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Big Mac non è più solo McDonald’s: persa l’esclusiva sul marchio!

Secondo la Corte Ue la catena di fast-food non ha utilizzato per cinque anni consecutivi il brand che ora è utilizzabile dai concorrenti come l’irlandese Supermac’s

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    Incredibile ma vero: McDonald’s ha perso l’esclusiva sul marchio Big Mac per i prodotti a base di pollame. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che la catena di fast-food non ha utilizzato il marchio per cinque anni consecutivi per i panini di pollo. Quindi, d’ora in poi, i rivali potranno servire i loro “Big Mac” di pollo senza alcun timore legale.

    Il ricorso dell’irlandese Supermac’s

    Tutto è iniziato con il ricorso della catena irlandese Supermac’s nel 2017, che ha chiesto la decadenza del marchio. La Corte di Lussemburgo ha concluso che McDonald’s non ha dimostrato l’uso effettivo del brand contestato per i panini con pollo e i prodotti a base di pollame, né per i servizi connessi alla gestione di ristoranti e drive-in.

    Le reazioni

    Supermac’s ha esultato per la decisione. «È una sentenza significativa che adotta un approccio basato sul buon senso nei confronti dell’uso dei marchi da parte delle grandi multinazionali», ha dichiarato l’amministratore delegato Pat McDonagh. «Rappresenta una vittoria significativa per le piccole imprese di tutto il mondo».

    McDonald’s, naturalmente, non resterà con le mani in mano e potrà proporre appello contro la decisione, ma ha confermato che potrà continuare a utilizzare il marchio “Big Mac” per gli hamburger di manzo. In ogni caso, la battaglia legale non è finita, e la competizione nel mondo dei fast-food diventa sempre più interessante.

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      Tonno in scatola, cosa ci arriva nel piatto?

      Il tonno in scatola è un alimento versatile e nutriente, ideale per una dieta equilibrata. La qualità del prodotto finale dipende da vari fattori, tra cui il tipo di tonno utilizzato, il metodo di conservazione, e il processo di lavorazione. Scegliendo tonno di alta qualità e conoscendo i metodi di conservazione e preparazione, è possibile gustare un prodotto delizioso e salutare.

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        Con l’arrivo dell’estate sono iniziati anche i pranzi freddi e le preparazioni di insalate per tutti i gusti nelle quali il tonno non può mancare. Ma qual è la parte di questo pesce che si presta di più a essere inscatolato mantenendo inalterate le sue proprietà gustative e salutari?

        Quello che usiamo tutti i giorni viene da più lontano…

        Il tonno in scatola viene selezionato in base alla qualità e alla parte del pesce utilizzata. Le parti migliori per la conservazione sono diverse e spaziano dal Tonno Bianco (Albacore) preferito per la sua carne chiara e saporita e per questo considerato tra i migliori in scatola. C’è poi il Tonno Pinne Gialle (Yellowfin) che ha una carne più scura e saporita e viene utilizzato per le scatolette di alta qualità e più costose. Quindi abbiamo il Tonno Skipjack (Tonnetto striato) che è il tipo più comune e accessibile, utilizzato nelle scatolette standard.

        Meglio sott’olio o naturale?

        Naturalmente la scelta tra quello sott’olio e quello al naturale dipende dai gusti e dalle preferenze personali e dalle esigenze dietetiche. Quello sott’olio, spesso conservato in olio di oliva, ha un sapore più ricco e una texture più morbida. È ideale per insalate e piatti dove l’olio può essere utilizzato come condimento. Quello al naturale, conservato in acqua o salamoia, è più leggero e meno calorico. È preferito da chi cerca un’opzione più salutare e con meno grassi.
        Il tonno in scatola è una fonte eccellente di proteine magre. Una porzione da 100 grammi al naturale contiene circa 25-30 grammi di proteine. È anche ricco di omega-3, vitamine del gruppo B, e minerali come il selenio.

        Quanto ce ne serve?

        Una porzione in scatola per pasto dovrebbe essere di circa 100-150 grammi per un adulto. Questa quantità fornisce una buona dose di proteine senza eccedere nelle calorie.

        Dove si pescano i tonni migliori

        Il Mar Mediterraneo è un buon bacino insieme all’Oceano Atlantico per la pesca del Tonno Rosso (Bluefin), considerato il re, tuttavia è raramente utilizzato per la produzione di tonno in scatola a causa del suo alto valore economico e dell’uso predominante nel sushi.
        Il Tonno Albacore viene pescato principalmente nel Pacifico e nell’Atlantico. È apprezzato per la sua carne bianca e delicata. Il Tonno Yellowfin si trova nelle acque tropicali di tutti gli oceani, ed è apprezzato per la sua carne compatta e saporita. Infine il Tonno Skipjack è il tipo più comune e viene pescato nelle acque tropicali di tutto il mondo. È la scelta principale per il tonno in scatola che usiamo tutti i giorni.

        Il lungo processo di lavorazione

        I tonni vengono pescati utilizzando metodi sostenibili come la pesca a canna o con reti speciali per minimizzare l’impatto ambientale. Una volta pescati, i tonni vengono immediatamente refrigerati e trasportati agli stabilimenti di lavorazione. Qui vengono puliti, eviscerati e tagliati. Le parti migliori vengono selezionate per la lavorazione in scatola. I tranci vengono cotti a vapore o bolliti per preservare il sapore e le proprietà nutrizionali. Dopo la cottura, i tranci vengono inseriti nelle scatolette insieme a olio, acqua o salamoia. Le scatolette vengono poi sigillate ermeticamente e sterilizzate per garantire la sicurezza alimentare e la lunga conservazione.

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          Piadina, regina dell’estate: storia, ricetta e segreti della sfoglia più romagnola che c’è

          Una sfoglia semplice fatta di farina, strutto, acqua e sale. Ma dietro c’è un patrimonio culturale che profuma di Riviera, biciclette arrugginite e mani infarinate. Dalla storia antica alle varianti gourmet, ecco tutto quello che c’è da sapere sulla piadina, la compagna ideale delle serate d’agosto.

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            C’è un suono che racconta l’estate romagnola meglio di mille canzoni da spiaggia: è il fruscio della piadina che si gonfia sulla piastra rovente. Un respiro breve, antico, che profuma di farine grezze, di strutto vero, di mani sapienti e facce sorridenti dietro ai chioschi. In Riviera, la piadina non è solo cibo: è un rito. Si mangia dopo il bagno, tra una partita a racchettoni e un tramonto sulla battigia. Si condivide, si piega, si sbrodola. E non conosce crisi: è democratica, inclusiva, low cost e incredibilmente buona.

            E dire che le sue origini sono tutt’altro che estive. La piadina nasce come pane povero contadino, una sfoglia rustica senza lievito, da cuocere al volo su lastre di pietra o di terracotta. A raccontarla per primo è addirittura Giovanni Pascoli, che le dedica alcuni versi pieni d’amore. “La piada romagnola” la chiama lui, sottolineando come bastino pochi ingredienti e un fuoco acceso per nutrire un popolo intero.

            La versione canonica prevede farina, strutto (o olio, se proprio vogliamo essere gentili con il colesterolo), acqua tiepida e sale. L’impasto si lavora a mano, con pazienza, e poi si stende a disco con il mattarello, fino a raggiungere uno spessore che varia da zona a zona. Nella zona di Forlì e Cesena, ad esempio, è più sottile; a Rimini si avvicina quasi a una tortilla; mentre a Ravenna e dintorni la piada è più alta, morbida e rustica. Ciascuno ha la sua, e guai a dire che “tanto è la stessa cosa”.

            Ma è sul ripieno che si gioca la vera partita. Il classicone, manco a dirlo, è crudo, squacquerone e rucola, un mix perfetto di grasso, cremoso e amaro, dove ogni morso sa di sabbia sotto i piedi e risate notturne. Ma c’è anche chi la farcisce con salsiccia e cipolle caramellate, con verdure grigliate e stracchino, con porchetta e pecorino o con frittata e melanzane. I più temerari azzardano anche versioni dolci: Nutella, fichi caramellati, marmellata di ciliegie. Un sacrilegio? Forse. Ma anche il sacrilegio, d’estate, ha un suo fascino.

            La piadina è anche un pezzo d’identità. Tanto che nel 2014 è arrivata l’IGP – Indicazione Geografica Protetta, che ne tutela forma, spessore, ingredienti e persino temperatura. Ma il cuore della piadina resta nei chioschi: quelle baracche bianche e blu, spesso in bilico tra la statale e il mare, dove le signore arrotolano impasti con una naturalezza da coreografe. E dove la fila non manca mai, nemmeno alle due di notte.

            Un tempo si mangiava in silenzio, con la fame vera. Oggi si scatta la foto, si posta su Instagram, si chiacchiera mentre si morde. Ma lo spirito è lo stesso: conviviale, informale, pieno di sale e libertà. Perché la piadina non ha orari né etichette: si mangia calda in piedi, magari con la birra in mano e i piedi nudi sulla sabbia.

            E se qualcuno osa dire che è solo una “focaccia romagnola”, beh, che si prepari a essere smentito. Con dolcezza, certo. Ma anche con la forza di secoli di sfoglia.

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              Come scegliere l’anguria perfetta: i trucchi infallibili che il fruttivendolo non vi dice

              Il cocomero giusto non si riconosce a colpo d’occhio, ma osservando (e annusando) i dettagli. Dal verde opaco alla macchia gialla, passando per il peso “sospetto”: ecco come evitare delusioni estive e portare a casa un frutto dolce e succoso.

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                In estate non c’è tavolata senza il re delle merende: l’anguria. Fresca, dolce, scenografica. Ma quante volte vi è capitato di tagliarla e scoprire che è pallida, insipida e triste come una domenica di pioggia? Colpa della scelta sbagliata. E no, non basta “bussare” sulla buccia come se fosse la porta di casa di un amico. Il metodo funziona solo se si ha un orecchio allenato: suono sordo significa maturità, suono tenue vuol dire che può restare ancora un po’ al sole. Ma, a meno di non essere sommelier di cocomeri, meglio affidarsi ad altri segnali.

                Il primo è la forma: un’anguria matura è simmetrica, senza ammaccature o rientranze. Se presenta bozzi o tagli, probabilmente ha ricevuto acqua e sole in modo irregolare e il sapore ne risentirà.

                Secondo punto, il colore: deve essere verde scuro e opaco. Se è brillante, lasciatela dov’è: significa che è ancora acerba.

                Poi c’è il peso. L’anguria è fatta soprattutto d’acqua, quindi un frutto maturo sarà sorprendentemente pesante rispetto alle dimensioni. Se siete indecisi tra due uguali, prendete quello che vi sembra “stranamente” più pesante: sarà anche il più dolce.

                Infine, il trucco da veri intenditori: la zona d’appoggio, cioè la parte che poggiava a terra. Cercate la macchia giallognola: più è intensa, più il frutto ha preso sole e sviluppato zuccheri. Se invece è chiara o quasi bianca, preparatevi a una delusione.

                E per i nasi fini, un’ultima dritta: annusate. Un cocomero maturo sprigiona un leggero profumo fresco e dolciastro. Se non sentite nulla, è probabile che sia ancora indietro.

                Così, alla prossima spesa, niente più scommesse alla cieca. Solo fette rosso vivo e dolci come il ricordo di un’estate perfetta.

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