Società
Sanità privata accreditata: ASSO guida il cambiamento in Parlamento per una riforma sostenibile
La riforma del settore con il supporto della politica e dei sindacati datoriali per salvaguardare il Servizio Sanitario Nazionale.
L’approvazione della “Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2023” ha segnato un passaggio cruciale per il futuro della sanità privata accreditata. Grazie a un lavoro instancabile condotto dalla Confederazione ASSO, con il supporto dei principali Sindacati Datoriali, il Parlamento ha accolto una revisione dell’articolo 29, mettendo in pausa le norme più controverse e aprendo la strada a un dialogo più costruttivo tra istituzioni, parti sociali e Regioni.
Il contesto normativo e le criticità
Le preoccupazioni erano nate dalla Legge sulla Concorrenza 2021, che aveva introdotto nuovi criteri di accreditamento e convenzionamento per le strutture private. Il decreto del Ministero della Salute del dicembre 2022 obbligava le Regioni a bandire periodicamente accreditamenti e budget, minacciando la stabilità di molte realtà storiche del settore. Una riforma che, seppur motivata dal desiderio di garantire trasparenza e qualità, rischiava di premiare esclusivamente i grandi gruppi internazionali, mettendo in pericolo il tessuto locale e la libertà di scelta dei pazienti.
Un ruolo essenziale nel SSN
Le strutture private accreditate sono parte integrante del Servizio Sanitario Nazionale, offrendo servizi indispensabili e garantendo un’alternativa complementare alla rete pubblica. Tuttavia, l’introduzione di logiche di mercato esasperate rischiava di compromettere non solo la qualità delle prestazioni, ma anche il principio di accesso universale sancito dal sistema sanitario italiano.
L’azione di ASSO e il sostegno parlamentare
ASSO si è distinta come il principale promotore della difesa del settore. Grazie all’impegno del Presidente e della Federazione Sanità, è stato avviato un dialogo con altre sigle sindacali e con il Parlamento, evidenziando le criticità della normativa vigente. Il risultato è stato l’ottenimento di una proroga fino al 31 dicembre 2026, sospendendo l’obbligo di adeguamento ai nuovi criteri di accreditamento. Questa misura rappresenta un primo passo verso una revisione strutturata, che tenga conto delle esigenze di sostenibilità economica e della salvaguardia del diritto alla salute.
Determinante è stato il supporto di esponenti politici come l’On. Mulè e l’On. Cappellacci di Forza Italia, insieme all’On. Faraone di Italia Viva, che hanno spinto per portare la questione al centro del dibattito parlamentare. La convergenza tra maggioranza e settori dell’opposizione ha dimostrato come il dialogo tra istituzioni e categorie produttive possa essere fondamentale per affrontare temi strategici per il Paese.
Prospettive per il futuro
La sospensione delle norme contestate rappresenta una vittoria significativa, ma temporanea. La priorità rimane quella di lavorare a una riforma definitiva che assicuri trasparenza, sostenibilità e qualità nel rapporto tra pubblico e privato accreditato. ASSO si impegna a proseguire il confronto con le istituzioni per garantire la tutela delle eccellenze sanitarie italiane, la presenza capillare sul territorio e, soprattutto, il diritto alla salute dei cittadini.
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Società
Lo Zingarelli 2026 parla inglese: da “ghostare” a “skillato”, l’italiano è sempre più “social”
Entrano “gaslighting”, “retrogaming” e “mansplaining”, ma anche ibridi come “whatsappare”, “flexare” e “culturalizzare”. Bartezzaghi: «Parole che sembrano mostriciattoli, ma ormai fanno parte del nostro modo di parlare».
Lo Zingarelli 2026 fotografa un’Italia sempre più anglofona e digitale. Nella nuova edizione del celebre dizionario, l’inglese dilaga come mai prima: “retrogaming”, “gaslighting”, “ghostare”, “mansplaining”, “skillato”, “tokenizzare”. Parole nate nei social e nei videogame che oggi entrano a pieno titolo nella lingua di Dante, trasformandola in un esperimento continuo di ibridazione.
Secondo Stefano Bartezzaghi, i nuovi termini «sembrano mostriciattoli artificiali, invenzioni un po’ ridicole, ma reali». “Breccare”, “whatsappare” o “flexare” – adattamenti italiani di verbi inglesi – fanno ormai parte del linguaggio comune, specie tra i giovani. E anche se a leggerli su carta fanno storcere il naso, nessuno può negare che si siano imposti per forza d’uso.
Il dizionario, del resto, non giudica: registra. Così “quadricottero”, sinonimo di drone, ottiene finalmente cittadinanza linguistica, mentre termini come “perculare” e “pezzotto” entrano dopo anni di uso popolare. “Perché l’italiano”, spiegano i lessicografi, “è una lingua viva, non un museo”.
Non mancano le creazioni ibride, costruite con radici italiane ma spirito burocratico: “culturalizzare”, “turistificare”, “eventificio”, “rinazionalizzare”. Parole goffe, ma utili a descrivere un Paese che organizza eventi più che idee.
Tra le curiosità, spunta “amichettismo”, la parola dell’anno: definisce con sottile veleno quel sistema di conoscenze e favori che in Italia funziona meglio di qualsiasi curriculum. E, come se non bastasse, il lessico del web si arricchisce di “bromance”, “omosociale” e “riciclone”.
Lo Zingarelli 2026 racconta così un’Italia che non ha più paura dell’inglese, ma rischia di dimenticare il proprio lessico. È una lingua in perenne mutazione, dove si “flexa”, si “posta” e si “ghostano” le persone. E dove, per dirla con Bartezzaghi, «anche i mostriciattoli linguistici, a forza di essere usati, finiscono per diventare di famiglia».
Società
Che cos’è davvero la “cultura woke”? Dalle origini al suo controverso significato di oggi
Il termine “woke”, nato come simbolo di consapevolezza sociale e lotta alle ingiustizie, è oggi al centro di un acceso dibattito. Da bandiera dei diritti civili a parola usata per descrivere il “politicamente corretto estremo”: ecco come è cambiato il suo senso.
Negli ultimi anni, la parola “woke” è entrata nel linguaggio quotidiano, spesso utilizzata nei dibattiti pubblici, nei social network e persino nei titoli dei giornali. Ma cosa vuol dire esattamente? Letteralmente, il termine deriva dal verbo inglese to wake, cioè “svegliarsi”. In senso figurato, “to be woke” significa essere svegli, consapevoli, in particolare rispetto alle ingiustizie sociali, alle disuguaglianze e alle discriminazioni.
Oggi però il termine ha assunto sfumature molto diverse rispetto alle sue origini, diventando per alcuni un simbolo di sensibilità civile e per altri un’etichetta negativa, sinonimo di eccesso di correttezza o censura culturale.
Le origini del termine: una “sveglia” sociale
Le prime tracce della parola “woke” in ambito politico risalgono agli anni Quaranta, quando nella comunità afroamericana statunitense si usava per indicare chi era “cosciente” delle ingiustizie razziali. Negli anni Sessanta, durante il movimento per i diritti civili, il termine fu ripreso per descrivere la consapevolezza delle discriminazioni e la necessità di reagire.
L’espressione è tornata in auge dopo il 2013, con la nascita del movimento Black Lives Matter, sorto per denunciare le violenze della polizia contro la popolazione nera negli Stati Uniti. “Stay woke” – “resta sveglio” – è diventato uno slogan diffuso tra attivisti e manifestanti, un invito a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie.
Dalla consapevolezza sociale al “politicamente corretto”
Con il tempo, il termine “woke” ha oltrepassato i confini del razzismo per includere altre battaglie: la parità di genere, i diritti LGBTQ+, la tutela dell’ambiente e la lotta contro ogni forma di discriminazione. Nella cultura digitale, essere “woke” significava riconoscere i propri privilegi e sostenere una società più equa e inclusiva.
Tuttavia, a partire dalla fine degli anni 2010, il concetto è stato progressivamente distorto. Alcuni critici – soprattutto in ambito politico e mediatico – hanno iniziato a usare “woke” in modo ironico o dispregiativo, per indicare un atteggiamento considerato troppo rigido, moralista o censorio, associato al cosiddetto cancel culture: la tendenza a boicottare o escludere personaggi pubblici, opere o idee considerate offensive.
Il dibattito contemporaneo
Oggi, “woke” è una parola fortemente divisiva. Da un lato, molti continuano a usarla nel suo significato originario, come simbolo di attenzione e responsabilità sociale. Dall’altro, è diventata un termine di derisione politica, usato per accusare certi movimenti di voler imporre un pensiero unico o di esagerare con il linguaggio inclusivo.
In molti Paesi occidentali, il termine è entrato persino nel linguaggio istituzionale e accademico. Alcuni politici parlano di “agenda woke” per criticare iniziative progressiste, mentre numerose università ne discutono come fenomeno culturale da analizzare e non solo da giudicare.
Tra evoluzione e travisamento
Secondo gli esperti di linguistica, “woke” è un esempio emblematico di come le parole cambino significato nel tempo, riflettendo le tensioni e le trasformazioni della società. Ciò che nasce come espressione di consapevolezza può diventare, in un contesto diverso, un’etichetta divisiva.
Il rischio, secondo molti sociologi, è che l’uso distorto del termine ne svuoti il valore originario, riducendo a slogan o a battuta un concetto che, in principio, rappresentava un invito all’empatia e alla giustizia.
Conclusione: una parola specchio del nostro tempo
In definitiva, “woke” è più di un semplice termine di moda. È uno specchio delle contraddizioni contemporanee, dove il desiderio di un mondo più giusto si scontra con la paura dell’eccesso e dell’omologazione.
Capire davvero cosa significa essere “woke” oggi richiede più che una definizione: richiede la capacità di ascoltare, riflettere e distinguere tra l’impegno autentico per i diritti e le semplificazioni mediatiche che spesso lo circondano.
Lifestyle
Cani e gatti in ufficio! Come diventare un’azienda pet-friendly
Diventare un’azienda pet-friendly richiede impegno e pianificazione, ma i benefici per il benessere dei dipendenti e la produttività sono notevoli. Implementando una policy chiara, coinvolgendo esperti e creando spazi adatti, si può garantire un ambiente di lavoro armonioso e accogliente per tutti.
Portare il proprio cane o gatto in ufficio può migliorare l’umore, ridurre lo stress e favorire le interazioni tra colleghi. Ma sono davvero poche finora in Italia le aziende che possono rendere un ufficio davvero pet-friendly. Chi ce la fa ha stabilità di comune accordo con i dipendenti precise regole di convivenza da seguire.
Stabilire un comportamento comune
Per prima cosa è fondamentale introdurre una policy formale che specifichi i requisiti per i proprietari e i loro animali. I dipendenti devono essere responsabili del comportamento, del benessere e dell’igiene dei propri pet, assicurandosi che non siano di intralcio al lavoro e mantenendo gli spazi puliti.
Coinvolgere tutti i dipendenti anche chi non ha animali o decide di lascarli a casa
Chi non possiede animali deve sentirsi a proprio agio e in grado di lavorare senza distrazioni. È importante quindi prevedere un processo per gestire eventuali lamentele e soluzioni per chi preferisce non entrare in contatto con gli animali, come aree pet-free o sale conferenze designate.
Tutti vaccinati e ben addestrati
Tutti gli animali che seguono i loro padroni in ufficio devono essere in regola con le vaccinazioni e privi di infezioni contagiose o parassiti. Devono essere ben educati, abituati a socializzare e senza comportamenti aggressivi. Prima di decidere di portare in ufficio il proprio cane o gatto, dopo l’accordo con la propria azienda, è consigliabile attivare una polizza assicurativa per coprire i costi di eventuali danni a cose e persone.
Pulizia e gestione degli incidenti
Prepararsi a gestire incidenti come sporcizia o danni è parte integrante di un ambiente pet-friendly. Le aziende dovrebbero fornire materiale per la pulizia e stabilire procedure per la disinfezione delle aree dopo gli incidenti aiuta a mantenere un ambiente sano per tutti.
Delimitare aree pet-free
Bisogna definire le aree dove gli animali non possono entrare, come spazi di produzione, laboratori, cucine o aree con attrezzature sensibili. Considerare anche aree dedicate a chi soffre di allergie per garantire un ambiente confortevole per tutti.
Supporto degli esperti e certificati di buona condotta
Collaborare con esperti del settore, come veterinari ed educatori cinofili, per formare i dipendenti. Iniziative come il patentino di buona condotta, che certifica il comportamento del cane e il rapporto con il proprietario, possono essere utili per garantire un ambiente armonioso.
I benefici di lavorare accanto al proprio cane
Secondo ricerche condotte da aziende come Mars e Purina, la presenza di animali domestici in ufficio può migliorare l’umore (47%), ridurre lo stress (42%) e stimolare la creatività (31%). Questi benefici si riflettono anche sulla produttività (27%) e sulle interazioni tra colleghi (40%).
Strumenti e guide utili
Mars ha prodotto un manuale intitolato “Pet friendly office: Teoria e pratici consigli per ospitare al lavoro gli amici a quattro zampe” per aiutare le aziende a diventare pet-friendly. Per il settore turistico, la guida “Dog-In-Dog-Out, Diventa leader nella Dog Hospitality” di Elisa Guidarelli ed Emanuele Clemente è una delle diverse pubblicazioni che fornisce consigli specifici per l’accoglienza degli animali.
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