Lifestyle
Occultisti, maghi e cartomanti: un’evasione fiscale davvero soprannaturale!
Secondo i dati dell’Osservatorio Antiplagio, dietro il richiamo degli arcani si nasconde spesso un lato oscuro. Mentre molte persone si rivolgono a questi praticanti in cerca di conforto e orientamento, alcuni sedicenti veggenti e cartomanti evadono il fisco, guadagnando in nero e sfruttando le persone deboli.
Nonostante le controversie e le critiche, il fascino dell’occulto continua a esercitare un’influenza significativa sull’Italia, evidenziando la persistenza di antiche credenze e tradizioni in un mondo in rapido cambiamento.
In un’Italia in cui la modernità si intreccia con la tradizione, un dato sorprendente emerge dalle pieghe della società contemporanea: quasi il 20% della popolazione italiana, pari a circa 12 milioni di persone, si rivolge regolarmente a maghi, cartomanti, occultisti e veggenti nella speranza di risolvere una vasta gamma di problemi o risposte a domande esistenziali, la necessità di trovare soluzioni a problemi sentimentali, lavorativi o di salute spesso sfuggenti alla logica razionale, spingono molta gente a rivolgersi a figure che promettono una visione alternativa della realtà.
Un business redditizio
In un’analisi dettagliata dell’Osservatorio Antiplagio durante una ricerca nel settore dell’occulto in Italia, emergono cifre sorprendenti che delineano un panorama finanziario complesso e poco regolamentato.
La spesa totale per i consulti in studio ammonta a 600 milioni di euro, rappresentando solo il 10% del totale. Di conseguenza, il totale degli introiti annuali nel settore occulto si attesta intorno ai 6 miliardi di euro.
Evasione fiscale a tutto spiano!
Ma ciò che desta maggior preoccupazione è l’incidenza dell’evasione fiscale in questo settore. Con un tasso impressionante del 98%, l’evasione delle imposte nel mondo dell’occulto rappresenta la più alta in assoluto. Solo il 2% dei clienti afferma di aver ricevuto regolari documenti fiscali per i loro consulti. Il restante 98% si divide tra coloro che hanno ricevuto una quietanza anonima (54%) e coloro che non hanno ricevuto alcuna certificazione della spesa (44%).
Ma mentre alcuni vedono in queste pratiche una fonte di conforto e orientamento, altri sollevano dubbi sulla loro efficacia e moralità, mettendo in discussione la credibilità di coloro che affermano di possedere poteri paranormali.
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Cucina
Vin brulè, il profumo dell’inverno: la bevanda calda che riscalda mani, cuore e memoria
Una tradizione antica, nata per scaldare i viaggiatori nelle locande di montagna e oggi diventata un rituale conviviale. Prepararlo in casa è facile: basta scegliere il vino giusto e dosare con cura le spezie.
C’è un momento, tra novembre e gennaio, in cui il profumo del vin brulè sembra inseguirci ovunque: nei mercatini di Natale, nelle baite, perfino nelle piazze delle città. È un aroma che sa di legno e agrumi, di cannella e fuoco acceso, capace di risvegliare ricordi e riscaldare anche le giornate più fredde.
La sua storia è antichissima. Già i Romani bevevano il conditum paradoxum, un vino dolce scaldato con miele e spezie, antesignano dell’attuale vin brulè (dal francese vin brûlé, “vino bruciato”). In origine era un rimedio contro i malanni invernali, ma col tempo è diventato un piacere da condividere.
Oggi ogni regione ha la sua versione: in Trentino si usa il Merlot o il Lagrein, in Valle d’Aosta il Petit Rouge, in Piemonte il Barbera. Ma la regola resta la stessa: serve un rosso corposo, non troppo giovane, capace di resistere al calore senza perdere carattere.
La preparazione è un gesto antico, quasi rituale. In una casseruola si versa il vino con zucchero, scorza d’arancia e di limone, cannella, chiodi di garofano, anice stellato e — per i più audaci — una punta di noce moscata o di pepe. Si scalda lentamente, senza mai far bollire, finché lo zucchero si scioglie e la casa si riempie di un profumo avvolgente. Poi si filtra e si serve bollente, in tazze spesse o bicchieri resistenti, magari accompagnato da biscotti di panpepato o castagne arrosto.
Il segreto sta nell’equilibrio: troppo zucchero lo rende stucchevole, troppe spezie lo coprono. Il vin brulè perfetto è armonia — caldo ma non bruciante, dolce ma non sciropposo, aromatico ma mai invadente.
E come tutte le tradizioni che resistono al tempo, la sua magia è nella condivisione. Un sorso di vin brulè non si beve da soli: si offre, si racconta, si alza in un brindisi lento che sa di inverno, amicizia e ritorno alle origini.
Moda
Moda, il ritorno del paltò: classico, oversize o vintage, il cappotto dell’inverno si porta con personalità
Simbolo di stile e sobrietà, il cappotto lungo riconquista passerelle e armadi. Tra lana spessa, tweed o cashmere, è il capo chiave dell’autunno-inverno 2025.
Il ritorno del cappotto lungo
È ufficiale: il paltò è tornato. Dopo stagioni dominate da piumini tecnici e bomber oversize, il cappotto lungo torna a dettare legge, riscoprendo l’eleganza classica. Le passerelle di Parigi e Milano l’hanno consacrato protagonista assoluto dell’inverno: tagli dritti, spalle importanti e silhouette pulite. Ma non è un ritorno nostalgico — il nuovo paltò gioca con proporzioni, tessuti e dettagli contemporanei. Il fascino è quello di un capo che non urla, ma comunica con autorevolezza.
Dalla sartoria al guardaroba urbano
Una volta simbolo di rigore, oggi il paltò si reinventa. Si porta aperto, con sneakers o stivali, su jeans o completi fluidi. La moda lo mescola al quotidiano, lo alleggerisce, lo rende democratico. I colori? Dominano i neutri — cammello, grigio, blu notte, ma anche nero e verde bosco. Per chi osa, tornano i quadri e i motivi check di ispirazione british, in perfetto equilibrio tra nostalgia e modernità.
Gli stilisti lo reinterpretano in lana cotta, tweed o cashmere double, e le versioni oversize diventano quasi una coperta urbana: rassicurante, elegante, mai banale.
Paltò per lei, paltò per lui
Nel guardaroba femminile il paltò abbraccia forme morbide, cintura in vita e collo ampio, spesso portato sopra minidress o maglioni chunky. Per l’uomo resta il grande classico — doppiopetto o monopetto, spalle strutturate e linea asciutta — ma il nuovo modo di indossarlo è più rilassato: con cappuccio sotto, dolcevita o camicia sbottonata.
È il ritorno di una certa idea di eleganza: quella che non ha bisogno di stupire, ma solo di durare.
In un’epoca di abbigliamento usa e getta, il paltò resta un manifesto di stile. Si compra una volta, si indossa per anni. Ed è proprio questo — la sua discreta, resistente bellezza — il vero lusso del presente.
Lifestyle
Disconnettersi per ritrovarsi: quando il benessere passa dal “digital detox”
Sempre più connessi, ma sempre più soli. Lo smartphone è diventato un’estensione di noi stessi, ma anche una fonte costante di stress e confronto. La generazione Z guida la ribellione silenziosa contro l’eccesso di schermi.
Mai come oggi la vita digitale pesa sul nostro equilibrio mentale. Passiamo in media oltre sei ore al giorno online, secondo i dati del Digital 2025 Report, e la linea che separa il mondo reale da quello virtuale si fa sempre più sottile. Scrollare senza sosta, confrontarsi con vite “filtrate” e costruire la propria identità attraverso uno schermo genera un sovraccarico invisibile: quello emotivo.
La Generazione Z, cresciuta tra social network, messaggi istantanei e realtà aumentata, è la più esposta a questa nuova forma di stress digitale. Eppure è anche la più consapevole dei suoi rischi. Mentre per i Millennials la connessione continua rappresentava libertà, i più giovani iniziano a percepirla come una gabbia. Non è un caso che sui social stessi — da TikTok a Instagram — siano nati trend di “digital detox”, ovvero periodi di disconnessione volontaria per riequilibrare la mente e ritrovare il contatto con la realtà.
La psicologa e sociologa Sherry Turkle, docente al MIT, descrive questo fenomeno come una “solitudine connessa”: siamo costantemente in contatto, ma sempre più isolati. Le conversazioni diventano messaggi, i momenti condivisi si riducono a post e stories, e la presenza fisica viene sostituita da una presenza digitale. Anche lo psicologo sociale Jonathan Haidt, nel suo recente libro The Anxious Generation (2024), evidenzia come l’uso eccessivo degli smartphone e dei social abbia contribuito all’aumento dei disturbi d’ansia e depressione tra gli adolescenti, specialmente dopo il 2010, quando i dispositivi mobili sono diventati onnipresenti.
Il paradosso è evidente: siamo iperconnessi, ma più soli. Le notifiche costanti alterano i nostri ritmi biologici, riducono la capacità di concentrazione e rendono difficile vivere il “qui e ora”. Secondo studi dell’Università di Stanford, ogni interruzione digitale può richiedere fino a venti minuti per ristabilire il livello di attenzione precedente. Una frammentazione continua che ci allontana non solo dagli altri, ma anche da noi stessi.
In risposta, cresce il bisogno di disconnessione consapevole. Sempre più persone riscoprono il piacere di “mettere giù il telefono”: camminare senza auricolari, pranzare senza scattare foto, guardare un tramonto senza condividerlo. Alcuni resort e ritiri benessere, come quelli diffusi in Scandinavia o in Italia, propongono veri e propri weekend senza schermi, con esperienze di meditazione, yoga e natura.
Ma il “digital detox” non è una fuga tecnologica, bensì una nuova forma di cura personale. Implica scegliere quando essere online, non subirlo. Significa ridefinire i confini tra la vita virtuale e quella reale, riconoscendo che i “like” non misurano il valore di una persona e che la connessione autentica nasce dallo sguardo, non da un messaggio.
La cura, come sottolineano molti psicoterapeuti, è riscoprire la presenza. Spegnere lo schermo per accendere la consapevolezza: ascoltare, osservare, respirare. È un gesto semplice ma rivoluzionario in un’epoca in cui l’attenzione è diventata merce.
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