Curiosità
Tesoro, non trovo i calzini!
La percezione che gli uomini non trovano mai niente in casa potrebbe essere un luogo comune o uno stereotipo che non si applica a tutte le persone? Tuttavia, ci sono diverse ragioni per cui alcune persone potrebbero avere difficoltà a trovare le cose in casa e cioè la visione periferica degli oggetti.

Il campo visivo delle donne è più ampio?
La teoria che sostiene l’esistenza di differenze nella visione periferica tra uomini e donne è un argomento interessante e controverso. Tuttavia, va notato che non ci sono prove scientifiche conclusive che dimostrino che le donne abbiano una visione periferica più ampia o più precisa degli uomini. Mentre alcuni studi suggeriscono che le donne possano avere una maggiore sensibilità al movimento e ai colori nel campo visivo periferico rispetto agli uomini, altri studi non hanno trovato differenze significative o hanno trovato risultati contrastanti.
Efficienza o abitudine?
La percezione che le donne siano migliori nel trovare le cose potrebbe essere attribuita a una serie di fattori sociali e culturali, tra cui la maggiore partecipazione delle donne alle attività domestiche e la loro abilità nell’organizzazione degli spazi domestici. Questi fattori possono influenzare la familiarità e l’efficienza nel cercare oggetti all’interno della casa, piuttosto che una presunta differenza nella visione periferica.
Per i maschi potrebbe essere…
Disorganizzazione, se la casa è disordinata o le cose non sono state sistemate in modo ordinato, può essere difficile trovare ciò che si cerca. Questo non è un problema specifico degli uomini, ma può riguardare chiunque abbia una casa disordinata.
Mancanza di familiarità con l’ambiente domestico perché, se una persona trascorre meno tempo a casa o non è coinvolta nelle attività domestiche quotidiane, potrebbe essere meno familiare con la disposizione degli oggetti e avere difficoltà a trovarli.
Distrazione quando si ha fretta, è più difficile concentrarsi e trovare ciò che si cerca, indipendentemente dal genere.
Stereotipi di genere
Lo stereotipo che gli uomini non trovino mai niente in casa potrebbe essere dovuto a percezioni culturali o sociali sulle responsabilità domestiche. Tuttavia, è importante ricordare che la capacità di trovare le cose in casa non dipende dal genere, ma da fattori individuali e ambientali.
Ma la scienza che dice?
La visione periferica negli esseri umani si riferisce alla capacità di vedere ciò che è ai margini del campo visivo mentre si guarda avanti. Non ci sono prove scientifiche che dimostrino una differenza significativa nella visione periferica tra uomini e donne in generale. Tuttavia, si fa avanti una teoria secondo cui le differenze nella visione periferica tra uomini e donne possano avere radici nelle abitudini sociali preistoriche.
Ecco svelato l’arcano
Le società preistoriche possono aver avuto divisioni di genere nelle attività di caccia e raccolta, e potrebbe stabilirsi una diretta correlazione tra queste attività e le abilità visive. Cioè: mentre le donne erano coinvolte principalmente nella raccolta di frutta, erbe e radici, esplorando un campo visivo più ampio, gli uomini hanno una diversa visione periferica in qanto da cacciatori avrebbero sviluppato la capacità di puntare la preda solo frontalmente e a concentrare l’attenzione su un singolo oggetto alla volta.
Le teorie evoluzionistiche sulla visione umana sono interessanti e possono offrire spunti per la ricerca scientifica, ma è importante trattarle con cautela e non trarre conclusioni definitive senza prove solide. Le differenze di genere nella visione periferica, se esistono, potrebbero essere il risultato di una combinazione di fattori ambientali e culturali, e richiederebbero grossi studi approfonditi per essere comprese appieno.
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Curiosità
Da Theda Bara a Halloween: così nacque la “vamp”, la donna fatale che seduce e distrugge
Sopracciglia sottili, rossetto scuro e sguardo ipnotico: Theda Bara fu la prima “vamp” della storia. Nel film The She Devil del 1918 divenne il simbolo della donna irresistibile e pericolosa, capace di soggiogare gli uomini con il solo potere dello sguardo. Da lei nacque un termine che ancora oggi indica la femme fatale per eccellenza.

Quando si parla di “vamp”, oggi si pensa a una donna seducente, misteriosa e un po’ pericolosa. Ma pochi sanno che il termine non nasce dal mondo dei vampiri, bensì da quello del cinema muto. A coniarlo, per caso, furono i colleghi di Theda Bara, diva degli anni Dieci, soprannominata sul set “The Vamp”. Da quel nomignolo nacque un mito linguistico e culturale destinato a durare più di un secolo.
Theda Bara — il cui nome d’arte era un anagramma di Arab Death, “morte araba” — fu la prima a incarnare la figura della donna fatale moderna. Nel 1918 interpretò The She Devil, un film oggi perduto ma rimasto nella memoria collettiva come manifesto di una nuova sensualità: oscura, magnetica, libera. Il suo personaggio non era un vampiro nel senso letterale, ma una creatura capace di “succhiare” l’energia degli uomini, dominarli e distruggerli con eleganza e intelligenza.
Make-up pesante, ombretto nero, labbra color sangue, pelle chiarissima: il suo stile definì un’estetica gotica che Hollywood non avrebbe più dimenticato. Negli anni successivi, da Greta Garbo a Marlene Dietrich, fino a Elizabeth Taylor e Angelina Jolie, l’archetipo della “vamp” continuò a evolversi, trasformandosi in simbolo di autonomia e potere femminile.
Theda Bara, all’epoca, era una star planetaria. Il pubblico la vedeva come una figura quasi sovrannaturale, una donna che sfidava i costumi e la morale vittoriana. E anche se la maggior parte dei suoi film è andata perduta, il suo mito sopravvive. Ancora oggi, ad Halloween, migliaia di ragazze americane si ispirano al suo look: capelli corvini, eyeliner drammatico e labbra scarlatte.
Dietro quel termine così breve — “vamp” — si nasconde dunque una rivoluzione culturale: la nascita della donna che seduce senza chiedere permesso. Un’icona nata dal bianco e nero del cinema muto, ma più viva che mai, soprattutto quando la notte si tinge di nero e la seduzione diventa un incantesimo.
Curiosità
Lacrime a fiumi: ogni anno produciamo una “vasca da bagno” di pianto, ma le donne battono gli uomini 47 a 7
Le statistiche parlano chiaro: le donne piangono quasi 50 volte all’anno, mentre gli uomini appena 7. Le differenze emozionali e culturali sono ancora profonde, ma le lacrime – vere protagoniste – hanno un ruolo cruciale nella gestione delle nostre emozioni.

Un fiume di lacrime scorre ogni anno dai nostri occhi: secondo le ultime stime, una persona media produce dai 60 ai 110 litri di lacrime all’anno, praticamente il volume di una vasca da bagno. Una quantità sorprendente che testimonia come il pianto sia un processo fisiologico tanto comune quanto importante per la nostra salute emotiva. Nell’arco della vita, questo numero cresce fino a cifre quasi incredibili: si stima che ognuno di noi possa produrre fino a 9.000 litri di lacrime.
Ma non siamo tutti uguali di fronte al pianto, e qui emerge un aspetto interessante: le donne piangono in media 47 volte all’anno, mentre gli uomini soltanto 7. Un dato che non solo rispecchia un’abitudine culturale e sociale radicata, ma che apre anche a domande sulle differenze emozionali tra i generi. Perché piangiamo e perché alcuni piangono più di altri? Le risposte coinvolgono tanto la biologia quanto la cultura.
Perché piangiamo? Un atto terapeutico
Il pianto è un fenomeno naturale, che si manifesta non solo per tristezza o dolore, ma anche per gioia, stress o addirittura frustrazione. Psicologi e studiosi concordano nel dire che le lacrime hanno una funzione catartica: liberano tensione, permettono al corpo di rilassarsi e aiutano a stabilizzare le emozioni. In effetti, la composizione chimica delle lacrime varia in base all’emozione, con livelli diversi di ormoni dello stress e di altre sostanze biologicamente attive.
In particolare, piangere può abbassare i livelli di manganese, un minerale che influisce sull’umore. Per questo, dopo un pianto liberatorio, ci si sente spesso più leggeri e sollevati, come se il corpo avesse espulso le emozioni negative.
Lacrime femminili e lacrime maschili: le ragioni dietro la differenza
Le statistiche sulla frequenza del pianto tra uomini e donne sono sorprendenti, e non poco: 47 pianti all’anno per le donne contro appena 7 per gli uomini. Le spiegazioni sono molteplici. Da un lato, vi sono fattori biologici legati agli ormoni: la prolattina, un ormone presente in maggiori quantità nelle donne, è associata a una maggiore predisposizione al pianto. Dall’altro, la cultura gioca un ruolo fondamentale: gli uomini sono spesso educati a reprimere il pianto, considerato come segno di debolezza, mentre le donne ricevono un’accettazione sociale maggiore verso l’espressione di emozioni visibili.
Il risultato è che le lacrime maschili sono rare, ma non per questo meno significative. «Quando un uomo piange – spiega una psicologa specializzata in dinamiche di genere – esprime un’emozione profonda che ha probabilmente accumulato per lungo tempo. Le lacrime, in questi casi, diventano una vera e propria valvola di sfogo».
Le lacrime: un linguaggio universale, ma diverso per ciascuno
Le lacrime ci accomunano, ma ogni persona piange a modo proprio e per motivi diversi. Ci sono coloro che si commuovono facilmente guardando un film o leggendo un libro, e chi, invece, versa lacrime solo in circostanze di forte impatto emotivo. Il pianto è un linguaggio universale, uno dei pochi che non richiede parole, ma allo stesso tempo rimane personale e unico per ciascuno di noi.
Nel mondo attuale, in cui l’espressione delle emozioni è sempre più incoraggiata, è probabile che questi dati sulle lacrime cambieranno nel tempo. Forse, in futuro, piangeremo meno per stress o dolore e di più per la pura gioia di sentirci vivi e connessi agli altri.
In ogni caso, la prossima volta che una lacrima scorrerà sul viso, non consideriamola solo un segno di fragilità: è una risposta naturale, parte della nostra esperienza umana, e come tale merita di essere accolta.
Curiosità
Musica e cibo! Ascolta rhythm and blues e mangi meglio!
Musica e cibo, ecco come la melodia influisce sul gusto e sull’esperienza gastronomica. L’interessante connubio può modulare la percezione del gusto, dell’odore e della vista durante i pasti.

La connessione tra musica e cibo è stata oggetto di diversi studi nel campo della neurogastronomia, rivelando interessanti correlazioni tra le melodie udite e la percezione sensoriale del gusto, dell’odore e della vista durante i pasti. Sebbene non esistano riscontri specifici riguardanti uno studio in particolare, la ricerca suggerisce una relazione diretta tra i toni delle note musicali e la percezione del sapore del cibo.
Influenza della Musica sul Gusto
Studi hanno dimostrato che la musica può modulare la percezione del sapore, con ritmi veloci e allegri che tendono ad accentuare il dolce o il salato degli alimenti, mentre melodie dolci e rilassanti promuovono una sensazione di calma e tranquillità durante il pasto. La musica ad alto volume può aumentare la percezione di intensità del sapore, mentre quella rilassante può migliorare l’esperienza gastronomica complessiva.
Implicazioni della Neurogastronomia
La neurogastronomia è una disciplina scientifica che studia l’influenza reciproca tra musica, cervello e sistema del gusto, esplorando il modo in cui la musica modula le nostre esperienze sensoriali e gastronomiche e il suo impatto sul nostro benessere generale.
Interazioni Sensoriali
Oltre alla percezione del gusto, la musica può anche influenzare l’odore e la vista degli alimenti. Ascoltare determinati generi musicali può alterare la sensibilità agli odori e la percezione estetica del cibo, contribuendo ad arricchire ulteriormente il piacere di mangiare.
La musica, quindi, non è solo un semplice accompagnamento durante i pasti, ma svolge un ruolo significativo nel modulare le nostre esperienze sensoriali e gastronomiche. Questa interazione tra musica e cibo offre interessanti possibilità per nuove scoperte culinarie e per arricchire ulteriormente il piacere del mangiare.
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