Libri
Antonio Zequila presenta “Gli alberi di Giovanni”: un omaggio al padre e alla memoria familiare
Presso il Tartarughino, l’evento dedicato a un libro che intreccia autobiografia e memoria, raccontando la vita del padre Giovanni e l’intenso legame con Antonio, noto per il suo carisma e sensibilità.

Martedì 4 dicembre alle ore 20:00, presso il Tartarughino di Roma in Via Crescenzio 2, Antonio Zequila presenterà il suo nuovo romanzo, Gli alberi di Giovanni. Pubblicato da Rossini, l’opera è un omaggio intimo e profondo al padre Giovanni, scomparso nel 2019. Attraverso uno stile sincero e toccante, l’attore campano intreccia autobiografia e memoria, raccontando i momenti più significativi della vita del padre e della loro intensa relazione.
Un tributo a un padre speciale
Conosciuto al grande pubblico per il suo carisma, Antonio Zequila si rivela in queste pagine come un uomo profondamente legato agli affetti familiari. Gli alberi di Giovanni narra episodi che spaziano dagli anni della giovinezza del padre ai momenti più recenti, creando un ritratto vivido e sincero. Zequila esplora le proprie radici, mettendo in luce le lezioni di vita apprese dal genitore e i valori che hanno guidato la sua crescita personale e professionale.
Un viaggio tra pubblico e privato
Il romanzo non è solo un tributo a Giovanni Zequila, ma anche un’opera che offre uno spaccato della vita dell’attore, intrecciando le sue esperienze personali con i sogni cinematografici, gli amori e i viaggi intorno al mondo. L’opera rappresenta un invito a riscoprire Zequila non solo come artista, ma come uomo, capace di raccontare con delicatezza il legame indissolubile con il padre e il mondo che li ha circondati.
L’evento del 4 dicembre
Durante la presentazione, Antonio Zequila dialogherà con i partecipanti, condividendo le emozioni più profonde e i retroscena della stesura del libro. Sarà un’occasione unica per entrare nel cuore dell’opera, scoprire le riflessioni dell’autore e approfondire i temi di amore, memoria e famiglia che caratterizzano Gli alberi di Giovanni.
L’appuntamento è al Tartarughino di Roma, per una serata che promette di far emergere il lato più autentico di un artista che, tra set cinematografici e palcoscenici, non ha mai smesso di custodire e contemplare i ricordi più preziosi.
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Libri
Gerry Scotti e il nuovo libro “Quella volta”: tra aneddoti, riflessioni sulla TV e frecciate su “La Corrida” di Amadeus
Dalla collaborazione con Claudio Cecchetto alla libertà trovata in Mediaset, Gerry Scotti ricorda i momenti salienti della sua carriera e non risparmia critiche a chi, come Amadeus, ripropone programmi storici spacciandoli per eventi.

Gerry Scotti torna sotto i riflettori non solo come conduttore, ma anche come scrittore. In un’intervista a Chi, il conduttore ha raccontato del suo nuovo libro Quella volta, edito da Rizzoli, in cui intreccia i propri ricordi con alcuni momenti chiave degli ultimi 60 anni della storia italiana. Gerry, insieme ad altri protagonisti della TV anni ’80 come Amadeus, Fiorello e Paolo Bonolis, riflette su cosa significhi essere sopravvissuti nell’industria televisiva per tanto tempo, e sulle differenze con le nuove generazioni di conduttori.
La differenza tra i veterani e le nuove leve della TV
Gerry non nasconde l’orgoglio per la gavetta che lui e altri colleghi della sua generazione hanno affrontato, una formazione che, secondo lui, manca ai nuovi volti televisivi. “Noi siamo gli ultimi che hanno fatto la scuola e la gavetta, e questo ci ha resi capaci di far sembrare semplice un mestiere che non lo è,” ha affermato Scotti, “Non basta essere simpatici o fare il brillante: la conduzione è un mestiere, che richiede impegno e amore.” La sua opinione è chiara: la preparazione e il lavoro di squadra, per lui, sono ciò che distingue i grandi professionisti della TV.
Il mondo dello spettacolo e le “creazioni” tra mentori e artisti
Commentando le separazioni tra artisti e mentori, come quella recente tra Max Pezzali e Claudio Cecchetto, Gerry osserva come nel mondo dello spettacolo spesso emerga il desiderio di affermare la propria influenza su un altro talento. “Dire di avere ‘creato’ qualcuno è come sentirsi Dio,” ha spiegato, “A volte è proprio questo atteggiamento che porta a litigare. Io e Cecchetto non abbiamo avuto screzi perché, quando lui mi ha voluto al suo fianco, ero già Gerry Scotti: è stata una scelta reciproca.” Secondo il conduttore, Pippo Baudo è l’unico che può rivendicare di aver davvero scoperto numerosi talenti, avendo guidato e lanciato carriere con il suo programma.
L’indipendenza di Gerry Scotti a Mediaset
Gerry sottolinea anche il suo rapporto con Mediaset, ricordando come la TV commerciale gli abbia sempre permesso di essere se stesso. “Mi avete sentito parlare di zuppe, bevande e pannolini, ma mai nessuno mi ha imposto cosa dire. Sono un uomo libero,” ha affermato con orgoglio.
Gerry Scotti e le critiche al ritorno de “La Corrida”
Sulla sfida con Amadeus, che ha portato La Corrida su Discovery, Gerry non risparmia qualche stoccata. “È positivo cambiare rete, ma non vedo un grande evento in un format come La Corrida,” ha detto, “A volte si camuffano da eventi dei semplici ritorni di programmi già visti.” Tuttavia, ammette che la longevità dei format è parte del mondo televisivo: “Non dobbiamo vergognarci dei titoli storici, ma solo di farli male. In America, programmi con oltre 50 anni di storia continuano ad essere seguiti da milioni di persone.”
Progetti futuri e possibili ritorni
Scotti, in ogni caso, non esclude l’idea di riprendere alcuni dei suoi “cavalli di battaglia”, anche se al momento il suo prossimo impegno resta la conduzione di Striscia la notizia. “Chi vuol essere milionario? e The Wall potrebbero sfidare qualunque programma,” ha aggiunto con un tocco di orgoglio, “ma per ora non fanno parte dei miei progetti.”
Libri
Elle Macpherson: «Bevevo vodka ogni sera fino a perdere i sensi, ora festeggio 20 anni di sobrietà»
Un circolo vizioso iniziato con la nascita del figlio più piccolo e che l’ha portata a dipendere dall’alcol. Tra blackout, ossessioni e il bisogno di mantenere un’immagine impeccabile, Elle è riuscita a ritrovare se stessa dopo anni di lotta.

Elle Macpherson, una delle supermodelle più famose al mondo, ha rivelato il lato oscuro della sua vita apparentemente perfetta. Nel suo nuovo libro autobiografico Elle: Life, Lessons & Learning to Trust Yourself, la top model australiana, oggi 60enne, racconta il periodo più difficile della sua vita, quando l’alcol aveva preso il controllo delle sue giornate.
Prigioniera dell’alcol
La dipendenza è iniziata poco dopo la nascita del figlio più piccolo, Cy, oggi 21enne. «La mia vita sembrava perfetta a tutti, ma dentro di me stavo lottando», scrive Elle. Ogni sera, dopo aver messo a letto Cy e Flynn, allora bambini, beveva vodka fino a perdere i sensi. «Cercavo di rilassarmi e di mantenere quell’immagine impeccabile che il pubblico si aspettava da me».
Mentre il compagno dell’epoca, il finanziere francese Arpad “Arki” Busson, era spesso assente, Elle si trovava intrappolata in un circolo vizioso: feste, alcol e il bisogno di dimostrarsi perfetta in ogni aspetto della sua vita.
Blackout e ossessioni
Le conseguenze non tardarono ad arrivare. «Mi infilavo le dita in gola e mi assicuravo di vomitare tre volte prima di andare a dormire», racconta Elle, descrivendo la rigidità con cui gestiva la sua vita. A peggiorare la situazione, i blackout frequenti: «Parlavo con qualcuno e dimenticavo quello che stavo dicendo. Mi guardavano perplessi».
Un episodio particolarmente drammatico avvenne a Ibiza, durante un’estate trascorsa con la famiglia. Dopo settimane di sobrietà, bastò una serata per farla crollare: «Rompendo il tappo di vetro di una bottiglia, versai uno shot e lo bevvi, frammenti di vetro compresi. Ricordo di aver pensato: “Adoro questa sensazione”».
La rinascita: 20 anni di sobrietà
Nonostante le difficoltà, Elle ha trovato la forza di combattere. Nel 2003 ha deciso di smettere di bere, iniziando un percorso che l’ha portata a festeggiare, lo scorso anno, 20 anni di sobrietà. «Ho smesso perché non riuscivo a essere pienamente presente nella mia vita. È difficile conoscersi davvero se ti stai anestetizzando», ha spiegato.
Oggi, Elle Macpherson è una donna nuova, capace di guardare al passato con consapevolezza e di condividere la sua storia per ispirare chiunque affronti le stesse battaglie. Attualmente si trova a New York per promuovere il suo libro, un’opera che rappresenta non solo un viaggio nella sua vita, ma un messaggio di speranza e resilienza.
Libri
Qualcuno mi uccida: il nuovo thriller di Diego Pitea che sa di Calabria e brucia come un segreto taciuto
Con Qualcuno mi uccida, edito da AltreVoci, Pitea firma un noir viscerale e spietato, figlio della sua terra e delle sue ossessioni. Un libro che consacra la sua voce tra le più credibili del nuovo giallo italiano

“Qualcuno mi uccida” non è solo il titolo del nuovo romanzo di Diego Pitea. È un grido, una richiesta disperata, un invito a guardare l’abisso senza più chiudere gli occhi. È anche il manifesto di uno stile preciso, diretto, senza fronzoli: quello di un autore che scrive da sud, ma non si accontenta delle cartoline.
Nato e cresciuto a Reggio Calabria, Pitea ha fatto della sua terra un campo di battaglia interiore e narrativo. Insegue i suoi personaggi nei vicoli e nei pensieri, li porta sull’orlo della rovina e poi li lascia lì, sospesi, come fanno le vite vere quando si rompono.
Con questo nuovo libro, presentato al Salone del Libro di Torino, l’autore calabrese si conferma una delle voci più potenti del nuovo giallo italiano: un noir che non cerca consolazione, che non chiude con la morale, che morde.
Pubblicato da AltreVoci Edizioni, Qualcuno mi uccida è un romanzo che ha l’odore del sangue secco e il ritmo di una confessione notturna. Dentro ci sono la paura, la colpa, la giustizia che non arriva. Ma soprattutto c’è la voce di Pitea, ruvida come la pietra e precisa come una lama.
Chi lo ha conosciuto sa che Diego scrive per necessità, non per mestiere. Il suo percorso è iniziato quasi per sfida, con un giuramento legato a una ferita personale – la malattia della madre – e si è trasformato in un destino narrativo. Dopo il successo di Rebus per un delitto e La stanza delle illusioni, arriva ora questo libro che più di tutti sembra gridare la sua urgenza.
Nel romanzo, tutto ruota attorno a una domanda senza risposta: quando la verità fa male, è meglio dirla o seppellirla? Da lì si dipana una trama serrata, fatta di indagini deviate, sospetti che si annidano tra le parole, e una Calabria che non fa da sfondo, ma da motore emotivo e simbolico. Non una terra folkloristica, ma un luogo dove si muore davvero, e non solo nei romanzi.
Diego Pitea non scrive gialli da scaffale. Scrive storie che fanno male, che ti restano appiccicate addosso come il fumo nelle scale di un vecchio palazzo. E lo fa con una penna che conosce il dolore, la rabbia, ma anche il peso dei silenzi.
Chi è cresciuto “nella punta dello Stivale” lo sa: là dove l’Italia sembra finire, spesso iniziano le storie più feroci. Quelle che non hanno bisogno di effetti speciali, perché la realtà è già abbastanza spietata.
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