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Cinema

David Cronenberg sceglie la Calabria: “Come si fa a non essere felici qui?”

Il maestro del cinema horror è stato ospite al Celico International Arts Festival e ha dichiarato il suo amore per la regione. Un possibile trasferimento tra le colline presilane?

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    Quando David Cronenberg ha preso la parola sul palco del Celico International Arts Festival, nessuno si aspettava una dichiarazione così diretta: “Sto pensando di trasferirmi qui in Calabria”. Il regista canadese, famoso per i suoi film che esplorano la metamorfosi e il labirinto dell’inconscio umano, ha trovato nella terra di Gioacchino da Fiore, uno dei pensatori più rivoluzionari della storia, una fonte di ispirazione.

    Un festival che celebra l’arte e la trasformazione

    Il Celico International Arts Festival, giunto alla sua prima edizione, è un evento dedicato alla mutazione e alla percezione, elementi fondamentali nelle opere di Cronenberg. Il festival mette in dialogo cinema, teatro, musica e letteratura, creando un ponte tra passato e futuro, tra immaginazione e realtà. La proiezione di A History of Violence, che ha aperto la rassegna, ha visto il Teatro delle Arti di Celico sold out, con applausi e standing ovation per il regista. Ma il vero momento speciale è arrivato poco prima del film, quando Cronenberg ha ricevuto dal sindaco Matteo Lettieri una riproduzione in argento del Libro delle Figure, il codice miniato con le meditazioni bibliche di Gioacchino da Fiore.

    “Mi piacerebbe essere un rivoluzionario”

    Nel suo intervento, Cronenberg ha sottolineato come la figura di Gioacchino da Fiore, nato proprio a Celico nel 1130, rappresenti per lui un’ispirazione per il cinema. “Mi piacerebbe essere un rivoluzionario, nel cinema, come lo è stato Gioacchino da Fiore in tutta la sua vita”, ha detto il regista. Ma il suo legame con la Calabria non è soltanto artistico. Cronenberg ha raccontato di essere già stato a Cosenza anni fa, e ha ribadito la sua attrazione per questo territorio.

    “Come si fa a non essere felici in Calabria?”

    Parole che hanno alimentato le speranze di un suo trasferimento stabile nella regione, magari proprio a Celico, il borgo che oggi celebra l’incontro tra arte e spiritualità. Il Celico International Arts Festival, ideato dal sindaco Lettieri con la collaborazione di Donato Santeramo e Antonio Nicaso, mira a far conoscere la storia e la cultura calabrese a livello internazionale. Coinvolge l’Università della Calabria, la città di Cosenza, e ospita grandi nomi della cultura e dello spettacolo, tra cui Peppe Servillo, Katia Ricciarelli e Mario Pirovano.

    Celico, il nuovo centro culturale della Calabria?

    Quello di Celico è un progetto ambizioso che vuole riscattare la Calabria attraverso l’arte. Un progetto che ha trovato come ambasciatore David Cronenberg, un regista che ha sempre esplorato la trasformazione. Forse, stavolta, la metamorfosi riguarderà la sua vita, e lo porterà davvero a chiamare Celico casa.

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      Cinema

      Cinepresa o trappola? Kevin Costner denunciato per molestie da una controfigura

      La denuncia arriva da una professionista di lunga carriera nei set hollywoodiani: “Mi hanno spinta a girare una scena intima mai concordata, con Costner dietro la macchina da presa”. La difesa dell’attore: “Accuse infondate”. Ma il caso rischia di travolgere il secondo capitolo del kolossal western.

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        Il ciak stavolta potrebbe non segnare l’inizio di un film, ma di una lunga battaglia legale e mediatica. Kevin Costner, icona del cinema americano, è stato denunciato per molestie e discriminazione sessuale da Devyn LaBella, controfigura professionista con esperienze su set di altissimo profilo – Barbie compreso – che ha lavorato anche in Horizon: An American Saga, il kolossal western diretto e interpretato dallo stesso Costner.

        Secondo quanto riportato da The Hollywood Reporter, la denuncia riguarda una scena improvvisata e mai prevista dal piano di lavorazione del secondo capitolo della saga, attualmente in post-produzione. LaBella sostiene di essere stata coinvolta in una sequenza ad altissimo tasso di violenza sessuale, mai discussa prima, priva di prove e, fatto ancora più grave, girata senza la presenza obbligatoria di un intimacy coordinator.

        Una scena che, nella sua ricostruzione, avrebbe avuto luogo davanti all’intera troupe, e in condizioni di totale vulnerabilità. “Quel giorno non sono stata protetta”, ha dichiarato. “Sono stata profondamente tradita da un sistema che promette sicurezza e professionalità, soprattutto per chi svolge un mestiere delicato come il nostro, dove il corpo è parte integrante del lavoro”.

        L’accusa: “Simulazione di stupro, senza preavviso né protezione”

        Nella denuncia presentata presso un tribunale della California, LaBella racconta che la scena incriminata prevedeva la simulazione di un rapporto sessuale non consensuale, e sarebbe stata inserita all’ultimo minuto, senza alcun tipo di avvertimento, né tantomeno l’approvazione scritta o verbale da parte della stuntwoman. Kevin Costner, che oltre a dirigere interpreta anche il protagonista del film, era presente sul set come regista.

        Secondo l’attrice, il copione consegnato e il piano di lavorazione giornaliero non contenevano alcuna menzione di scene intime o potenzialmente traumatiche. “Sono stata messa in una situazione umiliante e abusiva, in pieno giorno, sotto gli occhi di decine di tecnici e colleghi”, si legge nella denuncia. “Nessuno ha fermato quella scena. Nessuno ha protestato”.

        Il punto centrale della causa ruota attorno all’assenza di un intimacy coordinator, figura ormai obbligatoria in qualsiasi produzione hollywoodiana che preveda scene di intimità fisica, proprio per prevenire situazioni come quella denunciata da LaBella. “Un’assenza inspiegabile”, scrive l’avvocato della donna, “in un set multimilionario con standard produttivi così elevati”.

        La reazione di Costner: “Accuse prive di fondamento”

        Secca e immediata la risposta dell’entourage di Kevin Costner, che attraverso il suo legale ha definito le accuse “totalmente infondate”. Secondo la loro versione dei fatti, non ci sarebbero mai state riprese ufficiali della scena contestata, che si sarebbe trattato semmai di “una prova scenica” condotta con il pieno consenso degli attori coinvolti. Nessuna coercizione, nessun abuso.

        “Kevin Costner non ha mai imposto nulla a nessuno”, ha dichiarato l’avvocato. “Queste accuse infangano la sua reputazione senza alcun riscontro oggettivo. I registri di produzione, le testimonianze della troupe e il materiale girato parlano chiaro. L’attrice era consapevole di ciò che stava interpretando”.

        Ma la difesa non convince tutti, anche perché LaBella afferma di essere stata silenziata dopo l’incidente: “Non sono più stata richiamata, né riassunta. Ho perso ingaggi abituali e regolari. Il mio nome è scomparso da alcune liste di produzione”.

        Un kolossal sotto accusa

        La denuncia arriva in un momento delicato per Horizon: An American Saga, megaproduzione a episodi che racconta la conquista del West e le tensioni fra coloni e nativi americani, progetto molto personale per Kevin Costner, che ha investito decine di milioni di dollari di tasca propria pur di portarlo al cinema. Il primo capitolo è atteso nei cinema per il 28 giugno, mentre il secondo, al centro del caso LaBella, è previsto per l’agosto successivo.

        Il film è già stato presentato con enfasi come un ritorno al cinema epico e corale: cast stellare, grandi paesaggi americani, cavalli, polvere e drammi familiari. Ma ora rischia di diventare il centro di una controversia che potrebbe oscurarne l’uscita, alimentando un dibattito su come vengano trattati sul set i lavoratori dello spettacolo, soprattutto le figure più esposte e meno tutelate, come le controfigure.

        Un altro caso MeToo?

        Il caso ricorda per certi aspetti quelli scoppiati negli anni del movimento #MeToo, anche se stavolta a essere coinvolto non è un giovane attore emergente, ma una delle figure storiche di Hollywood, che si è sempre presentato come paladino del cinema “etico” e indipendente, lontano dai meccanismi più tossici dell’industria.

        Ma la questione, al di là della colpevolezza o meno di Costner, riapre il dibattito sulla sicurezza dei set, sul ruolo reale degli intimacy coordinator e su quanto sia labile, ancora oggi, la protezione delle lavoratrici dell’industria cinematografica. Una controfigura non è un corpo a disposizione. Un concetto che sembra banale, ma che a quanto pare va ancora ripetuto.

        E stavolta, lo scandalo arriva in sella a un cavallo western. Ciak, si denuncia.

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          Cinema

          “Popeye” a tutto gas: sul set cocaina in scatola e attori strafatti. Parola dell’ex boss della Paramount

          Durante la promozione del suo libro “Who Knew”, l’ex dirigente della Paramount racconta che sul set di “Popeye” – girato a Malta nel 1980 – la cocaina viaggiava nelle scatole della pellicola. “Era impossibile sfuggire, erano tutti fatti”, confessa. Un debutto cinematografico fuori controllo per Robin Williams

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            Altro che spinaci. Sul set di Popeye – Braccio di Ferro, il carburante principale non era quello della famosa lattina verde, ma una ben più stupefacente polverina bianca. A sganciare la bomba è Barry Diller, ex potentissimo CEO della Paramount Pictures, che nel corso della promozione del suo libro di memorie, Who Knew, ha deciso di togliersi qualche sassolino (o meglio, qualche striscia) dalle scarpe.

            Intervistato a New York, quando gli è stato chiesto quale fosse stato il set “più cocainomane” tra quelli frequentati durante il suo decennio dorato a Hollywood, Diller non ha avuto esitazioni: “Un set cinematografico da sballo? Oh, Popeye. Tutti strafatti, impossibile sfuggire. E se guardate il film ve ne accorgete: sembra girato metà a 33 giri e metà a 78”.

            Girato nel 1980 sull’isola di Malta e diretto da un visionario e spesso ingestibile Robert Altman, Popeye segnava il debutto cinematografico di Robin Williams, reduce dal successo in TV con Mork & Mindy. Al suo fianco c’era Shelley Duvall, nel ruolo di Olivia, attrice feticcio del regista e volto etereo e malinconico che sarebbe diventato iconico anche grazie a Shining di Kubrick, uscito quello stesso anno.

            Ma dietro la scenografia coloratissima del villaggio di Braccio di Ferro si nascondeva una realtà ben più torbida. “Le scatole di pellicola venivano spedite ogni giorno a Los Angeles per lo sviluppo. Solo che ci infilavano dentro anche la cocaina”, ha raccontato Diller. “Era un traffico continuo avanti e indietro da Malta. Un sistema rodato. Un party senza fine.”

            Un retroscena che oggi fa sorridere amaramente, ma che all’epoca sembrava quasi la norma. Diller, che ha supervisionato l’uscita di cult come La febbre del sabato sera, I predatori dell’arca perduta, Grease e Beverly Hills Cop, non si nasconde: “C’era cocaina ovunque. Non solo su quel set, ma lì era tutto amplificato, disinibito. Forse per questo il film è così… come dire… schizofrenico.”

            Nonostante tutto, Popeye fu un successo al botteghino, incassando 60 milioni di dollari in tutto il mondo, quasi il doppio del suo budget. Ma la critica non fu altrettanto generosa: recensioni tiepide, spesso perplesse di fronte all’esperimento a metà tra musical, live action e cartone animato. Oggi il film è diventato un piccolo cult, ma all’epoca lasciò molti perplessi. E forse, ora sappiamo perché.

            Robin Williams – che in anni successivi avrebbe parlato apertamente delle sue lotte con le dipendenze – uscì comunque indenne dall’esperienza, pronto a diventare uno degli attori più amati di Hollywood. Ma il set di Popeye, a quanto pare, è rimasto nella memoria di chi c’era come una specie di Woodstock marinaresca: costumi buffi, regia anarchica e una montagna di polvere bianca a tenere alto il morale della truppa.

            “Altman era un genio, ma anche un pazzo. E quel film è stato un delirio collettivo”, ha concluso Diller. Uno di quei casi in cui la realtà del dietro le quinte era molto più lisergica del prodotto finito.

            E chi l’avrebbe mai detto che Braccio di Ferro, tra un pugno e una canzone, nascondeva uno dei set più folli degli anni Ottanta? Altro che cartoni animati: qui si girava con il naso all’insù.

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              Clint Eastwood e il suo film da dimenticare: “Uno dei peggiori mai realizzati”

              Nel 1958, Clint Eastwood recitò in L’urlo di guerra degli Apaches, western sfortunato diretto da un esordiente mai più pervenuto. Una pellicola talmente mediocre che l’attore, anni dopo, la definì “uno dei peggiori film mai girati”. Prima di diventare leggenda, anche lui ha dovuto scavare piscine. Letteralmente.

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                Prima di essere il Biondo, prima di diventare l’ispettore Callaghan, prima ancora di reinventarsi regista due volte premio Oscar, Clint Eastwood era un giovane attore sconosciuto che arrancava tra piccoli ruoli, provini andati male e mestieri qualunque. Taglialegna, istruttore di nuoto, scavatore di piscine, benzinaio: tutto pur di arrivare a fine mese e, magari, conquistarsi una chance sotto i riflettori.

                Quella chance arrivò, sì, ma non subito con Sergio Leone. Prima, il buon Clint fu costretto a passare anche attraverso un piccolo calvario professionale: un film che lui stesso avrebbe definito “uno dei peggiori mai realizzati”. Titolo: L’urlo di guerra degli Apaches (Ambush at Cimarron Pass, 1958).

                Un western girato per la Twentieth Century Fox da un certo Jodie Copelan, montatore promosso alla regia per l’occasione. Fu anche la sua ultima regia. Per chi lo ha visto – pochi, fortunatamente – si tratta di un filmaccio polveroso, banale, mal scritto, con battute da fotoromanzo e una recitazione forzata, in cui Eastwood interpretava un giovane soldato scontroso con il comandante. L’unico dettaglio da segnalare? Il nostro Clint odiava il suo stesso personaggio. E lo disse chiaramente.

                Lo riporta Marcello Garofalo nel suo saggio Il cinema è mito: Eastwood, interpellato su quella pellicola anni dopo, l’ha definita senza mezzi termini “uno dei film più brutti mai girati”. Certo, non c’è una data precisa, e magari oggi – a 94 anni suonati – Eastwood ci riderebbe su. Ma resta un documento che racconta meglio di mille biografie quanto la strada verso la gloria di Hollywood possa iniziare tra cactus, cavalli imbizzarriti e copioni imbarazzanti.

                Prima di quel tonfo, Clint aveva già debuttato nel 1954 in un filmaccio horror, La vendetta del mostro di Jack Arnold, sequel del più celebre Il mostro della laguna nera. Anche lì, una particina irrilevante. Ma l’occasione vera, quella che cambia tutto, arrivò nel modo più imprevedibile: da una ragazza dell’agenzia William Morris che segnalò il suo nome a Sergio Leone, in cerca di un volto americano per il suo spaghetti western. Fu così che nacque la Trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo).

                In America nessuno ci puntava. Leone aveva intuito tutto. Scoprì Eastwood, gli tolse la sigaretta di bocca e gli mise in mano il mito. Quella faccia impassibile, quel ghigno storto, quel modo di sparare prima ancora di parlare: nasceva una leggenda del cinema. E Hollywood, dopo averlo ignorato, capì di aver dormito troppo a lungo.

                Ma L’urlo di guerra degli Apaches resta lì, come una macchia su una carriera immacolata. E non è nemmeno disponibile in streaming: chissà se per scelta artistica o per pudore collettivo. Ma in fondo, anche questo è cinema. È gavetta. È leggenda che si costruisce sul ridicolo, prima che sull’epica.

                E se oggi Clint può permettersi di fare film come Gran Torino, Million Dollar Baby o Cry Macho, è anche perché un giorno, nel deserto, qualcuno gli fece urlare parole insensate contro indiani finti, in un film che nessuno voleva ricordare.

                Lui per primo.

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