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Cronaca di un fallimento: Kamala Harris racconta in “107 Days” la corsa più breve (e disastrosa) alla Casa Bianca

Kamala Harris ha annunciato l’uscita di 107 Days, il volume in cui ripercorre i tre mesi scarsi della sua avventura presidenziale democratica, naufragata tra sondaggi impietosi e fughe di sponsor. La decisione di non candidarsi come governatore della California nel 2026 sembra un passo indietro tattico, in vista di un possibile ritorno alla corsa presidenziale nel 2028

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    Una corsa lampo, un tonfo fragoroso e ora un libro che tenta di rimettere insieme i cocci. Kamala Harris ha annunciato la pubblicazione di 107 Days, il memoriale della campagna elettorale più breve della storia politica moderna americana: appena tre mesi di tour, comizi e interviste prima della resa, che ha di fatto consegnato la Casa Bianca di nuovo a Donald Trump.

    Il volume sarà in libreria il 23 settembre per Simon & Schuster, con la promessa di svelare retroscena e riflessioni di un’esperienza che ha segnato un punto di non ritorno nella carriera politica dell’ex vicepresidente. Nel video di lancio Harris appare sorridente ma provata, e introduce così il libro: «Poco più di un anno fa ho lanciato la mia campagna per la presidenza degli Stati Uniti. Centosette giorni in viaggio per il Paese, lottando per il nostro futuro. È stata la campagna più breve della storia moderna. Dopo aver lasciato l’incarico, ho riflettuto molto su quei giorni e ho scritto un resoconto sincero di ciò che ho visto e imparato».

    Dietro le parole, il peso di una sconfitta bruciante. La sua candidatura, nata tra grandi speranze e spinte mediatiche, si è sgonfiata sotto il fuoco incrociato di sondaggi impietosi, raccolte fondi al rallentatore e l’ombra ingombrante di Trump, tornato a dettare legge nel campo avversario.

    La Harris, intanto, ha fatto un passo indietro anche a livello locale: ha annunciato che non correrà come governatore della California nel 2026, una mossa interpretata dagli analisti come una pausa strategica in vista di un possibile tentativo di rivincita presidenziale nel 2028.

    107 Days si propone come un viaggio dentro errori e lezioni di una campagna-lampo: un racconto di incontri, paure e strategie mai decollate, in cui la politica americana si specchia in un caso emblematico di ascesa bruciata e caduta rapida. Resta da vedere se il libro riuscirà a restituire a Kamala Harris almeno la narrazione di un fallimento dignitoso, mentre Trump brinda al suo secondo mandato e i democratici si leccano le ferite.

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      Libri

      Un documentario celebra il Cedro di Calabria: presentato il dossier sulla Citrus medica

      La prima parte del progetto “Melon, Citrus, Cedro? Storia, filologia e simbolismo della Citrus medica” è disponibile sul sito ARSAC. Un percorso tra storia antica, tradizione religiosa, linguistica e memoria agricola, sostenuto dal PSR Calabria e introdotto dal giornalista Paolo Di Giannantonio. L’edizione completa arriverà per Calabria Città Edizioni – Rubbettino Editore.

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        Il cedro non è solo un agrume: per la Calabria è simbolo, radice, materia viva di memoria collettiva. L’ARSAC – Azienda Regionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura Calabrese – presenta la prima parte del dossier-documentario “Melon, Citrus, Cedro? Storia, filologia e simbolismo della Citrus medica”, firmato dal Dott. Gianbattista Sollazzo, riconosciuto studioso delle fonti storiche legate al cedro. Un lavoro che accompagna il lettore alle origini di un frutto millenario, ponte tra cultura mediterranea, religione e identità territoriale.

        Tra ricerca storica e radici spirituali
        Il progetto nasce nell’ambito delle “Azioni informative e dimostrative sul territorio regionale”, finanziate dal FEASR – Misura 1, Intervento 1.2.1 del PSR Calabria 2014/2022, con il sostegno dell’Assessore regionale all’Agricoltura, On. Gianluca Gallo, e della Direttrice Generale ARSAC, Dott.ssa Fulvia Michela Caligiuri. Il dossier ricostruisce la storia del cedro attraverso testi classici, linguistica antica e testimonianze religiose, in particolare sul legame tra il cedro-etrog e la tradizione ebraica, di cui la Riviera calabrese rappresenta un punto nevralgico riconosciuto nel mondo.

        Accanto al rigore storico, la pubblicazione porta firme di rilievo. La supervisione scientifica è del Prof. Giuseppe Squillace, Ordinario di Storia Greca dell’Università della Calabria, mentre la prefazione è affidata al giornalista e volto televisivo Paolo Di Giannantonio. Un contributo decisivo arriva anche dal Rabbino Moshe Lazar e da suo figlio Menachem, che hanno autorizzato l’uso delle immagini legate alla raccolta degli etrogim per Sukkot e offerto un prezioso supporto all’inquadramento simbolico e religioso del frutto.

        Verso l’edizione completa
        Il lavoro fotografico è curato da Eugenio Magurno, con materiale aggiuntivo messo a disposizione dalla Dott.ssa Mery Casella (MC Social Marketing). Questa pubblicazione rappresenta solo l’inizio: seguirà infatti un’edizione integrale, edita da Calabria Città Edizioni – Rubbettino Editore, con ulteriori approfondimenti storici, filologici e antropologici.

        La prima parte dell’opera è consultabile sul sito ARSAC, un invito a riscoprire il cedro non solo come prodotto agricolo, ma come simbolo profondo e identitario di una terra che continua a raccontarsi attraverso i suoi frutti e la sua storia millenaria.

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          “Vlad, il figlio del Drago – Le cronache di Dracula”: Mursia porta in libreria l’origine oscura del mito, dove storia, sangue e destino forgiano l’uomo prima del mostro

          Non il vampiro della letteratura ottocentesca, ma il principe guerriero, l’ostaggio del Sultano, il ragazzo cresciuto tra intrighi ottomani e tradimenti valacchi. Con Vlad, il figlio del Drago, Mursia inaugura una saga che riscrive Dracula partendo dalla sua dolorosa umanità, tra battaglie, psicologia e un amore impossibile destinato a segnare il suo fato.

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          Vlad, il figlio del Drago

            L’uomo dietro il mito
            Dimenticate il mantello, i canini e la notte eterna. Vlad, il figlio del Drago – Le cronache di Dracula non insegue il vampiro della fantasia, ma l’uomo che venne prima: Vlad III, principe di Valacchia, condottiero spietato e simbolo di un’epoca in cui potere e sopravvivenza erano sinonimi. Luca Arnaù sceglie la via più ambiziosa: restituire Dracula alla Storia. Il risultato è un romanzo ruvido, immersivo, scolpito nel ferro e nel fuoco delle campagne balcaniche del Quattrocento.

            Ostaggi del Sultano, figli della guerra
            Il racconto si apre nel 1442. Vlad e il fratello Radu vengono consegnati alla corte del sultano Murad II. È l’inizio della prigionia, ma anche della metamorfosi. Nel serraglio ottomano non c’è spazio per l’infanzia: ci sono disciplina, umiliazione, paura, desiderio di riscatto. Arnaù descrive questo crogiolo emotivo con un realismo che brucia, mescolando formazione militare, raffinata crudeltà politica e l’ombra lunga della vendetta. In queste pagine nasce l’Impalatore, temprato dalla ferocia ma guidato da una volontà assoluta: riconquistare il trono e difendere la sua terra, a qualunque costo.

            Sangue, potere e una crepa nel cuore
            Le battaglie sono feroci, mai compiaciute ma densissime: acciaio, fango, disciplina, e la lucidità strategica di un uomo che conosce il nemico perché un tempo ne ha condiviso la tavola. Quando Vlad torna in Valacchia, trova tradimenti, boiardi pronti a venderlo e un regno in bilico tra due imperi. È qui che la narrazione si apre a una dimensione più intima: l’incontro con Leila. Non romanticismo gratuito, ma un’interferenza umana nel destino di un uomo votato alla guerra. Lei non lo addolcisce: lo rivela. Mostra la crepa dove entrano luce e tormento, ricorda che dietro l’acciaio della leggenda c’è ancora carne.

            Arnaù firma un romanzo storico che non cerca redenzione né condanna: racconta. E nel racconto, Vlad torna vivo, inquieto, irriducibile — prima di diventare mito, era un uomo. E proprio per questo fa paura di più.

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              Sonia Bruganelli: «L’aborto a 24 anni, il tradimento, Paolo e io. Vi racconto tutto quello che mi ha cambiato»

              Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.

              Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».

              Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».

              Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».

              Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».

              Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».

              Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.

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                Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.

                Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».

                Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».

                Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».

                Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».

                Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».

                Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.

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