Società
Baby Spa: spopola la moda del relax estetico per i bambini. Sarà normale?
Il fenomeno delle baby Spa continua a suscitare discussioni e opinioni contrastanti. Solo un gioco o nasconde messaggi più profondi sul ruolo della bellezza nella vita dei bambini?

Negli ultimi anni, le baby Spa stanno diventando una tendenza sempre più popolare, offrendo esperienze di relax e bellezza per bambine e bambini in età precoce. Da Milano a Palermo, queste strutture promettono un momento di lusso per i più piccoli. Manicure, maschere idratanti, pediluvi agli oli essenziali e persino trattamenti estetici personalizzati. È una moda che solleva interrogativi sulla sua natura: semplice divertimento o una forma di “addestramento” estetico precoce? Vediamo.
Da gioco a rituale estetico
Le baby Spa propongono servizi che includono massaggi al burro di karité, trucco leggero con gloss e ciprie colorate, percorsi benessere e prodotti ipoallergenici dedicati alla pelle delicata dei bambini. Quello che sembra un gioco innocente si trasforma spesso in un’introduzione alla routine estetica, un rituale che normalizza la cura dell’aspetto già in tenera età. Questa tendenza si collega a feste di compleanno e eventi speciali, dove gruppi di bambine si ritrovano per una giornata dedicata alla bellezza, spesso accompagnate da percorsi coordinati e “lezioni” di cura estetica. Tuttavia, il fenomeno è prevalentemente rivolto alle bambine, mentre i bambini rimangono spesso esclusi, evidenziando il legame tra questa moda e gli stereotipi di genere.
Ma come cresceranno queste baby Spa?
La crescente popolarità delle baby Spa solleva interrogativi su come questa tendenza influisca sulla percezione della bellezza e sul benessere dei più piccoli. Introducendo bambini, in particolare bambine, a pratiche estetiche ritualizzate, si rischia di normalizzare l’idea che la bellezza sia un obbligo, piuttosto che una scelta. Le Spa per bambini, pur presentandosi come un divertimento innocente, mettono in evidenza un approccio culturale alla bellezza che potrebbe avere effetti a lungo termine sulla formazione della loro identità. Questi spazi ci spingono a riflettere su cosa significhi veramente “cura di sé” e su quanto debba essere influenzato da standard estetici predeterminati.
Un fenomeno mondiale
Negli Stati Uniti, infatti, diverse baby Spa offrono “princess packages” per bambine, con tiara inclusa, sessioni di trucco e acconciature glitterate. In Giappone oltre alle Spa tradizionali, alcune strutture integrano esperienze di relax per bambini che includono bagni aromatici e trattamenti leggeri per la pelle. In Brasile, invece, le baby Spa uniscono la cura estetica all’educazione sul benessere e la salute, con attività che combinano la bellezza e momenti di relax.
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Società
Treccani cancella il “vu cumprà”: la lingua inchinata al politicamente corretto
Dal trash televisivo ai dizionari seri, dai venditori in spiaggia alla censura postuma: “vu cumprà” sparisce dal lessico accettabile. Ma chi cancella una parola, cosa sta davvero cercando di rimuovere?

C’era un tempo in cui il “vu cumprà” era ovunque. In spiaggia, in tivù, nei cinepanettoni e persino nei dizionari. Una formula nata dal basso, romagnola d’origine, per descrivere i venditori ambulanti — quasi sempre neri — che offrivano occhiali tarocchi, collanine e borse improbabili tra un pedalò e un cocco fresco. Poi, d’improvviso, il silenzio. La parola è diventata impronunciabile. E ora la Treccani ne firma il necrologio.
A decretarne la morte è un saggio di Rocco Luigi Nichil, pubblicato sulla rivista Lingua Italiana. Lì, con tono accademico e penna raffinata, si certifica che “vu cumprà” è un’espressione razzista, figlia di un’Italia che non c’è più — o che finge di non esserci più. E se un tempo era nel Devoto-Oli con la definizione “venditore ambulante, generalmente negro”, oggi basta quel “generalmente” per rischiare il linciaggio social.
Negli anni Ottanta, “vu cumprà” era sulla bocca di tutti. Antonio Ricci ci costruì sopra un personaggio trash: Mazouz M’ Barek, alias Patrick. Gianfranco D’Angelo ne fece una maschera nel film Rimini Rimini. Era folklore, era satira, era Italia. Poi arrivò la stretta morale. Il termine scomparve dai media, sostituito da silenzi imbarazzati e metafore sghembe: oggi c’è il “bangla”, il “rosario”, il “paki”. Più sottili, meno ufficiali, ma non meno razzisti.
Il problema, però, non è la parola. È il disagio che ci trasciniamo dietro. È l’idea che basti cancellare un termine per salvarsi l’anima. Ma togliere “vu cumprà” dai dizionari non ci rende più giusti. Solo più ipocriti. Perché alla fine, sulle spiagge di oggi come su quelle dell’86, continuiamo a dire no con la testa e sì con cinque euro. E a parlare male, anche quando facciamo finta di aver imparato a farlo bene.
Società
“Tu gusti is meglio che uan”? Oddio mi si è ristretto il Maxibon
Una lettera virale a Stefano Accorsi riaccende i ricordi di un’intera generazione e denuncia con ironia la shrinkflation che ha colpito anche il gelato più iconico degli anni ’90.

C’era una volta il Maxibon, quello vero, quello che ti faceva saltare la merenda e pure la cena. Una sleppa di gelato che ti si scioglieva tra le mani e ti faceva sentire parte di una generazione che aveva ancora sogni grandi. E gelati ancora più grandi. Oggi, invece, ti ritrovi con un “mini bon” che sembra uscito da una confezione di campioncini da supermercato. A lanciare il grido di dolore (e di fame) è stato Emiliano Miliucci, autore di una lettera aperta diventata virale, indirizzata a Stefano Accorsi, volto indimenticabile dello spot cult “Tu gusti is meglio che uan”.
Nel suo post, Miliucci racconta con ironia e un pizzico di malinconia l’esperienza di aver comprato un Maxibon nel 2025. Per scoprire che il gelato della sua adolescenza si è rimpicciolito fino a diventare quasi simbolico. “Quando ho aperto sto gelato m’è preso un coccolone”, scrive, “non era un Maxibon, era un mini bon. Tu gusti che non ne fanno manco uan”. E con quella frase, ha colpito dritto al cuore di tutti i nati negli anni ’80 e ’90, quelli cresciuti con Ambra, Max Pezzali. E non solo. Anche la Pausini de La solitudine e, ovviamente, con Accorsi che faceva il provolone con due ragazze in spiaggia.
Il post non è solo una lamentela sul gelato che si è ristretto, ma una riflessione amara e divertente sulla shrinkflation e su come, nel tempo, ci abbiano tolto un po’ tutto. Il welfare, la sanità pubblica, le certezze… e pure i gelati. Ma almeno, dice Miliucci, “il gelato avrebbero potuto lasciarcelo”. Accorsi, oggi impegnato sul set del nuovo film di Gabriele Muccino, ha raccontato in passato che quello spot fu il primo momento in cui venne riconosciuto per strada. “Mi hanno fermato urlando il nome del gelato”, ha detto a Verissimo, ricordando anche di averne mangiati così tanti durante le riprese da ritrovarsi con i denti in fiamme.
A 54 anni oggi Accorsi sfoggia un fisico invidiabile e una carriera solida, ma per molti resterà per sempre il ragazzo del Maxibon. E forse è proprio questo il punto: mentre tutto cambia, si restringe e si complica, abbiamo bisogno di simboli che ci riportino a un tempo in cui bastava un gelato per sentirsi felici. Anche se ora quel gelato è diventato più piccolo, il ricordo resta gigante.
Società
Le estati in VHS: quando il mare sapeva di “Baywatch” e merendine al cioccolato fuso
Altro che resort, droni e foto in HD: c’era un tempo in cui l’estate si consumava tra spot Martini, videocassette ingiallite e pomeriggi passati davanti a “Supercar”. E il massimo dell’esotico era Rimini. Benvenuti nell’era delle estati in VHS.

C’è stato un tempo — né troppo lontano né abbastanza vicino da essere vintage. In cui l’estate non passava sui social ma in VHS, con l’audio frusciante e l’immagine sgranata. Erano le estati degli anni ’80 e ’90. Quelle del ghiacciolo “tropicale” e dei costumi fluo, delle spiagge affollate da famiglie intere e delle televisioni accese dal mattino al tramonto.
Era il tempo di “Baywatch” a ora di pranzo, con Pamela Anderson che correva al rallentatore. Mentre tu, dodicenne in braghette, capivi vagamente che qualcosa stava cambiando. Le pubblicità erano più martellanti della risacca: Martini, Algida, Fanta. Ogni spot una promessa di felicità semplice, da consumare sotto il sole con una cannuccia fluo.
Le vacanze al mare si facevano rigorosamente in macchina, con il sedile che scottava. La cartina stradale appiccicata alla gamba sudata del papà e la radio che gracchiava “Gioca Jouer”. La meta più ambita? Rimini, Jesolo, Cecina, al massimo Bibione: nomi che sembravano esotici solo perché c’era il mare.
E poi, loro: le merendine. Il Buondì sciolto nella borsa frigo, il Tegolino che diventava una tavoletta di cioccolato caldo e quella voglia di un Calippo che, nella memoria, ha lo stesso peso emozionale del primo bacio.
A casa, mentre gli adulti russavano nella penombra dei ventilatori, noi guardavamo cartoni giapponesi e repliche dei cinepanettoni. “Vacanze di Natale”, “Yattaman”, “Fantozzi in Paradiso”. L’estate era anche questo: una VHS registrata da Canale 5, con l’inizio tagliato e un nastro che saltava proprio sulla battuta buona.
Sulla spiaggia si giocava a racchettoni, si facevano buche profonde come trincee e si sfoggiavano infradito Puma e occhiali Carrera. Il mito da imitare? I paninari: ciuffo impomatato, cintura El Charro e Walkman sempre acceso. Con quella certezza incrollabile che bastasse un “yo bello!” per diventare qualcuno.
Oggi l’estate è smart, iperconnessa e fotogenica. Ma c’è una generazione intera che, chiudendo gli occhi, sente ancora il fruscio della cassetta che parte, il rumore del bagnasciuga in lontananza e l’odore inconfondibile della crema solare al cocco del discount.
E se non sai di cosa parliamo, forse sei nato dopo il DVD. O forse non hai mai visto Baywatch mangiando una Fiesta mezza fusa. Ed è un gran peccato.
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