Lifestyle
La Barbie che non ti aspetti!
Miss Barbara Millicent Roberts è tra le 100 donne più influenti al mondo che aiutano a sognare in grande. Classificata come la figura numero 100 in una lista simbolica di persone che hanno definito un anno, un riconoscimento per l’impatto culturale e per la sua influenza negli anni.
Barbie è più di una semplice bambola
Icona culturale che ha plasmato l’immaginazione di generazioni di bambini in tutto il mondo, da decenni, Barbie ha definito gli standard di bellezza, moda e aspirazione, diventando uno dei giocattoli più venduti al mondo e guadagnandosi un posto di rilievo nel cuore di milioni di persone.
Posto simbolico
Il suo status di giocattolo iconico l’ha resa una candidata appropriata per un riconoscimento simbolico pubblicato su Forbes Italia. Nel corso degli anni, Barbie ha assunto numerosi ruoli e identità, interpretando carriere, stili di vita e ruoli sociali che riflettono l’evoluzione della società.
Alter ego
Da dottoressa a ballerina, da astronauta a principessa, Barbie ha incarnato una vasta gamma di professioni e passioni, offrendo ai bambini l’opportunità di esplorare una varietà di aspirazioni e identificarsi con la bambola in modi diversi, a seconda dei loro interessi personali.
Lo posso fare anche io!
La versatilità di Barbie incoraggia i bambini a sognare in grande e a immaginarsi in ruoli diversi, senza limiti alle loro ambizioni. Attraverso il gioco immaginativo con Barbie, i bambini sviluppano fiducia in se stessi, coltivano l’ambizione e aprono la porta a un futuro ricco di possibilità.
Mattel, l’azienda che produce Barbie, continua a innovare e aggiornare la linea di bambole per mantenerla rilevante e attraente per le nuove generazioni. In sintesi, Barbie non è solo una bambola, ma un simbolo di possibilità e ispirazione per i bambini di tutto il mondo.
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Cucina
Vin brulè, il profumo dell’inverno: la bevanda calda che riscalda mani, cuore e memoria
Una tradizione antica, nata per scaldare i viaggiatori nelle locande di montagna e oggi diventata un rituale conviviale. Prepararlo in casa è facile: basta scegliere il vino giusto e dosare con cura le spezie.
C’è un momento, tra novembre e gennaio, in cui il profumo del vin brulè sembra inseguirci ovunque: nei mercatini di Natale, nelle baite, perfino nelle piazze delle città. È un aroma che sa di legno e agrumi, di cannella e fuoco acceso, capace di risvegliare ricordi e riscaldare anche le giornate più fredde.
La sua storia è antichissima. Già i Romani bevevano il conditum paradoxum, un vino dolce scaldato con miele e spezie, antesignano dell’attuale vin brulè (dal francese vin brûlé, “vino bruciato”). In origine era un rimedio contro i malanni invernali, ma col tempo è diventato un piacere da condividere.
Oggi ogni regione ha la sua versione: in Trentino si usa il Merlot o il Lagrein, in Valle d’Aosta il Petit Rouge, in Piemonte il Barbera. Ma la regola resta la stessa: serve un rosso corposo, non troppo giovane, capace di resistere al calore senza perdere carattere.
La preparazione è un gesto antico, quasi rituale. In una casseruola si versa il vino con zucchero, scorza d’arancia e di limone, cannella, chiodi di garofano, anice stellato e — per i più audaci — una punta di noce moscata o di pepe. Si scalda lentamente, senza mai far bollire, finché lo zucchero si scioglie e la casa si riempie di un profumo avvolgente. Poi si filtra e si serve bollente, in tazze spesse o bicchieri resistenti, magari accompagnato da biscotti di panpepato o castagne arrosto.
Il segreto sta nell’equilibrio: troppo zucchero lo rende stucchevole, troppe spezie lo coprono. Il vin brulè perfetto è armonia — caldo ma non bruciante, dolce ma non sciropposo, aromatico ma mai invadente.
E come tutte le tradizioni che resistono al tempo, la sua magia è nella condivisione. Un sorso di vin brulè non si beve da soli: si offre, si racconta, si alza in un brindisi lento che sa di inverno, amicizia e ritorno alle origini.
Moda
Moda, il ritorno del paltò: classico, oversize o vintage, il cappotto dell’inverno si porta con personalità
Simbolo di stile e sobrietà, il cappotto lungo riconquista passerelle e armadi. Tra lana spessa, tweed o cashmere, è il capo chiave dell’autunno-inverno 2025.
Il ritorno del cappotto lungo
È ufficiale: il paltò è tornato. Dopo stagioni dominate da piumini tecnici e bomber oversize, il cappotto lungo torna a dettare legge, riscoprendo l’eleganza classica. Le passerelle di Parigi e Milano l’hanno consacrato protagonista assoluto dell’inverno: tagli dritti, spalle importanti e silhouette pulite. Ma non è un ritorno nostalgico — il nuovo paltò gioca con proporzioni, tessuti e dettagli contemporanei. Il fascino è quello di un capo che non urla, ma comunica con autorevolezza.
Dalla sartoria al guardaroba urbano
Una volta simbolo di rigore, oggi il paltò si reinventa. Si porta aperto, con sneakers o stivali, su jeans o completi fluidi. La moda lo mescola al quotidiano, lo alleggerisce, lo rende democratico. I colori? Dominano i neutri — cammello, grigio, blu notte, ma anche nero e verde bosco. Per chi osa, tornano i quadri e i motivi check di ispirazione british, in perfetto equilibrio tra nostalgia e modernità.
Gli stilisti lo reinterpretano in lana cotta, tweed o cashmere double, e le versioni oversize diventano quasi una coperta urbana: rassicurante, elegante, mai banale.
Paltò per lei, paltò per lui
Nel guardaroba femminile il paltò abbraccia forme morbide, cintura in vita e collo ampio, spesso portato sopra minidress o maglioni chunky. Per l’uomo resta il grande classico — doppiopetto o monopetto, spalle strutturate e linea asciutta — ma il nuovo modo di indossarlo è più rilassato: con cappuccio sotto, dolcevita o camicia sbottonata.
È il ritorno di una certa idea di eleganza: quella che non ha bisogno di stupire, ma solo di durare.
In un’epoca di abbigliamento usa e getta, il paltò resta un manifesto di stile. Si compra una volta, si indossa per anni. Ed è proprio questo — la sua discreta, resistente bellezza — il vero lusso del presente.
Lifestyle
Disconnettersi per ritrovarsi: quando il benessere passa dal “digital detox”
Sempre più connessi, ma sempre più soli. Lo smartphone è diventato un’estensione di noi stessi, ma anche una fonte costante di stress e confronto. La generazione Z guida la ribellione silenziosa contro l’eccesso di schermi.
Mai come oggi la vita digitale pesa sul nostro equilibrio mentale. Passiamo in media oltre sei ore al giorno online, secondo i dati del Digital 2025 Report, e la linea che separa il mondo reale da quello virtuale si fa sempre più sottile. Scrollare senza sosta, confrontarsi con vite “filtrate” e costruire la propria identità attraverso uno schermo genera un sovraccarico invisibile: quello emotivo.
La Generazione Z, cresciuta tra social network, messaggi istantanei e realtà aumentata, è la più esposta a questa nuova forma di stress digitale. Eppure è anche la più consapevole dei suoi rischi. Mentre per i Millennials la connessione continua rappresentava libertà, i più giovani iniziano a percepirla come una gabbia. Non è un caso che sui social stessi — da TikTok a Instagram — siano nati trend di “digital detox”, ovvero periodi di disconnessione volontaria per riequilibrare la mente e ritrovare il contatto con la realtà.
La psicologa e sociologa Sherry Turkle, docente al MIT, descrive questo fenomeno come una “solitudine connessa”: siamo costantemente in contatto, ma sempre più isolati. Le conversazioni diventano messaggi, i momenti condivisi si riducono a post e stories, e la presenza fisica viene sostituita da una presenza digitale. Anche lo psicologo sociale Jonathan Haidt, nel suo recente libro The Anxious Generation (2024), evidenzia come l’uso eccessivo degli smartphone e dei social abbia contribuito all’aumento dei disturbi d’ansia e depressione tra gli adolescenti, specialmente dopo il 2010, quando i dispositivi mobili sono diventati onnipresenti.
Il paradosso è evidente: siamo iperconnessi, ma più soli. Le notifiche costanti alterano i nostri ritmi biologici, riducono la capacità di concentrazione e rendono difficile vivere il “qui e ora”. Secondo studi dell’Università di Stanford, ogni interruzione digitale può richiedere fino a venti minuti per ristabilire il livello di attenzione precedente. Una frammentazione continua che ci allontana non solo dagli altri, ma anche da noi stessi.
In risposta, cresce il bisogno di disconnessione consapevole. Sempre più persone riscoprono il piacere di “mettere giù il telefono”: camminare senza auricolari, pranzare senza scattare foto, guardare un tramonto senza condividerlo. Alcuni resort e ritiri benessere, come quelli diffusi in Scandinavia o in Italia, propongono veri e propri weekend senza schermi, con esperienze di meditazione, yoga e natura.
Ma il “digital detox” non è una fuga tecnologica, bensì una nuova forma di cura personale. Implica scegliere quando essere online, non subirlo. Significa ridefinire i confini tra la vita virtuale e quella reale, riconoscendo che i “like” non misurano il valore di una persona e che la connessione autentica nasce dallo sguardo, non da un messaggio.
La cura, come sottolineano molti psicoterapeuti, è riscoprire la presenza. Spegnere lo schermo per accendere la consapevolezza: ascoltare, osservare, respirare. È un gesto semplice ma rivoluzionario in un’epoca in cui l’attenzione è diventata merce.
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