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Lifestyle

A Leolandia si inaugura la prima scuola guida per bambini completamente ecologica

Plenitude e Leolandia hanno inaugurato “Scuola Guida Futuro”, la prima attrazione in Italia dedicata alla mobilità elettrica per bambini. Ideata da Uniting Group e realizzata in collaborazione con Be Charge, offre ai piccoli visitatori un percorso educativo e divertente tra i mondi di Leolandia a bordo di colorate e-car. La partnership prevede anche la creazione di un hub con 10 punti di ricarica per veicoli elettrici nel parcheggio del parco, promuovendo una mobilità più sostenibile per le nuove generazioni.

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    Plenitude, tramite la sua controllata Be Charge, e Leolandia inaugurano oggi “Scuola Guida Futuro,” un’innovativa attrazione dedicata alla mobilità elettrica all’interno di un parco a tema per bambini. L’evento ha visto la partecipazione di Franco Lucente e Claudia Maria Terzi, Assessori di Regione Lombardia. Ideata e progettata da Uniting Group, partner di Be Charge, questa iniziativa mira a sensibilizzare le giovani generazioni verso una mobilità sostenibile.

    “Scuola Guida Futuro” offre un percorso divertente tra i mondi e i personaggi di Leolandia, dove i bambini possono guidare colorate e-car in una smart city del futuro. Attraverso curve, chicane e cartelli stradali, i piccoli autisti apprendono le dinamiche della mobilità elettrica, ricaricano le loro auto alle colonnine e conquistano la loro prima patente di guida del futuro. Questo progetto educativo e coinvolgente avvicina le famiglie a nuove forme di mobilità sostenibile.

    La partnership tra Plenitude e Leolandia prevede anche la creazione di un hub di ricarica con 10 punti all’interno del parcheggio del parco, permettendo ai visitatori di ricaricare le loro auto elettriche durante la visita. Questo accordo pluriennale mira a rendere Leolandia ancora più sostenibile.

    Paolo Martini, Amministratore Delegato di Be Charge e Head of E-Mobility Recharge Solutions di Plenitude, ha dichiarato: “Siamo lieti di inaugurare oggi, insieme a Leolandia, Scuola Guida Futuro, per offrire agli ospiti del parco divertimenti un’esperienza educativa e coinvolgente, insieme ai nostri servizi di ricarica per veicoli elettrici. Questo è il primo passo di un accordo che rappresenta, per Plenitude, un’importante occasione per avvicinare il grande pubblico e le nuove generazioni ai temi della mobilità elettrica”.

    Giuseppe Ira, Presidente di Leolandia, aggiunge: “Siamo orgogliosi di essere il primo parco a tema ad ospitare un progetto così lungimirante e ambizioso. Abbiamo messo a disposizione la nostra esperienza per realizzare questa attrazione che, oltre ad accrescere ulteriormente l’appeal del parco, contribuirà alla diffusione di un’idea di mobilità più sostenibile nelle nuove generazioni che hanno anche un peso importante nell’orientare le scelte dei genitori verso modelli di consumo più evoluti”.

    All’inaugurazione erano presenti anche ospiti illustri come The Pozzolis Family, insieme ai padroni di casa del parco, Leo e Mia, pronti ad allacciare le cinture ai piccoli guidatori.

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      Società

      Generazione boomerang: perché tanti figli adulti tornano a vivere con i genitori

      Tra affitti insostenibili, lavori precari e relazioni complicate, cresce il numero di adulti che rientrano nella casa d’origine. Una scelta a volte forzata, a volte comoda. Ma che dice molto di come sta cambiando la società

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        Dopo anni di fatica, bollette e coinquilini improbabili, c’è chi prende una decisione che un tempo sarebbe sembrata un fallimento: tornare a casa. E invece oggi, per migliaia di giovani adulti italiani, il rientro nel nido familiare è una scelta sempre più comune. Li chiamano “boomerang kids”: figli che se ne vanno e poi tornano, spesso con una laurea in tasca, qualche delusione lavorativa alle spalle, e più sogni che certezze.

        Il fenomeno non è nuovo, ma nel 2025 è diventato strutturale. Secondo l’Istat, oltre il 66% dei giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora o di nuovo con i genitori. I motivi? Tanti, e spesso intrecciati. I costi dell’indipendenza sono diventati proibitivi: affitti alle stelle, bollette da capogiro, spese quotidiane che si sommano a stipendi ancora bassi e contratti spesso a tempo determinato.

        Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Alcuni tornano per scelta, non per necessità. Per prendersi una pausa dopo una separazione, per dedicarsi a un master, per risparmiare e avviare un progetto. E in fondo, perché a casa si sta comodi: si mangia meglio, si spende meno, si condivide la quotidianità.

        Non mancano però le difficoltà. Vivere da adulti con altri adulti – che per di più ti hanno cresciuto – non è semplice. Si riaprono dinamiche familiari sopite, si ridefiniscono ruoli, si rinegoziano spazi e abitudini. “A volte mi sento un adolescente, anche se ho 32 anni e lavoro da sei”, racconta Marco, tornato a vivere dai genitori dopo la pandemia. “Ma poi la sera, quando torno stanco e c’è qualcuno che mi chiede com’è andata, capisco che questa convivenza ha anche del bello”.

        Molti genitori accolgono i figli con entusiasmo, ma non senza fatica. È una seconda genitorialità, fatta di affetto ma anche di rinunce: alla privacy, al silenzio, ai propri ritmi. “Non mi pesa averlo qui – dice Anna, madre di due figli trentenni – ma cerchiamo di non ricadere nei vecchi ruoli. Ognuno fa la sua parte, siamo coinquilini con affetto”.

        Il fenomeno apre molte domande. Sulla tenuta del mercato immobiliare, sul sistema occupazionale, sul significato stesso di indipendenza. Ma anche su un’idea di famiglia che cambia: più flessibile, meno gerarchica, forse più solidale.

        La generazione boomerang ci dice che crescere, oggi, non significa per forza andarsene per sempre. E che, a volte, tornare non è un passo indietro. Ma una nuova partenza.

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          Società

          Cyberbullismo a Modena: una tredicenne trova la forza di reagire grazie alla sua famiglia

          Insulti anonimi sui social, disforia di genere e il coraggio di una giovane che, grazie alla famiglia e al dialogo, ha trasformato una dolorosa esperienza in un percorso di crescita

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            La vicenda di una tredicenne modenese vittima di cyberbullismo ha riportato alla luce il dramma di tanti giovani emarginati e perseguitati, spesso per la loro diversità. In questo caso la ragazza, isolata e tormentata da messaggi anonimi su un social network, ha trovato il coraggio di confidarsi con i genitori. Ha mostrato loro gli screenshot di una chat in cui veniva presa di mira con frasi agghiaccianti come «Meglio dissanguata e vederla soffrire» e «Bruciamola». A ferirla ancora di più, la scoperta che dietro a questi attacchi di cyberbullismo c’era una sua cara amica.

            La pronta reazione della famiglia ha fatto la differenza

            La madre della ragazza ha contattato i genitori dell'”amica” coinvolta, mentre il padre ha sporto denuncia alla polizia postale. Le autorità, con grande sensibilità, hanno avviato un intervento educativo nella scuola, spiegando ai ragazzi le gravi conseguenze delle loro azioni. Nonostante il dolore, la tredicenne ha dovuto iniziare un percorso di recupero, supportata da una psicologa, che ha portato alla scoperta di una disforia di genere. La ragazza si sente maschio e ha fatto coming out con i genitori, trovando in loro un sostegno fondamentale.

            Gesti di omofobia, bullismo e cyberbullismo vanno contrastati sul nascere

            Questa storia si inserisce in un contesto più ampio di tragedie legate al bullismo e all’omofobia. Come quella di Andrea Spezzacatena, il ragazzo dai pantaloni rosa che si tolse la vita a 15 anni, o di Davide Garufi, tiktoker noto come Alexandra, che si è suicidato dopo essere stato bersaglio di insulti sui social. Tuttavia, a differenza di queste tragiche vicende, la tredicenne modenese ha trovato la forza di parlare, evitando un epilogo drammatico. Oggi, la ragazza si sta riavvicinando alla sua amica e affronta con maggiore serenità la vita scolastica, in attesa di cambiare scuola il prossimo anno.

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              Società

              La solitudine non è una colpa: perché siamo sempre più soli e perché va affrontata senza vergogna

              Non è solo un problema sociale, ma anche sanitario: la solitudine cronica aumenta il rischio di malattie. Serve una nuova narrazione: non è un fallimento personale, ma una condizione da riconoscere e curare

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                Non è solo un problema sociale, ma anche sanitario: la solitudine cronica aumenta il rischio di malattie. Serve una nuova narrazione: non è un fallimento personale, ma una condizione da riconoscere e curare

                Testo: La solitudine è una parola che fa paura. La pronunciamo sottovoce, la nascondiamo dietro schermi e agende piene, la confondiamo con la libertà. Eppure è sempre più presente nelle nostre vite. Secondo i dati ISTAT, oltre il 30% degli italiani si dichiara spesso o molto spesso solo. Tra gli anziani è una piaga silenziosa, tra i giovani un tabù modernissimo.

                Viviamo iperconnessi, ma disconnessi. I social ci illudono di essere in contatto, ma aumentano il senso di esclusione. Le città crescono, i legami si indeboliscono. Famiglie più piccole, vite più mobili, lavori più precari. E il risultato è un esercito di persone che si sentono invisibili.

                La solitudine, se protratta nel tempo, non fa male solo all’anima. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che può influire sul sistema immunitario, aumentare il rischio di depressione, di demenze, perfino di infarti. L’OMS l’ha riconosciuta come uno dei problemi emergenti del XXI secolo.

                Eppure se ne parla poco, e quasi sempre con imbarazzo. Perché chi è solo tende a sentirsi colpevole: non abbastanza interessante, non abbastanza socialmente desiderabile. Ma la solitudine non è una colpa. È una condizione. E come tale va riconosciuta, affrontata, accompagnata.

                Servono spazi di relazione, politiche sociali, reti di supporto. Ma serve anche un cambio culturale. Riconoscere che la solitudine può toccare chiunque, in qualsiasi fase della vita. Che non è un difetto, ma un bisogno inascoltato. E che parlarne è il primo passo per uscire dal buio.

                La solitudine fa meno paura se la si chiama per nome. E se si comincia a costruire, attorno, una comunità che accoglie e non giudica.

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