di lingue arabe e berbere, che affronteranno il tema dell’arte come strumento di integrazione. Il musicologo Riccardo Santangelo offrirà uno spunto interessante sulla connessione tra arte visiva e musica, due forme universali di espressione.

    Francesca è arte e impegno sociale per un mondo migliore

    Abbiamo intervistato Francesca Licari, siciliana, una figura di riferimento non solo nel mondo dell’arte, ma anche nel panorama sociale. Da anni impegnata in progetti che coniugano cultura e impegno civile, Francesca ha realizzato numerose iniziative teatrali e cinematografiche di grande valore. Un esempio significativo è il cortometraggio “Fiore di Maggio”, dedicato a Felicia e Peppino Impastato, simboli della resistenza contro la mafia.

    “Fiore di Maggio” è parte di un ampio progetto artistico e ha ricevuto il riconoscimento di candidatura al Premio Donatello nel 2022. Nel cortometraggio, Francesca esprime il suo forte messaggio di lotta contro la violenza, utilizzando la poesia come strumento di resistenza sociale e denuncia. Un’opera che ha trovato grande risonanza nelle scuole, dove è stata adottata come strumento educativo per sensibilizzare le nuove generazioni sui temi della legalità, giustizia e coraggio civile

    Francesca, la tua arte spazia dalla pittura alla scultura, ma anche alla creazione di gioielli-sculture e alla scrittura teatrale. Ma come si intrecciano questi diversi tramiti nel tuo percorso artistico?
    «Non so spiegare come avvenga, ma so che succede spontaneamente. Sento il bisogno di spaziare, di esplorare in ogni campo. La curiosità che mi guida è quella di una bambina che, curiosa, rompe un giocattolo per scoprire cosa c’è dentro. Mi piace esplorare, scoprire gli infiniti mondi che ci compongono, e la natura…
    Mi piace immergermi nel suo silenzio, dove tutto è ancora puro. Vivo per mesi immersa nel suo abbraccio, dove il gallo canta alle tre di notte (sempre in anticipo), i gatti randagi e abbandonati diventano miei compagni di vita, e la saggezza dei contadini mi insegna l’essenza della vita. La vicina che lascia i suoi raccolti dietro la porta, il mio mare che non smette mai di chiamarmi… E la mia ricerca non ha mai fine. Le mie sculture in alabastro gessato e i gioielli di pietra lavica sono il mio modo di ringraziare la madre terra. Ma più che gioielli, mi piace pensarli come doni».

    “Bisogna avere il cos dentro di sé, per generare una stella danzante”. Cosa significa per te “generare una stella danzante” e come questa metafora si collega alla tua visione dell’arte come strumento di cambiamento sociale?
    «Il mondo è nato dal caos. La perfezione risiede nel caos. Tutto nasce dal caos. Noi stessi siamo fatti di caos. La natura è stata la prima a comprenderlo, l’uomo, ancora no, non del tutto. Il cambiamento irreversibile che stiamo vivendo nel mondo sociale potrà essere sostenuto dalla consapevolezza, dalla creatività, dall’arte e dalla cultura. Sono questi i fattori indispensabili per ogni trasformazione sociale. Dobbiamo guardare ai nostri padri, prendere esempio da loro. Accettare il cambiamento significa creare una società migliore, un passo alla volta, con il contributo di ciascuno di noi».

    3.Nel corso della tua carriera, hai affrontato tematiche molto forti e significative, come la lotta contro la violenza sulle donne, la tutela dell’infanzia e l’integrazione tra le culture. Come riesci a conciliare la profondità di questi temi con la dimensione estetica della tua arte?
    «Ho affrontato, e continuo ad affrontare, tematiche sociali forti. Molte volte, le mie richieste, da artista solitaria, sembrano cadere nel vuoto. Il silenzio assordante di chi potrebbe fare di più non mi fa desistere, anzi, mi dà forza. Perché lotto così tanto? Non lo so. Sento solo che devo farlo. La paura di perdere non mi scoraggia, è la paura di non averci provato che mi spaventa davvero. A volte, la ricompensa più grande è un sorriso di un bambino, la caparbietà di continuare a sognare un mondo migliore. Il cambiamento è il risultato di diversi fattori. Ogni immigrato porta con sé un bagaglio di esperienze, fatto di tradizioni, usi e costumi, che cerca di preservare per non perdere quel filo invisibile che lo lega alla sua terra d’origine. Anche noi, in passato, abbiamo attraversato lo stesso cammino».

    4. Sei anche impegnata nel sociale, in particolare con la tua associazione culturale “La Gattoparda”. Come pensi che l’arte possa diventare un ponte per l’integrazione culturale e la costruzione di una società più inclusiva?
    «Come artista e presidente di un’associazione culturale, sono profondamente convinta che l’arte rappresenti il ponte essenziale per la creazione di una società inclusiva e aperta. L’arte ha la straordinaria capacità di abbattere le barriere, di mettere in comunicazione persone di culture e origini diverse, creando un terreno comune in cui le diversità non sono più un ostacolo, ma una ricchezza. Io stessa desidero essere parte attiva di questa costruzione, anche se, consapevole della grandezza della sfida, mi accontento di contribuire con il mio piccolo ma determinato tassello. Ogni gesto, ogni iniziativa, anche quella più piccola, è un passo in avanti verso un futuro dove la cultura e l’arte diventano strumenti di inclusione, dialogo e crescita collettiva.
    L’iniziativa culturale che si terrà l’11 novembre, con la partecipazione speciale di importanti personalità del mondo culturale e sociale, rappresenta proprio questo nostro piccolo ma caparbio contributo a quella grande opera di costruzione. Sarà un’occasione per fare un passo insieme, per unire le forze e ricordare che, pur nelle nostre diversità, siamo tutti parte di un unico, grande, cammino».

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      “Darién non è una rotta (Gli altari del dolore)”: Aristides Ureña Ramos alla XV Biennale di Firenze con un rito visivo sulla memoria e la migrazione

      Presentata per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1997 e oggi riproposta in chiave rinnovata, l’opera di Aristides Ureña Ramos intreccia arte e testimonianza: una riflessione luminosa e dolorosa sulla condizione migrante, tra luce, ombra e compassione

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        Alla XV Biennale di Firenze, in programma dal 18 al 26 ottobre 2025 alla Fortezza da Basso, arriva Darién non è una rotta (Gli altari del dolore), la videoinstallazione di Aristides Ureña Ramos che unisce arte, memoria e spiritualità in un racconto di forte impatto visivo e umano.

        Il progetto, iniziato nel 1997 e sviluppato per oltre vent’anni, è una delle opere più intense del maestro panamense, che vive tra Italia e Panama. Attraverso immagini, suoni e oggetti raccolti lungo le rotte migratorie del Centro America, Ureña Ramos costruisce un percorso simbolico che trasforma il Darién Gap — la selva che separa Panama dalla Colombia e che ogni anno migliaia di migranti attraversano a rischio della vita — in un luogo sacro della memoria.

        È un progetto aperto nel tempo, iniziato nel 1997 e proseguito fino alla crisi migratoria del 2023-24 — spiega l’artista —. Gli Altari del Dolore mi hanno permesso di vivere quella tragedia e misurare le mie capacità creative nei processi artistici.”

        L’opera, già esposta in sedi prestigiose come la Biennale di Venezia del 1997 e l’ex Istituto Nazionale di Cultura di Panama nel 2015, si inserisce perfettamente nel tema scelto per l’edizione fiorentina, La sublime essenza della luce e delle tenebre. Nelle installazioni di Ureña Ramos, infatti, la luce non è mai solo metafora di salvezza, ma anche resistenza: la capacità dell’essere umano di illuminare l’ombra della perdita con la forza dei ricordi e dei sogni.

        Oggetti abbandonati lungo i sentieri dei migranti diventano reliquie, altari, frammenti di vite spezzate che l’artista restituisce allo sguardo del pubblico trasformandoli in poesia visiva. Darién non è una rotta non è un semplice reportage artistico, ma un rito laico che invita alla compassione e alla consapevolezza: una riflessione sull’esilio, la speranza e la dignità di chi attraversa le frontiere del mondo e dell’anima.

        Con questa videoinstallazione, Aristides Ureña Ramos riafferma la sua poetica come atto di empatia e memoria, offrendo alla Biennale di Firenze un’opera che parla al cuore del presente: un ponte di luce tra l’arte e la vita.

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          Dal formaggio ai gelati: l’Italia delle sagre che allungano l’estate e anticipano l’autunno

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            Settembre è quel mese sospeso tra le ultime code d’estate e i primi colori d’autunno. Il clima invita ancora a stare all’aperto, mentre il calendario gastronomico si riempie di eventi che mescolano prodotti tipici, cultura e convivialità. Dal 13 al 19 settembre l’Italia diventa un enorme banchetto diffuso, dove formaggi, vini, riso, funghi e gelati disegnano la mappa del gusto.

            In Piemonte si comincia sabato 13 con la Vendemmia Reale ai Giardini dei Musei Reali di Torino: oltre 60 cantine in degustazione, prove alla cieca e performance artistiche con il vino trasformato in colore. Da Vercelli arriva il profumo del Risò, Festival internazionale del Riso (12-14 settembre), mentre ad Asti il Festival delle Sagre Astigiane porta in piazza i piatti della tradizione dentro la cornice della Douja d’Or, storica celebrazione del vino piemontese che proseguirà fino al 21. Ma l’attesa vera è per Cheese 2025, che dal 19 al 22 settembre trasformerà Bra in capitale mondiale dei formaggi naturali, con la partecipazione anche del Gusto.

            Al Nordest, Udine si anima con Friuli Doc, festa che fino al 14 settembre porta in centro le eccellenze regionali: prosciutto di San Daniele, Montasio, vini bianchi e la dolce Gubana.

            Scendendo verso il Centro, a Montalcino il 13 settembre c’è il Premio Casato Prime Donne dedicato all’intelligenza artificiale, mentre a Figline Valdarno (Firenze) la chef Luisanna Messeri e Paolo Gori cucinano a quattro mani per una cena solidale a sostegno di Casa Marta, centro di cure pediatriche. Sempre il 13 e 14, in Maremma torna InGravel Morellino, dove vino e bici si incontrano tra le vigne di Scansano. A Roma, all’Orto Botanico, il 14 settembre si festeggia la Vendemmiata romana con degustazioni e laboratori; ai Castelli Romani, Colle di Fuori ospita la Sagra del fungo porcino alla sua 31ª edizione.

            Il Sud risponde con il fuoco e la freschezza. A Diamante (Cosenza) fino al 14 settembre il Peperoncino Festival celebra il re piccante della Calabria, con piatti come la sardella di Crucoli o il morsello catanzarese e la finale del Campionato dei mangiatori di peperoncino. Sempre in Calabria, Reggio diventa capitale mondiale del gelato dal 13 al 16 con Scirubetta 2025, villaggio del gelato artigianale affacciato sul lungomare.

            Infine la Sicilia, dove dal 18 al 20 settembre gli Etna Days richiamano esperti e winelover da tutto il mondo per celebrare la viticoltura eroica sulle pendici del vulcano. In contemporanea, a Milo, continua fino al 14 settembre ViniMilo, manifestazione storica dedicata al vino e alla gastronomia etnea.

            Dal riso al gelato, passando per peperoncino e formaggi, il messaggio è chiaro: l’autunno arriva, ma in Italia si brinda e si festeggia ancora come in piena estate.

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              Wu Keyang, il pittore che unisce Oriente e Occidente: «La mia vita è come il mio nome: sembra semplice, ma ha un significato nascosto»

              La sua missione è chiara: superare il conflitto tra civiltà attraverso la forza universale dell’arte. Dalla pittura a olio incompresa in Oriente ai volti senza pupille di Modigliani, l’artista rivela come il pensiero di Jung e la spiritualità del Tao abbiano forgiato il suo percorso. Un’intervista profonda, tra visioni, rinascite e la convinzione che l’arte non appartenga a un popolo ma all’umanità intera.

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                Apre il sipario il suono di un nome: Wu. Un cognome che in cinese si pronuncia sempre allo stesso modo, ma può essere scritto con ideogrammi profondamente diversi.
                Può essere , semplice e comune. Oppure , il segno che fonde la lancia () e il fermare (), e che dunque non significa guerra, ma “arte di fermarla”. E infine , il vuoto, l’assenza, il Tao che non si può dire. Tre simboli per un solo suono.
                E forse anche tre anime per un solo artista. Perché in Wu Keyang ogni pennellata è soglia, ogni segno è un passaggio tra mondi. Ciò che sembra noto, nasconde una verità più profonda. La sua intera opera, come il suo nome, è un invito a guardare oltre la superficie.

                Cosa resta oltre la forma? Quale voce sussurra nel silenzio tra spirito e materia? A tentare di rispondere, con colori e visioni, è proprio Wu Keyang, protagonista della mostra personale “Beyond the Form, Within the Cosmos”, che si terrà a Firenze dal 10 luglio al 1° agosto 2025, nelle sale storiche di Palazzo Bellini (Lungarno Soderini 3).

                L’evento, promosso da Hestia Gallery, rappresenta la terza tappa italiana dell’artista negli ultimi tre anni, dopo le esposizioni a Palazzo Pisani di Venezia e alla Garibaldi Gallery di Milano. Un percorso coerente e crescente, che sta contribuendo a far conoscere anche in Occidente il linguaggio originale e profondo di questo pittore “filosofo”.

                In esposizione, oltre 30 grandi dipinti a olio e quasi 80 disegni inediti appartenenti alla serie “super-imaginale”: un progetto che scava nel rapporto tra essere umano e cosmo, con un approccio che non è mai puramente estetico, ma sempre esistenziale. Le opere propongono uno spazio visivo di meditazione, dove i confini tra materia e pensiero si dissolvono, e il segno pittorico diventa rito, invocazione, passaggio.

                Wu Keyang è nato nel 1973 a Zhao’an, nella provincia del Fujian, e ha studiato pittura a olio presso l’Università di Xiamen. Dal 2009 ha scelto di vivere in viaggio, dividendosi tra Asia ed Europa, visitando templi, grotte, musei e luoghi di natura incontaminata. Ha fatto del disegno un esercizio quotidiano, quasi un respiro costante, in cui annotare visioni e riflessioni.

                Ogni foglio, ogni tela, racconta una ricerca interiore senza fine. Il suo lavoro, difficilmente etichettabile, unisce la spiritualità orientale al segno occidentale, con rimandi alla calligrafia, all’astrazione lirica, all’informale. Ma più che alle correnti, Wu sembra rispondere a un’urgenza personale: trovare una forma che non sia prigione, ma soglia.

                Curatori dela rassegna sono Stefano Bigalli, Andrea Betro e Wu Changbei. La mostra “Beyond the Form, Within the Cosmos” si offre così come un dialogo aperto tra Oriente e Occidente, tempo e spirito, visibile e invisibile. Un’occasione rara per incontrare un artista che non cerca l’effetto, ma la verità.

                Ingresso libero. Orari di apertura: da lunedì a sabato, 10:30–12:30 e 16:00–18:00.

                Wu Keyang, dalle tue opere emerge chiaramente un affascinante contrasto tra culture orientali e occidentali. Quando hai cominciato a percepirlo nella tua vita? E in quali circostanze hai sentito il bisogno di diventare un ponte tra questi due mondi?

                È una domanda che porto dentro da tanto tempo. In realtà, da bambino già percepivo certe differenze tra Oriente e Occidente, ma è stato durante gli anni dell’università che ho davvero preso coscienza di questo “conflitto”. In quel periodo ho cominciato a studiare la filosofia occidentale: Socrate, Platone, Aristotele, fino ad arrivare a Hegel, Nietzsche… Ma colui che mi ha toccato più profondamente è stato Carl Jung. Jung è stato, per me, il primo che ha saputo utilizzare il pensiero logico occidentale per spiegare e comprendere il pensiero orientale. Non era solo uno studioso, era anche un praticante, un artista. Ha persino dipinto. Una delle sue opere più importanti, Il Libro Rosso, si ispira direttamente a un testo classico taoista cinese, Il Classico della Vita Dorata di Taiyi. È lì che ho sentito che lui stava facendo quello che io, inconsciamente, desideravo fare: unire due mondi.

                È stata la filosofia a farti scattare questa consapevolezza?

                Non solo la filosofia, ma anche la mia esperienza concreta come pittore. Dipingo a olio, e spesso ho notato che il pubblico orientale non riesce a comprendere appieno questo linguaggio visivo. Molti guardano solo se il dipinto “somiglia” alla realtà, se sembra una fotografia. Ma non colgono la profondità spirituale e filosofica che sta dietro la pittura occidentale, soprattutto quella classica e medievale. Allo stesso tempo, anche molti occidentali non comprendono a fondo la cultura orientale: la vedono come qualcosa di “mistico”, ma distante, quasi esotico. Io vedo in questo una grande frattura. Per me l’arte non è solo immagine, è trasmissione di spirito. Come l’arte classica occidentale, che non è solo tecnica ma un mezzo per cercare il Vero.

                Che ruolo ha la cultura tradizionale cinese nella tua arte?

                È qualcosa che ho nel sangue. Ho sempre praticato e studiato profondamente le tradizioni spirituali del Confucianesimo, del Taoismo e del Buddhismo. In particolare la coltivazione interiore, quella che chiamiamo “coltivare il cuore”. È una forma di lavoro spirituale che eleva la coscienza e la vita stessa. Non è solo teoria: l’ho vissuto, l’ho praticato, l’ho sperimentato.
                Inoltre, ho vissuto tre esperienze di pre-morte. In quei momenti ho toccato qualcosa di molto profondo, come se il cielo mi avesse dato un’altra possibilità, una chiamata. Non era ancora il mio momento di andarmene. Da allora, ho sentito che avevo una missione: dipingere tutto ciò che avevo vissuto e compreso, per condividerlo con il mondo.

                Cosa significa per te “missione”?

                Penso che la mia missione sia quella di colmare la distanza tra Oriente e Occidente. Di mostrare, attraverso l’arte, che le due visioni del mondo – anche se a volte sembrano opposte – in realtà cercano la stessa verità. La cultura, secondo me, non ha confini. Non appartiene a un popolo, a una razza, a una nazione. La cultura vera, quella che cerca il Bello, il Bene e il Vero, è patrimonio dell’umanità. E l’arte è il linguaggio perfetto per superare le barriere: può comunicare a tutti, al di là delle lingue.

                Una curiosità: il tuo cognome crea qualche equivoco, giusto?

                Sì, è vero! Il mio cognome si pronuncia allo stesso modo di un altro carattere cinese, ma è scritto con un ideogramma diverso. È un dettaglio curioso, ma significativo: come tutta la mia vita, che sembra una cosa familiare, ma in realtà ha un significato più profondo.

                Per te l’arte ha un valore spirituale? Può favorire il dialogo tra civiltà?

                Assolutamente sì. L’arte, per me, non è solo una questione estetica o visiva. È uno strumento spirituale, un canale attraverso cui le anime di diverse civiltà possono comunicare. Il mio lavoro non vuole semplicemente rappresentare la superficie delle culture, ma mettere in dialogo le anime stesse di due civiltà diverse.

                Quindi trasmette qualcosa che va oltre il visibile?

                Esattamente. Anche se i colori, le luci, le pennellate nelle mie opere sono importanti, la cosa più essenziale è ciò che sta dietro: la componente spirituale. Lo spirito. Questo spirito non si vede con gli occhi, ma si percepisce con l’anima. Per esempio Modigliani: i suoi volti hanno il collo allungato, gli occhi spesso senza pupille. Per molti può sembrare una scelta stilistica, ma in realtà è un modo per rappresentare lo spirito umano, non solo l’apparenza.

                Ti ispiri anche alla filosofia taoista?

                Sì. Il pensiero taoista è fondamentale per me. Dice: “Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao”. Questo significa che la verità ultima non può essere spiegata con le parole. Ma l’arte può avvicinarsi a quella verità. Il mio scopo è cercare di arrivare all’essenza, all’origine, al nucleo invisibile del mondo. Quando dipingo, cerco di trovare un linguaggio visivo che possa esprimere quell’essenza: con linee, colori, forme o simboli.

                Il pubblico comprende subito le tue opere?

                Non sempre. Anzi, a volte ci vogliono mesi, o addirittura anni, prima che qualcuno comprenda veramente il significato profondo di un mio quadro. Ma non è importante. L’opera nasce da un’esperienza vissuta nell’attimo presente: una visione del mondo, della natura, dell’universo. È un’esplosione interiore. Non mi interessa spiegare tutto: voglio che chi guarda trovi, nel tempo, una propria connessione con quella energia.

                Hai citato Modigliani, ma anche Picasso…

                Sì. Picasso, Modigliani e altri maestri non si sono fermati alla rappresentazione realistica. Hanno decostruito le immagini per raggiungere un altro livello, quello dello spirito. Hanno cercato, come me, un ponte tra forma e essenza, tra materia e spirito.

                Quando ti sei sentito, per la prima volta, un artista “del mondo”?

                Posso dire che è successo nel 2015, quando ho vissuto la mia terza esperienza vicina alla morte. Tornato indietro da quel confine estremo, ho capito che non ero più limitato dallo spazio-tempo. Mi sono sentito parte di una missione umana più grande: rappresentare la ricerca universale della verità, della bontà e della bellezza. L’arte, specialmente la pittura, precede la lingua e il testo. Non ha bisogno di parole per essere compresa. Per questo, è universale. E in quel momento ho sentito che il mio lavoro non era più solo “cinese” ma umano.

                Com’è la situazione dell’arte contemporanea cinese oggi? In che direzione va?

                Come artista orientale, posso dire che oggi in Cina coesistono due sistemi artistici. Uno è quello “istituzionale”, legato allo stato e ai temi ufficiali. L’altro è quello degli artisti indipendenti, come me. Quest’ultimo è molto difficile da sostenere in Cina. Per molto tempo era quasi impossibile sopravvivere fuori dal sistema. Ma io, dopo tre esperienze di vita e morte, e con la mia dedizione assoluta all’arte e alla spiritualità, ho trovato persone nel mondo della cultura, dell’impresa e della ricerca che mi hanno sostenuto. Non è facile, ma è possibile. Ora, però, vedo segnali positivi: giovani artisti nati negli anni ‘80 e ‘90 stanno emergendo con una loro visione, grazie all’accesso a molte informazioni e alla possibilità di confrontarsi con il mondo. Alcuni di loro stanno raggiungendo risultati significativi. Non è un percorso facile, ma è promettente.
                Molti ancora associano l’arte cinese a soggetti convenzionali, istituzionali. Ma l’arte non dovrebbe essere solo riproduzione o propaganda. Dal mio punto di vista, l’arte deve nascere dall’autentica comprensione della propria vita e del proprio tempo. Negli anni ‘80 ci fu una prima ondata di arte contemporanea in Cina. Alcuni di quei nomi sono diventati famosi anche in Occidente, spesso grazie a un legame con temi politici. Ma oggi c’è un cambiamento. Dalla fine degli anni 2000, sempre più artisti cercano le radici della nostra cultura. Si sta ritrovando fiducia nel patrimonio culturale cinese.
                Anch’io, per anni, ho dipinto soggetti buddisti e religiosi, usando tecniche classiche. Erano molto apprezzati e valutati in Cina. Ma dopo le mie esperienze profonde, la mia arte si è trasformata. È diventata una ricerca dell’essenza. Una ricerca spirituale. Oggi stanno emergendo nuovi artisti indipendenti, con visione propria. Questa è una nuova era per l’arte contemporanea cinese, e io sono fiducioso nel suo futuro.

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