Lifestyle
Niksen, l’arte di non fare nulla senza farsi perseguitare dai sensi di colpa
Sembra una parola di origine nipponica e invece Niksen identifica un arte che alcuni attribuiscono all’Olanda l’arte di non fare nulla.
Sembra una parola di origine nipponica e invece Niksen identifica un arte che alcuni attribuiscono all’Olanda l’arte di non fare nulla. Ma proprio nulla nulla senza avere sensi di colpa. Eh già perché se non siamo indaffarati a fare o pensare qualche cosa spesso ci sentiamo in colpa. In realtà scopriamo che non si tratta di “non fare nulla”, ma, meglio, di “non porsi obiettivi per ogni azione che compiamo”. Alla faccia del burnout – caricarsi di troppo lavora – il Niksen si sta diffondendo a macchia d’olio. E’ vero comunque che il termine Niksen è diventato di tendenza a colpi di successi editoriali.
L’errore è porsi sempre degli obiettivi
Olga Mecking è l’autrice di “Niksen: Embracing the Dutch Art of Doing Nothing “(Harvest editore) uscito proprio mentre i Paesi Bassi entravano nel primo lokdown alla fine del 2020. Un successo tradotto in 13 lingue (non ancora l’italiano), che ha conquistato soprattutto i francesi. E ha dato il “la” a una nuova tendenza mondiale “L’arte di non fare assolutamente nulla, o meglio, di non porsi alcuno scopo”. Un anno dopo in Italia Giunti editore ha pubblicato il testo di Annette Lavrijsen “L’arte di non fare niente per vivere slow“.
In effetti è come scrive Olga Mecking, ci risulta difficile non guardare un film, non scorrere i social media, non leggere le email… “Il fatto è che abbiamo sempre in mente qualche tipo di risultato“, dice Olga. “In ogni nostra azione pensiamo a cosa serve, se è fatta bene o male, qual è l’obiettivo. Quando prepariamo i pasti, per esempio, spesso ci chiediamo ‘Questo piatto mi aiuterà a dimagrire o ‘mi renderà più sano. Se ci concediamo una passeggiata, miriamo all’obiettivo dei 10.000 passi quotidiani consigliati per la salute. Ma in questo modo, perdiamo il semplice piacere di mangiare o di camminare”. E’ questo quindi il vero significato di Niksen, non fissarsi su alcun obiettivo?
Ma perché “a non far nulla” ci si sente in colpa?
Molte persone al solo pensiero di non essere indaffarate a compiere qualche azione perderebbero la testa, andrebbero in tilt. Perché la nostra mente fa il suo mestiere: ovvero c propone ogni secondo idee. A “non far nulla” ci si sente in colpa. Carolien Hamming, fondatrice e ceo di CSR Centrum, un centro di ricerca sullo stress e sulla resilienza appena a sud di Utrecht, ha qualche dubbio sul successo che questa ‘filosofia’ nei Paesi Bassi. Gli olandesi con il Niksen non hanno nulla a che fare, dice. “Non ha niente a che vedere con la nostra cultura. Al contrario, noi siamo calvinisti e abbiamo la cultura del lavoro nel sangue. Siamo cresciuti nella convinzione che dobbiamo sempre essere utili e disponibili. Il Niksen è il diavolo da cui non viene nulla di buono”.
Eppure l’idea di non fare nulla piace
Eppure pur avendo un livello di benessere ai vertici europei questo modo di prendere la vita si è diffusa rapidamente. Il 64% degli olandesi ha sperimentato lo stress derivato dal troppo lavoro. “Il burnout non è un fenomeno unicamente olandese, ma è un problema crescente anche da noi”, ha spiegato Roel Fransen, responsabile delle risorse umane presso Oval, un’azienda che promuove l’impegno sul posto di lavoro. Secondo Fransen il fenomeno non è “uno stile di vita ‘propria’ olandese, ma piuttosto una reazione alla vita moderna”. Olga Mecking nel suo libro invita i suoi lettori a “non porsi obiettivi per ogni azione che si compie”. E suggerisce di dedicarsi consapevolmente a non fare nulla di produttivo, lasciando che la mente vaghi libera e allontanando il disagio che ne può derivare. In sintesi Niksen significa fermarsi e apprezzare il momento presente e abbandonare la fretta. provare a non pensare all’utilità delle nostre azioni, fare qualcosa (o non fare nulla) per godersi il momento. Stop.
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Animali
Cosa dice la coda del gatto: i movimenti che svelano emozioni, intenzioni e piccoli segreti felini
La coda è il linguaggio silenzioso dei gatti. Da un semplice movimento si può capire se il micio è felice, irritato o pronto al gioco.
Chi vive con un gatto lo sa: la coda è il suo megafono silenzioso. Non è solo un accessorio per l’equilibrio, ma un vero strumento di comunicazione. Muovendola, il micio invia messaggi precisi, spesso più sinceri dei miagolii. La posizione, la tensione e la velocità dei movimenti raccontano molto del suo umore. Imparare a leggere quei segnali è il modo migliore per comprenderlo e rispettare i suoi spazi.
Dritta, morbida o a frusta: cosa significa
Una coda dritta verso l’alto, magari con la punta leggermente piegata, indica felicità e fiducia: è il saluto del gatto quando ci viene incontro con passo sicuro. Se la muove lentamente da un lato all’altro, è concentrato o curioso: ha visto qualcosa che lo interessa ma non lo spaventa.
Quando invece la coda si gonfia e vibra, è segno di allerta o paura: meglio non avvicinarsi. Una coda bassa e rigida può indicare tensione o fastidio, mentre un movimento rapido e nervoso, come una frustata, rivela irritazione. Attenzione: se lo si accarezza in quel momento, può scattare un morso “educativo”.
Ci sono poi i momenti di tenerezza: se il gatto avvolge la coda intorno a noi o a un altro animale, sta esprimendo affetto e appartenenza.
Osservare, non interpretare a caso
Ogni gatto ha un suo modo di usare la coda, e il contesto è fondamentale. Un movimento che in un micio può significare curiosità, in un altro può essere un avvertimento. Il trucco è osservare il linguaggio del corpo nel suo insieme: orecchie, occhi e postura completano il messaggio.
La coda, in fondo, è la sua voce più sincera. Seguirla è come leggere un piccolo diario quotidiano scritto nell’aria. E se un giorno il vostro gatto vi accoglie con la coda alta e vibrante, non servono traduzioni: vi sta semplicemente dicendo “sono felice di vederti”.
Cucina
Natale a tavola: il grande viaggio nei sapori dell’Italia, da Nord a Sud
Cenone di magro, pranzo del 25, dolci della tradizione, pesci rituali e primi piatti d’altri tempi: un mosaico gastronomico che racconta la storia delle comunità e le identità locali.
La mappa del gusto delle feste
In Italia non esiste un solo “menu di Natale”. Il Paese, con le sue mille culture e storie regionali, celebra le feste attraverso una straordinaria varietà gastronomica. Al Centro e al Sud la cena più importante è quella della Vigilia, consumata rigorosamente “di magro”, mentre in gran parte del Nord l’appuntamento cruciale è il pranzo del 25 dicembre.
A cambiare non sono soltanto gli orari, ma anche gli ingredienti, le modalità di preparazione e persino il simbolismo dei piatti. In comune rimangono solo alcune certezze: la frutta secca, considerata beneaugurante, e i dolci iconici come panettone e pandoro.
Le tradizioni del Nord: sapori forti e cotture lunghe
Sulle tavole della Valle d’Aosta si celebra la carne, con la carbonade — manzo stufato nel vino rosso — a rappresentare uno dei piatti più identitari del periodo. Non mancano sfiziosità come i crostini al miele, accompagnati da salumi locali di capra e pecora.
In Piemonte le feste significano agnolotti e bollito misto, servito con le salse tradizionali come bagnet verd e bagnet ross. In Liguria, invece, prevale la leggerezza del mare: ravioli di pesce, verdure e il celebre cappon magro, un imponente piatto di pesce e ortaggi stratificati.
La Lombardia custodisce una tradizione inaspettata: l’anguilla, spesso cotta al cartoccio, protagonista della Vigilia in molte famiglie. In Veneto convivono polenta e baccalà mantecato, mentre il lesso con le salse rimane un must del 25 dicembre.
In Friuli Venezia Giulia il freddo invernale porta in tavola la brovada e muset, rape macerate nella vinaccia servite con cotechino. In Trentino-Alto Adige il Natale profuma di canederli, capriolo e strudel, ma anche del ricco zelten, un pane dolce a base di frutta secca e canditi.
Il Centro Italia: tra pasta ripiena, pesce e arrosti importanti
L’Emilia Romagna è da sempre regina della pasta fresca: tortellini, passatelli e lasagne sono i protagonisti assoluti del pranzo del 25. Tuttavia, esistono zone come Modena dove la Vigilia è da tradizione “di pesce”, con spaghetti a base di tonno, sgombro e acciughe.
Nel Lazio il 24 dicembre porta in tavola baccalà fritto, fritto misto di verdure e il simbolico capitone. A Roma non mancano piatti storici come la minestra di pesce, la pasta e broccoli in brodo di arzilla e gli spaghetti con le alici. A Natale si passa alla carne: abbacchio al forno, cappelletti in brodo e bollito misto sono riti tramandati di generazione in generazione.
In Toscana si aprono le danze con i crostini ai fegatini e si prosegue con arrosti di faraona, anatra o cappone ripieno. Nelle Marche dominano i maccheroncini di Campofilone, mentre in Umbria spiccano i cappelletti ripieni spesso anche di cappone e piccione.
In Abruzzo il pranzo si arricchisce di agnello arrosto, lasagne e zuppe. Imperdibili i caggionetti, dolcetti fritti ripieni di castagne o mandorle.
Il Sud: trionfo di mare, frattaglie rituali e dolci sorprendenti
La Campania accoglie il Natale con un patrimonio gastronomico ricchissimo. La Vigilia è dominata dal pesce: spaghetti alle vongole, insalata di rinforzo e naturalmente il capitone, scelto per un’antica tradizione simbolica che lo associa alla vittoria sul male. Il 25 dicembre si passa a zuppe, struffoli, roccocò e molta frutta secca.
In Basilicata le feste portano in tavola zuppe di verdure come scarole e cardi in brodo di tacchino, oltre al baccalà lesso e alle scarpedde, sfoglie fritte ricoperte di miele. In Calabria si celebrano salumi e primi semplici ma saporiti come spaghetti con mollica e alici, oltre al pesce stocco e al capretto accompagnato da broccoli tipici.
La Puglia porta sulle tavole pettole, frittelle che possono essere salate o dolci, oltre all’anguilla arrostita e al baccalà fritto. L’agnello al forno con i lampascioni rappresenta una delle ricette più identitarie.
Le isole: tra pasta ripiena, mare e dolci storici
In Sardegna i culurgiones e i malloreddus dominano la tavola natalizia, mentre in Sicilia i profumi sono quelli di arance, aringhe, pasta con le sarde e beccafico. Lo sfincione è un must delle feste, così come i dolci: buccellati, cassate e cannoli.
Lifestyle
Grasso incrostato su padelle e pentole: i metodi davvero efficaci per eliminarlo
Dal bicarbonato al lavaggio con acqua calda, fino agli errori da evitare: una guida pratica, basata su indicazioni di esperti e manuali tecnici, per rimuovere sporco e bruciature senza danneggiare i materiali.
La cucina è un terreno di battaglia quotidiano e le pentole sono le prime vittime. Grasso vecchio, residui carbonizzati, macchie scure sul fondo: col tempo anche i materiali più resistenti cedono agli accumuli. Che si tratti di acciaio, ghisa, alluminio o antiaderente, ogni superficie richiede una strategia specifica per eliminare le incrostazioni senza graffiarla o comprometterne la durata. Eppure, secondo molti tecnici del settore, i metodi davvero efficaci sono pochi e tutti basati su principi semplici: calore, ammollo e agenti leggermente abrasivi, usati però nel modo corretto.
La prima procedura consigliata dagli esperti è l’ammollo prolungato in acqua molto calda e detersivo. Sembra banale, ma il calore ammorbidisce il grasso ossidato e permette di staccare con facilità strati che a freddo risultano durissimi. Dopo 30-60 minuti, una spugna non abrasiva o un raschietto in plastica permettono di rimuovere buona parte dei residui senza graffiare la superficie. Questo metodo è particolarmente adatto per padelle antiaderenti e pentole con rivestimenti delicati, che non tollerano spugnette in metallo.
Per le incrostazioni più dure, soprattutto su acciaio inox e ghisa, entra in gioco un alleato classico: il bicarbonato di sodio. Sciolto in poca acqua fino a creare una pasta, il bicarbonato agisce come abrasivo delicato e, grazie alla sua lieve alcalinità, aiuta a sciogliere i grassi carbonizzati. Molti chef consigliano di scaldare leggermente la pentola con la pasta sopra: il calore attiva la reazione, rendendo la rimozione più efficace. Un’alternativa altrettanto utile è il binomio bicarbonato + aceto: quando si combinano, la reazione effervescente aiuta a sollevare lo sporco, anche se l’effetto dell’aceto come sgrassante funziona soprattutto per depositi superficiali.
Per alluminio e rame, però, serve prudenza: gli acidi possono intaccare la superficie, per cui è meglio evitare soluzioni aggressive e limitarsi a bicarbonato, acqua calda e detergenti neutri. Le pentole in ghisa smaltata, invece, possono essere trattate con acqua bollente e un cucchiaio di bicarbonato lasciato agire per alcuni minuti. Una volta terminato, l’asciugatura va completata sempre a caldo, per prevenire ruggine o macchie.
Un altro metodo, spesso consigliato dai tecnici delle case produttrici, è quello del “bollito sgrassante”: riempire la pentola con acqua, aggiungere un cucchiaio di bicarbonato o qualche goccia di detersivo e portare a ebollizione. Il calore costante scioglie i residui, che si staccano più facilmente una volta raffreddato il tutto. È un sistema sicuro per acciaio e ghisa, ma va evitato su rivestimenti antiaderenti non più recenti o danneggiati.
Esistono anche prodotti specifici per eliminare incrostazioni ostinate, ma non tutti sono adatti a ogni materiale. I detergenti altamente alcalini o i sgrassatori professionali, spesso usati in ristoranti e cucine industriali, possono corrodere il rivestimento antiaderente o opacizzare acciaio e alluminio. Per questo è sempre importante seguire le indicazioni riportate nei manuali delle pentole, che suggeriscono cosa evitare.
E gli errori da non fare? Il più comune è l’uso di pagliette metalliche o spugne troppo abrasive su superfici antiaderenti: graffiano il rivestimento e riducono la vita utile della padella. Allo stesso modo, lasciare residui bruciati per giorni rende l’incrostazione molto più difficile da rimuovere: intervenire rapidamente è sempre più efficace che aspettare.
In definitiva, liberarsi del grasso incrostato non richiede prodotti miracolosi ma una combinazione di tempo, calore e tecniche corrette. Con un po’ di pazienza — e gli strumenti giusti — anche le padelle apparentemente irrecuperabili possono tornare a splendere come nuove.
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