Lifestyle
Genitori iperprotettivi: quando un controllo ossessivo rischia di fare più danni che bene
Proteggere i figli è naturale, ma trasformare la cura in sorveglianza costante può ostacolare lo sviluppo emotivo e l’autonomia.
Essere presenti nella vita dei figli è una delle responsabilità più delicate dell’essere genitori. Tuttavia, negli ultimi anni si parla sempre più spesso di ipercontrollo e iperprotezione, due atteggiamenti che nascono da buone intenzioni ma che, secondo numerosi studi psicologici, possono avere effetti negativi nel lungo periodo. Dove finisce la cura e dove inizia il controllo eccessivo?
Cos’è l’ipercontrollo genitoriale
Per ipercontrollo si intende un modello educativo in cui il genitore monitora in modo costante e invasivo ogni aspetto della vita del figlio: amicizie, attività, rendimento scolastico, emozioni e perfino pensieri. L’iperprotezione è spesso la sua conseguenza diretta: evitare qualsiasi rischio, frustrazione o fallimento al bambino, anticipando ogni difficoltà.
Secondo la psicologia dello sviluppo, questo stile educativo è aumentato anche a causa della percezione di un mondo più pericoloso e competitivo, amplificata dai social media e dall’ansia sociale diffusa.
Le conseguenze durante la crescita
Nel breve periodo, bambini iperprotetti possono apparire ubbidienti, tranquilli e “ben educati”. Ma gli effetti emergono spesso più avanti. Numerose ricerche indicano che una protezione eccessiva può ostacolare lo sviluppo di competenze fondamentali come:
- la capacità di prendere decisioni autonome;
- la gestione delle emozioni negative;
- la tolleranza alla frustrazione;
- il senso di autoefficacia.
Quando ogni problema viene risolto dall’adulto, il bambino non impara a farlo da solo.
Cosa accade da adulti
Gli effetti dell’ipercontrollo genitoriale diventano più evidenti nell’adolescenza e nell’età adulta. Psicologi e terapeuti osservano con frequenza giovani adulti che mostrano insicurezza, paura di sbagliare e difficoltà nel prendere iniziative personali o professionali.
In alcuni casi, questo modello educativo è associato a livelli più elevati di ansia, dipendenza emotiva e scarsa fiducia nelle proprie capacità. Paradossalmente, chi è stato troppo protetto può sentirsi impreparato proprio quando deve affrontare il mondo in autonomia.
Il rischio di relazioni sbilanciate
Un altro effetto comune è la difficoltà nel costruire relazioni sane. Chi è cresciuto sotto stretto controllo può oscillare tra due estremi: cercare costantemente l’approvazione degli altri o, al contrario, rifiutare ogni forma di autorità. Entrambe le reazioni sono spesso il risultato di un’autonomia mai davvero sperimentata.
Proteggere senza soffocare: l’equilibrio possibile
Gli esperti concordano su un punto: non si tratta di lasciare i figli soli, ma di accompagnarli gradualmente. Un’educazione equilibrata prevede regole chiare, presenza emotiva e spazio per l’errore. Cadere, sbagliare e rimediare sono passaggi essenziali per crescere.
Insegnare ai figli a gestire il rischio, piuttosto che eliminarlo del tutto, li prepara a diventare adulti più sicuri e resilienti.
In un’epoca in cui la paura di sbagliare come genitori è sempre più forte, ricordare che l’autonomia si costruisce nel tempo è fondamentale. Perché proteggere davvero un figlio significa anche lasciargli la possibilità di diventare se stesso.
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Lifestyle
Il ghosting ferisce più di un addio: lo conferma la scienza
Il ghosting, ormai diffuso nelle relazioni sentimentali e di amicizia, provoca un dolore più duraturo e complesso rispetto a una separazione esplicita. Ecco perché lascia ferite profonde nella psiche di chi lo subisce.
Non è solo una sensazione: il ghosting, quella pratica sempre più comune di interrompere ogni comunicazione senza spiegazioni, fa realmente più male di un addio detto in faccia. A dirlo è una nuova ricerca scientifica intitolata The Phantom Pain of Ghosting: Multi-day experiments comparing the reactions to ghosting and rejection, la prima a esaminare in tempo reale gli effetti psicologici del fenomeno.
Finora gli studi sul ghosting si basavano principalmente su testimonianze o ricordi retrospettivi, ma questa nuova indagine — condotta da un team di psicologi e ricercatori internazionali — ha seguito giorno per giorno le emozioni dei partecipanti, restituendo una fotografia più realistica e precisa del suo impatto emotivo.
Nel dettaglio, i volontari hanno partecipato a brevi conversazioni quotidiane via chat con un interlocutore (in realtà un collaboratore dello studio). Monitorando costantemente il proprio stato d’animo attraverso questionari giornalieri. A un certo punto dell’esperimento, alcuni partecipanti sono stati improvvisamente ignorati — simulando quindi un episodio di ghosting —, altri hanno ricevuto invece un messaggio di rifiuto chiaro e diretto, mentre un terzo gruppo ha continuato la conversazione normalmente.
I risultati sono stati sorprendenti. Il ghosting si è rivelato più doloroso e prolungato nel tempo rispetto al rifiuto esplicito. Se quest’ultimo genera una reazione emotiva più intensa ma di breve durata. L’assenza totale di spiegazioni lascia le persone in una condizione di incertezza persistente, fatta di domande senza risposta, dubbi e senso di colpa.
“La differenza principale – spiega la ricercatrice Alessia Telari, una delle autrici dello studio – è che il ghosting priva la persona della possibilità di chiudere emotivamente la relazione. Entrambe le esperienze mettono in crisi bisogni psicologici fondamentali, come la connessione e l’autostima, ma il silenzio lascia sospesi, impedendo la guarigione.”
I ricercatori hanno osservato che le persone “ghostate” continuano per giorni a rimuginare sull’accaduto, cercando di dare un senso al silenzio dell’altro. Questo prolungamento dell’incertezza mantiene alto il livello di stress e può incidere negativamente sull’umore, sull’autostima e persino sulla capacità di fidarsi di nuovi partner o amici.
Un altro aspetto emerso riguarda la percezione morale. Chi subisce il ghosting tende a considerare l’altra persona meno empatica e meno corretta. Mentre chi riceve un rifiuto diretto, pur soffrendo, riconosce più facilmente il rispetto implicito nella sincerità. In altre parole, la franchezza, anche quando fa male, è preferibile all’indifferenza.
“I dati dimostrano che anche nelle relazioni superficiali la comunicazione conta,” conclude Telari. “Saper gestire la chiusura, anche in ambito digitale, ci rende più consapevoli e rispettosi. Parlare, spiegare e assumersi la responsabilità di dire ‘non voglio continuare’ è un atto di maturità che può evitare molto dolore inutile.”
Nel mondo iperconnesso dei social e delle app di dating, dove ogni rapporto sembra effimero e sostituibile, il ghosting è diventato quasi una norma. Ma questa ricerca scientifica ricorda che dietro a ogni silenzio c’è una persona reale, con emozioni vere.
Perciò, la prossima volta che ci si sente tentati di “sparire”, forse vale la pena ricordare che un messaggio di addio. Per quanto difficile da scrivere, può fare meno male di un silenzio che non finisce mai.
Lifestyle
Il giorno più corto dell’anno: che cos’è il solstizio d’inverno
Un evento naturale che ha guidato calendari, rituali e feste per millenni e che ancora oggi influenza il nostro modo di percepire il tempo e la luce.
Ogni anno, tra il 20 e il 22 dicembre, l’emisfero nord della Terra vive un passaggio chiave del calendario astronomico: il solstizio d’inverno. È il giorno in cui le ore di luce raggiungono il minimo e la notte domina più a lungo, segnando l’inizio ufficiale dell’inverno dal punto di vista astronomico. Ma dietro questo evento, spesso citato senza essere davvero compreso, si nasconde una combinazione di scienza e storia che ha affascinato l’umanità fin dall’antichità.
Un fenomeno astronomico, non meteorologico
Il solstizio d’inverno non ha a che fare con il freddo o con le nevicate, ma con il movimento della Terra attorno al Sole e con l’inclinazione del suo asse, che è di circa 23,5 gradi. Proprio questa inclinazione fa sì che, durante l’anno, i raggi solari colpiscano i due emisferi in modo diverso.
Nel giorno del solstizio invernale, il Sole raggiunge il punto più basso sull’orizzonte a mezzogiorno: sorge più tardi e tramonta prima rispetto a qualsiasi altro giorno dell’anno. Da quel momento in poi, le ore di luce iniziano lentamente ad aumentare, anche se il freddo può continuare a intensificarsi nelle settimane successive.
Perché si chiama “solstizio”
Il termine deriva dal latino solstitium, che significa “Sole fermo”. Per alcuni giorni intorno al solstizio, infatti, la posizione del Sole all’orizzonte sembra cambiare pochissimo, come se si arrestasse prima di invertire la rotta. È un’illusione ottica, ma abbastanza evidente da essere osservata già dalle civiltà antiche, che basavano il proprio calendario sull’osservazione del cielo.
Un evento centrale per le civiltà antiche
Molto prima dell’avvento dei calendari moderni, il solstizio d’inverno aveva un valore simbolico enorme. Rappresentava la rinascita della luce dopo il periodo più buio dell’anno. Monumenti come Stonehenge in Inghilterra o i templi solari di epoca romana e precolombiana sono allineati proprio con il sorgere o il tramontare del Sole in questo giorno.
Nell’antica Roma si celebravano i Saturnali, feste dedicate al dio Saturno, caratterizzate da banchetti e scambi di doni. Nel Nord Europa, le popolazioni germaniche festeggiavano lo Yule, un rito legato al ritorno del Sole, da cui derivano molte tradizioni natalizie ancora oggi diffuse.
Il legame con il Natale
La scelta del 25 dicembre come data del Natale cristiano non è casuale. Nei primi secoli del cristianesimo, questa data si sovrappose a celebrazioni pagane legate al Sole Invitto, simbolo della luce che rinasce. Il solstizio d’inverno divenne così, anche simbolicamente, il passaggio dalla notte alla speranza, un significato che si riflette ancora oggi nell’immaginario collettivo.
Un momento che parla anche al presente
Oggi il solstizio d’inverno è un evento osservato con precisione scientifica, ma continua a esercitare un forte richiamo culturale. Per molti rappresenta un’occasione di riflessione, di rallentamento e di rinnovamento, in un periodo dell’anno tradizionalmente dedicato alla famiglia e alla chiusura dei cicli.
Lifestyle
Natale senza stress: come affrontare le feste se il caos non fa per te
Tra cene affollate, aspettative familiari e ritmi serrati, il periodo natalizio può diventare una fonte di ansia sociale. Ecco come viverlo con più equilibrio, senza sensi di colpa.
Non per tutti il Natale è sinonimo di serenità. Accanto alle luci, ai pranzi in famiglia e agli auguri, molte persone sperimentano un aumento dello stress, soprattutto sul piano relazionale. L’ansia sociale e il sovraccarico emotivo legato alle feste sono fenomeni riconosciuti dalla psicologia: riunioni numerose, rituali obbligati e aspettative elevate possono diventare difficili da gestire, in particolare per chi è più introverso o attraversa un periodo delicato.
Perché il Natale può generare ansia
Secondo diversi studi in ambito psicologico, i momenti di forte aggregazione sociale amplificano la pressione a “stare bene a tutti i costi”. A Natale si sommano più fattori: poco tempo libero, spese, bilanci personali di fine anno e dinamiche familiari complesse. Chi soffre di ansia sociale può percepire questi eventi come una prova continua, con il timore di giudizi, confronti o conversazioni forzate.
A tutto questo si aggiunge il messaggio culturale dominante: le feste dovrebbero essere felici. Quando non lo sono, può emergere un senso di inadeguatezza che peggiora il disagio.
Ridurre le aspettative, a partire dalle proprie
Il primo passo è ridimensionare l’idea di “Natale perfetto”. Gli psicologi concordano su un punto: non esiste un unico modo giusto di vivere le feste. Concedersi il permesso di non partecipare a tutto, o di farlo in modo parziale, è una forma di autodifesa emotiva, non di egoismo.
Stabilire in anticipo quali eventi sono davvero importanti e quali invece si possono evitare aiuta a preservare energie mentali. Anche restare meno tempo a una cena o prendersi una pausa durante la giornata può fare la differenza.
Imparare a dire no (senza spiegarsi troppo)
Uno dei nodi centrali dell’ansia sociale è la difficoltà a rifiutare inviti. Eppure, imparare a dire no in modo gentile ma fermo è una competenza fondamentale. Non è necessario fornire lunghe giustificazioni: una risposta semplice e rispettosa è sufficiente.
Gli esperti di benessere emotivo sottolineano che proteggere i propri confini riduce il rischio di esaurimento psicologico, soprattutto in periodi intensi come quello natalizio.
Rituali personali contro il caos
Inserire piccoli rituali individuali nelle giornate festive può aiutare a ristabilire un senso di controllo. Una passeggiata solitaria, la lettura, l’ascolto di musica o la meditazione sono strumenti semplici ma efficaci per abbassare i livelli di stress. Anche mantenere orari regolari per il sonno e i pasti contribuisce alla stabilità emotiva.
Quando chiedere aiuto
Se l’ansia diventa persistente, con sintomi fisici o un forte evitamento sociale, parlarne con un professionista può essere utile. Le terapie cognitivo-comportamentali, ad esempio, sono considerate tra gli approcci più efficaci per l’ansia sociale, come indicato dalle principali linee guida cliniche.
Le feste natalizie non devono essere una prova di resistenza. Accettare che il Natale possa essere vissuto in modo diverso, più intimo o silenzioso, è spesso la chiave per attraversarlo con maggiore serenità. Prendersi cura di sé, anche durante le festività, è un regalo legittimo — e necessario.
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