Tendenze
Pannolini e asili per gli adulti: ecco lo strano mondo degli Adult Baby
Gli Adult Baby rappresentano un fenomeno sociale insolito e poco conosciuto. Anche se spesso non li vediamo, sono tra noi.

Gli Adult Baby sono tra noi da sempre, anche se ufficialmente riconosciuti solo dal 1964. Non li vediamo, ma esistono. E piangono, strillano, giocano, gattonano, litigano, mangiano pappine dopo aver lavato le mani, dormono meglio se cullati, e vogliono essere cambiati quando fanno la pipì o, soprattutto, la pupù. E guai a chi prova a togliergli il ciuccio! Chi sono? Gli Adult Baby!
Gli Adult Baby non sono pazzi né affetti da deficit. Non hanno riportato traumi cadendo dal seggiolone, non hanno subito molestie, non hanno istinti ambigui e non c’è nulla di anormale in loro: sono adulti sani che provano la parafilia di sentirsi “bambini dentro”. Vivono questa identità in riunioni e luoghi specifici chiamati “asili per adulti”, che permettono loro di regredire a un’età infantile, ma sempre inferiore a quella da asilo nido.
Gli Adult Baby possono essere uomini, donne, o persone non binarie, con età che vanno principalmente dai 30 ai 60 anni. E sono persone di ogni genere e orientamento sessuale. Ma quando un Adult Baby non assume questa identità, ha una vita sessuale come chiunque altro. Tuttavia, quando si identifica come Adult Baby, questa parafilia non ha nulla a che fare con il sesso. Gli Adult Baby non hanno alcun legame con i feticisti che giocano a schiavo e padrone in modalità bambino-adulto, né con chi si eccita toccando o indossando pannolini.
Quando dico che gli Adult Baby sono tra noi e dal 1964, l’anno in cui negli USA sono stati pubblicati i primi studi seri sul fenomeno, intendo dire che un Adult Baby può essere chiunque: una collega, un cognato, un vicino, un politico, una celebrità, la parrucchiera o il medico di fiducia. Gli Adult Baby conducono vite comuni e svolgono lavori comuni. Tuttavia, per come è strutturata la società, sono costretti a nascondere pubblicamente questa loro identità, che li accompagna sin dalla nascita e cresce con loro.
Grazie ai social media, oggi per un Adult Baby è facile trovare i posti dove poter vivere questa identità una o due volte al mese. È attraverso i social che trovano l’asilo per Adult Baby più vicino e adatto a loro. Il web ha reso la vita degli Adult Baby più semplice: esistono siti e social che organizzano feste e incontri in luoghi segreti, noti solo a chi è parte della comunità, dove vengono allestiti asili per adulti con tutto l’occorrente di un asilo reale, ma a misura di adulto. Compresi gli “insegnanti”.
Gli insegnanti di un asilo per Adult Baby non sono escort. Sono uomini e donne che sanno come gestire queste sessioni parafiliche, con un massimo di sei Adult Baby per volta. Non è facile interagire con adulti che per un pomeriggio intero regrediscono a un infantilismo totale. Non parlano, se non con lallazione, e non sono autonomi in nulla. Quello che ognuno di noi faceva a due anni è ciò che un Adult Baby fa in un asilo per Adult Baby. Con l’unica differenza che un Adult Baby non può essere preso in braccio e che alcuni hanno barba, peli e rughe. L’unico contatto intimo con un insegnante è quando devono essere cambiati.
Un Adult Baby non è “grande” anche e soprattutto in questo senso, e indossa un pannolino. Mangia omogeneizzati e biscotti, beve latte e fa i suoi bisogni nel pannolino, che non sa cambiarsi né pulirsi da solo. Gli insegnanti di un asilo per Adult Baby compiono le stesse azioni che svolgono quelli di un asilo nido vero, solo che lo fanno con degli adulti. Ripeto: il sesso qui non c’entra nulla
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Tendenze
Gladiatori segreti al Colosseo: Airbnb affitta la storia, e lo Stato tace
All’inizio di maggio, 16 “fortunati” selezionati da Airbnb hanno partecipato a una rievocazione notturna al Colosseo per promuovere Il Gladiatore II. Nessun annuncio ufficiale, silenzio da parte del Ministero, e una donazione da 900mila euro in cambio del silenzio istituzionale. La Storia venduta, a rate e con la password.

La prima regola della nuova “battaglia dei gladiatori” è che non si parla della battaglia dei gladiatori. Proprio come nel Fight Club, solo che stavolta il ring è il Colosseo, il pubblico è segreto, gli spettatori sono milionari o influencer con follower selezionati, e al centro non c’è un film indie, ma un colosso: Airbnb. E ovviamente Hollywood, che prepara l’uscita de Il Gladiatore II con una mossa promozionale da Oscar… al silenzio.
Tutto vero, ma nessuno conferma. Nessuno smentisce. Tutti tacciono. Dal Parco archeologico del Colosseo al Ministero della Cultura, la parola d’ordine è “no comment”. E non perché non ci sia nulla da dire. Ma perché si è deciso di non dire nulla.
Il Colosseo affittato. Di notte. Per pochi.
La rievocazione si è svolta il 7 e l’8 maggio, ma non c’è stato alcun comunicato ufficiale, né inviti alla stampa, né dichiarazioni pubbliche da parte degli enti coinvolti. Solo un pugno di turisti, 16 in tutto, selezionati attraverso una “lotteria” promossa da Airbnb, hanno potuto calcare l’arena sotto il cielo stellato, vestiti da gladiatori, armati fino ai denti di repliche storiche, guidati da gruppi specializzati come Ars Dimicandi e il Gruppo Storico Romano.
Un’esperienza esclusiva, certo. Ma anche uno sfregio a chi crede che i beni culturali non siano souvenir, ma memoria collettiva da proteggere, non da monetizzare.
E infatti, se le immagini delle “experience” sono comparse brevemente sulla pagina dell’iniziativa, sono poi sparite come lacrime nella pioggia. Ma i partecipanti, evidentemente non vincolati da NDA troppo stringenti o semplicemente fieri dell’avventura, hanno cominciato a raccontare l’esperienza online: “Combattere nel Colosseo è stata un’emozione unica”, scrivono. Peccato che nessuno di noi ne fosse stato informato.
Una donazione e un favore
Airbnb, per questa iniziativa, ha versato una “donazione” da un milione e mezzo di dollari (circa 900mila euro) al Parco archeologico del Colosseo, destinata a finanziare il progetto “Il Colosseo si racconta”, ovvero il restyling dell’esposizione permanente. Nulla di illecito, certo. Ma tutto estremamente opaco.
In cambio? Nessuna gara pubblica, nessun bando, nessuna trasparenza. Solo una manciata di prescelti, un set cinematografico e un’operazione commerciale confezionata sotto la patina della cultura. E il Colosseo, simbolo della storia romana, prestato come palcoscenico privato a un brand globale.
Un affare da manuale per Airbnb: visibilità planetaria, storytelling emozionale, zero polemiche. Perché chi osa criticare un’iniziativa “culturale” con tanto di beneficenza allegata?
Ma è questo il futuro dei nostri monumenti?
Che il Colosseo venga affittato per eventi privati non è una novità, ma il livello di riservatezza e ambiguità raggiunto in questa occasione segna un punto di non ritorno. Nessuna informazione ufficiale, nessuna nota stampa, nessuna comunicazione istituzionale. Il Parco archeologico diretto da Alfonsina Russo ha scelto il silenzio. E il Ministero della Cultura, per bocca di funzionari interpellati, si è limitato a un gelido: «No comment».
Dove finisce la valorizzazione e dove inizia la svendita? È giusto che il monumento più visitato d’Italia diventi un set notturno per influencer e brand internazionali, all’insaputa dei cittadini italiani, che ne sono – teoricamente – i legittimi proprietari?
La Storia non si affitta
Non c’è nulla di romantico nel vedere il Colosseo trasformato in un pacchetto premium da vincere a estrazione. Il fascino dell’arena è sopravvissuto a secoli di guerre, terremoti, saccheggi, ma potrebbe non sopravvivere al marketing contemporaneo.
Oggi è una lotteria per 16 gladiatori. Domani cosa? Un’escape room nei Fori Imperiali? Una cena segreta nel Pantheon? Una spa alle Terme di Caracalla?
Nel frattempo, le istituzioni si tappano le orecchie, nella speranza che il vociare dei turisti si confonda col brusio dei visitatori. Ma chi ha visto, chi ha partecipato, chi ha filmato – e condiviso – sa che quella notte qualcosa è successo. E no, non era un sogno. Era la mercificazione della nostra storia. In diretta. E in silenzio.
Tendenze
Una zucchina in tangenziale? No grazie
Coltivare un orto urbano per autoconsumo? Romantico, risparmioso ma coltivare zucchine e patate ai confini della tangenziale può essere anche molto inquinante.

E’ tempo di semina per chi desidera coltivare un orto urbano per autoconsumo. Un idea romantica, risparmiosa ma spesso coltivare sulla tangenziale può essere anche molto inquinante. Mantenere un orto sul terrazzo o in un piccolo appezzamento di terra a ridosso della città da sempre è stato considerato un passatempo ecologico. Un’importante risorsa per l’autoconsumo a chilometro zero. Inoltre l’auto produzione potrebbe essere una scelta che privilegia la sostenibilità ambientale. Tuttavia, questa pratica, presenta sia vantaggi che svantaggi.
Pregi e difetti della coltivazione cittadina
Tra i pregi, va sottolineato il suo ruolo nel favorire l’autoapprovvigionamento alimentare, riducendo la dipendenza da filiere lunghe. E in più contribuisce all’adozione di uno stile di vita più sano e sostenibile. Inoltre, l’orto urbano può fungere da spazio di socializzazione e aggregazione, promuovendo il senso di comunità e il coinvolgimento dei cittadini nella cura dell’ambiente.
Non tutti sono d’accordo
Come evidenziato da uno studio americano, l’orto urbano può comportare un’impronta ecologica più elevata rispetto all’agricoltura tradizionale. Uno dei pochi ortaggi e frutti a salvarsi è il pomodoro. Se cresce in città produce meno anidride carbonica rispetto a quello di campagna. Ma la frutta e la verdura coltivata all’interno degli spazi delimitati dalle tangenziali cittadine, può rilasciare una quantità di emissioni fino a sei volte superiore a quella dell’agricoltura convenzionale.
Ma chi lo dice?
Lo dice uno studio della Michigan University che ha calcolato come una porzione di prodotti della terra coltivati in città ha un’impronta ecologica di 0,42 chilogrammi di anidride carbonica contro gli 0,07 di quelli di quelli che arrivano dai campi tradizionali. Un divario ecologico calcolato sulla base dei diari di ortolani urbani reclutati come citizen scientist in 73 tra aziende agricole. L’indagine ha riguardato orti privati e collettivi di Francia, Germania, Polonia, Regno Unito e Stati Uniti.
I principali motivi dei possibili inquinamenti sono determinati soprattutto dalle infrastrutture necessarie per la produzione di materiali, che possono generare un rilascio maggiore di emissioni di anidride carbonica. E’ importante considerare che tale impatto può essere mitigato attraverso l’adozione di pratiche agricole sostenibili e l’ottimizzazione delle infrastrutture.
Tra una zucchina e un peperone la crescita è del 18%
Sebbene manchino dati specifici sull’impatto ambientale degli orti urbani, nel nostro Paese si sta assistendo a un crescente interesse e diffusione di pratiche agricole sostenibili. Come confermato dall’aumento del 18% degli orti urbani negli ultimi anni. Le regole e le tecniche agronomiche che promuovono la sostenibilità ambientale, come il ricorso al metodo biologico, l’utilizzo di materiali riciclati. E inoltre la limitazione di fertilizzanti e pesticidi, contribuiscono a ridurre l’impatto ambientale di queste coltivazioni fai da te.
Inoltre, in Italia, l’orto urbano è spesso gestito dalle autorità locali o da associazioni di cittadini, il che favorisce la promozione di pratiche sostenibili e il rispetto delle normative ambientali. Le limitazioni rigide sull’uso di prodotti chimici e l’adozione di tecniche come il controllo biologico dei parassiti contribuiscono a ridurre l’impatto ambientale degli orti urbani.
Compost e paciamatura per rispettare l’ambiente
In tutte le città italiane ci sono limiti molto rigidi sui prodotti che si possono utilizzare negli orti urbani. Si coltiva solo con metodo biologico e sarebbero banditi fertilizzanti, pesticidi e diserbanti consentiti per legge nell’agricoltura tradizionale. Per l’autoconsumo come fertilizzante si dovrebbero utilizzare il compost (scarti organici) e pacciamature (un misto di foglie e stecchetti di albero). Un sistema che rispetta l’ambiente e la biodiversità vegetale molto più di una monocoltura intensiva.
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Rock e inchiostro: le band più tatuate secondo la pelle dei fan
Scopriamo insieme quali gruppi rock dominano la scena… dei tatuaggi! Tra icone immortali e loghi leggendari, ecco i re del tattoo.

Tatuarsi la propria band preferita è una delle dichiarazioni d’amore più rock che si possano fare. Che sia per ricordare un momento speciale o per onorare la musica che ci ha salvati nei giorni bui, ci ha dato la carica giusta quando serviva, un tattoo ispirato ai grandi della musica non è solo un’opera d’arte, ma un pezzo di cuore inciso sulla pelle.
In testa i Pink Floyd a seguire tutto il resto…
E a quanto pare, c’è una band che regna incontrastata quando si parla di tatuaggi: i Pink Floyd. Con 13.000 ricerche mensili globali per tattoo ispirati alla loro musica e alle loro copertine, il leggendario prisma di The Dark Side of the Moon è un must per i fan di tutto il mondo.
Secondi classificati i Guns N’ Roses (10.675 ricerche), grazie al loro iconico logo con la croce di Appetite for Destruction. La cosa è singolare se si pensa che il disegno originale venne realizzato proprio da Billy White Jr., un tatuatore. Medaglia di bronzo invece per i tedeschi Rammstein (10.558 ricerche), con il loro potente simbolo industrial rock. La classifica si chiude, a sorpresa, con i Twenty One Pilots, gli Iron Maiden e i Tool. Questi ultimi ricercati da 6.200 utenti mensili.
La Top 10 dal quarto al decimo posto
Metallica – 9.367 ricerche
Nirvana – 9.150 ricerche
Linkin Park – 8.425 ricerche
Slipknot – 7.900 ricerche
Twenty One Pilots – 7.775 ricerche
Iron Maiden – 7.125 ricerche
Tool – 6.200 ricerche
Mentor Dedaj, proprietario dello studio di tatuaggi con sede in Svizzera, a Berna, LLTattoo, che ha realizzato l’indagine conferma “La musica rock e l’inchiostro sono inseparabili. È incredibile vedere quante persone vogliono portare con sé per sempre un pezzo dei loro artisti preferiti”.
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