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Basta un Bot per vincere a poker con l’Intelligenza Artificiale

L’arrivo dell’intelligenza artificiale nel poker online ha rivoluzionato il modo in cui giocare. Quello che era iniziato come un esperimento accademico, in breve tempo è diventato un business multimilionario, con implicazioni pesanti per l’industria del gioco d’azzardo online.

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    Bot nel poker online? Ecco come un gruppo di studenti russi ha sviluppato un’intelligenza artificiale in grado di sbancare ogni tavolo da poker anche a livelli professionistici. Con la loro invenzione questa IA, inizialmente creata per scopi accademici, è diventata ben presto un business redditizio che riesce a battere anche avversari umani.

    Dagli studi universitari al business globale il passo è breve

    Nata in un dormitorio universitario russo, l’IA del Bot per il poker è stata affinata grazie all’applicazione di teorie matematiche e di machine learning. Il software messo a punto dai ragazzi russi era in grado di bluffare, nascondere le proprie carte e adattare la propria strategia in base all’avversario, proprio come un giocatore umano esperto. Ed è stato subito un successo che inizialmente ha attirato l’attenzione di investitori e aziende, trasformando il progetto dei ragazzi in una vera e propria impresa. L’IA è stata venduta a diversi partner, che l’hanno integrata nei propri software per il gioco d’azzardo online, timorosi di essere ‘sbancati’ dal nuovo giochino…

    L’impatto sui siti di poker

    L’introduzione dei Bot nel poker online ha avuto un impatto travolgente sull’industria. Da un lato, ha portato a una maggiore competitività, spingendo i giocatori a migliorare le proprie abilità. Dall’altro, ha sollevato preoccupazioni sulla lealtà del gioco e ha costretto i siti di poker a sviluppare sistemi di rilevamento sempre più sofisticati. Nonostante i rischi, i bot hanno anche portato benefici ai siti di poker. In che senso? Hanno garantito una maggiore liquidità ai tavoli, hanno attirato più giocatori e aumentato i profitti. Inoltre, alcuni siti offrono ora strumenti e servizi basati su IA per aiutare i giocatori a migliorare le proprie prestazioni.

    Un’evoluzione continua che rischia di farsi clandestina

    La battaglia tra IA e sistemi di rilevamento è in continua evoluzione. I creatori di bot cercano costantemente nuove strategie per eludere i controlli, mentre i siti di poker investono in tecnologie sempre più avanzate per contrastare il fenomeno.

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      Tech

      Smartphone caduto in acqua? Le mosse giuste (e gli errori fatali) da conoscere subito

      Dalle prime azioni da compiere ai falsi miti come il riso: una guida pratica per aumentare le possibilità di salvare il telefono dopo un contatto con l’acqua.

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      Smartphone caduto in acqua

        Un tuffo in piscina, un bicchiere rovesciato, un secondo di distrazione al lavandino: lo smartphone in acqua è uno degli incidenti più comuni dell’era moderna. Nonostante molti modelli recenti siano dotati di certificazione IP67 o IP68 — che indica una certa resistenza a immersione accidentale e schizzi — nessuno di questi dispositivi è realmente “impermeabile”. L’acqua può comunque penetrare all’interno, danneggiando componenti delicatissime come batteria, circuiti e microfoni. Per questo, la rapidità e la correttezza delle prime manovre sono essenziali.

        La prima cosa da fare è spegnere immediatamente il telefono, se non lo ha già fatto da solo. Il contatto tra liquidi e corrente elettrica è ciò che provoca i danni maggiori: interrompere l’alimentazione riduce drasticamente il rischio di cortocircuiti. Subito dopo, occorre rimuovere cover, pellicola, eventuale scheda SIM e microSD: sono tutte parti che trattengono l’umidità e rallentano l’asciugatura.

        Una volta spente le componenti attive, bisogna asciugare delicatamente l’esterno con un panno morbido, senza scuotere lo smartphone. Molti lo fanno d’istinto, ma è un errore: scuoterlo può spingere l’acqua ancora più in profondità, raggiungendo zone non ancora contaminate. Allo stesso modo, smartphone bagnato e phon acceso non vanno d’accordo. L’aria calda può deformare le parti interne, soprattutto degli schermi, e spingere la condensa verso l’interno.

        Altro mito da sfatare: il riso. Nonostante sia un rimedio molto diffuso online, non esistono prove scientifiche che il riso acceleri davvero l’evaporazione dell’umidità interna. I tecnici confermano che il riso assorbe appena una minima parte dell’acqua superficiale e può addirittura lasciare polvere o residui nei connettori. Meglio optare per i sacchetti di gel di silice (come quelli che si trovano nelle scatole delle scarpe), realmente utili per assorbire l’umidità. Se disponibili, possono aiutare a velocizzare l’asciugatura passiva.

        La regola più importante, però, è lasciar riposare il dispositivo per almeno 24-48 ore prima di tentare una riaccensione. Accendere lo smartphone troppo presto, anche se sembra asciutto, equivale spesso a “condannarlo” definitivamente. In caso di immersione in acqua salata, la situazione è più complessa: il sale causa corrosione rapida, quindi è consigliabile sciacquare il telefono solo esternamente con acqua dolce prima di asciugarlo, per rimuovere i cristalli salini. Poi va portato il prima possibile in un centro assistenza.

        Una verifica tecnica resta comunque l’opzione più sicura. I centri specializzati dispongono di strumenti per rimuovere l’umidità residua e valutare eventuali danni invisibili — come ossidazioni sui circuiti — che nel tempo possono causare malfunzionamenti o spegnimenti improvvisi.

        In sintesi, un incidente in acqua non significa automaticamente addio allo smartphone. Con le giuste precauzioni, molte persone riescono a salvarlo senza conseguenze. L’importante è agire in fretta, evitare i rimedi fai-da-te più rischiosi e, se necessario, affidarsi a un professionista. Perché, in questi casi, la calma è davvero la miglior alleata.

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          Tech

          Pensieri sussurrati ad alta voce: l’impianto neurale di Stanford che “ascolta” il linguaggio interiore

          Grazie a microelettrodi nel cervello e un algoritmo di intelligenza artificiale, i ricercatori sono riusciti a decodificare il monologo mentale e a trasformarlo in parole udibili — con un sistema di “password mentale” per proteggere la privacy.

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          Pensieri sussurrati

            Cosa succederebbe se potessimo far uscire dal cervello, perfettamente comprensibili, i pensieri che pronunciamo solo nella nostra mente? È questa la frontiera che un team dell’Università di Stanford ha esplorato con un impianto neurale sperimentale, capace di convertire il “discorso interiore” in parole reali.

            Come funziona
            La tecnologia si basa su microelettrodi impiantati nella corteccia motoria del cervello — la zona che controlla i muscoli coinvolti nel linguaggio. In uno studio su quattro partecipanti con gravi problemi di parola dovuti a paralisi (per esempio causata da SLA o ictus), gli scienziati hanno registrato i segnali neurali sia quando le persone tentavano di parlare fisicamente, sia quando immaginavano di parlare nella loro mente.

            Utilizzando modelli di apprendimento automatico (machine learning), l’algoritmo ha imparato a distinguere i diversi fonemi — i suoni più piccoli della lingua — sulla base dei pattern di attività cerebrale. Poi, ha ricomposto quei fonemi in parole e frasi.

            Nell’esperimento, il vocabolario usato per il “discorso interiore” era davvero ampio: il sistema poteva operare con circa 125.000 parole. Il livello di precisione raggiunto è sorprendente: fino al 74% di accuratezza nella decodifica in tempo reale.

            Differenza tra parlare e pensare
            I ricercatori hanno scoperto che il linguaggio immaginato e quello tentato attivano aree molto simili nel cervello, ma con intensità diversa. In particolare, i segnali neurali associati al linguaggio mentale sono più deboli, ma sufficientemente distinti per essere riconosciuti.

            Proteggere la privacy mentale
            Decodificare i pensieri può sembrare affascinante, ma apre a serie implicazioni etiche: che cosa succede se il dispositivo inizia a “leggere” parole pensate ma non volute? Il team di Stanford ha pensato anche a questo. Hanno introdotto un meccanismo di protezione: per attivare la decodifica, l’utente deve “pensare” una parola d’ordine. Nello studio, la frase scelta è stata “Chitty Chitty Bang Bang” — pensare mentalmente questa frase ha attivato il sistema con un’accuratezza superiore al 98%.

            Senza la parola d’ordine, il sistema rimane spento. Questo significa che non decodifica il flusso di pensieri non autorizzato, riducendo il rischio di “fuoriuscite” involontarie.

            Per chi potrebbe cambiare tutto
            Per persone che hanno perso la capacità di parlare — ad esempio a causa della paralisi — questa tecnologia potrebbe restituire una modalità di comunicazione rapida, naturale e meno faticosa rispetto ai sistemi attuali. Secondo gli autori, un tale impianto potrebbe un giorno restituire un linguaggio quasi fluido, solo usando il pensiero.

            Limiti e prospettive
            Al momento, il dispositivo non è ancora una soluzione commerciale: è in fase sperimentale e richiede un impianto chirurgico. Inoltre, la decodifica non è perfetta e può commettere errori, soprattutto per pensieri complessi o non coscienti.

            Tuttavia, i ricercatori sono ottimisti: migliorando l’hardware (più elettrodi, più sensori) e affinando gli algoritmi, potrebbero arrivare a sistemi più precisi, con funzioni wireless e una maggiore “risoluzione” nel riconoscere cosa sta pensando l’utente.

            Questa scoperta rappresenta un balzo in avanti importante nelle interfacce cervello-computer (BCI). Non è solo tecnologia: è anche etica, identità e libertà di pensiero. Se, un giorno, potremo “parlare con la mente”, dovremo anche chiederci chi ascolterà — e con quali garanzie.

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              Tech

              Il Web in ginocchio: guasto a Cloudflare spegne siti e piattaforme globali

              Le prime segnalazioni sono arrivate a metà mattinata, ma il problema è diventato critico in poco tempo. L’azienda ha identificato la causa e sta lavorando per ripristinare i servizi, ma il down evidenzia ancora una volta la fragilità di un Internet gestito da poche “Big Tech”.

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              Cloudflare

                Un’interruzione del servizio da parte di Cloudflare, colosso delle infrastrutture digitali, ha causato un vasto e improvviso “blackout” che ha reso inaccessibili numerosi siti e piattaforme in tutto il mondo. L’azienda, che funge da intermediario tra i visitatori e i server web per garantire sicurezza e velocità, ha subito un guasto che ha automaticamente reso offline tutti i portali che si affidano alla sua rete. L’episodio ha avuto inizio a partire dalle 12:17 ora italiana, ma è stato intorno alle 12:48 che la situazione ha raggiunto il suo picco critico.

                In una nota ufficiale, Cloudflare ha riconosciuto il problema, dichiarando di essere “a conoscenza di un’anomalia che potrebbe interessare diversi clienti” e che stava già indagando per risolverla. Successivamente, poco dopo le 14, un aggiornamento pubblicato sulla pagina di stato del servizio ha confermato che la causa era stata identificata e che era in corso l’implementazione di una soluzione. I primi segnali di ripristino dei servizi sono arrivati dopo le 13:00 UTC (le 14:00 italiane) quando alcuni servizi come Cloudflare Access e WARP sono tornati a funzionare normalmente.

                Si stima che circa il 20% di tutti i siti web globali utilizzi i servizi di Cloudflare. Sebbene non sia ancora disponibile un elenco ufficiale completo delle vittime del disservizio, numerosi utenti hanno segnalato problemi di accesso a piattaforme di primo piano come il chatbot ChatGpt di OpenAI, il social network X (ex Twitter), la piattaforma di streaming musicale Spotify e il servizio di grafica Canva. A causa della natura centrale di Cloudflare, l’interruzione ha avuto un impatto su una parte significativa della rete, dimostrando quanto sia cruciale il ruolo di questi “custodi” del traffico internet.

                Questo evento si inserisce in un contesto di fragilità della rete Internet, già evidenziata da recenti e simili disservizi. Soltanto il mese scorso, un down di Amazon Web Services (AWS) aveva mandato offline oltre un migliaio di siti e applicazioni, seguito poi da un’altra interruzione che aveva interessato Microsoft Azure. Questi eventi sottolineano la dipendenza del web da un numero limitato di grandi fornitori di infrastrutture, rendendo l’intero ecosistema digitale vulnerabile a guasti circoscritti, ma con conseguenze globali.

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