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Cinema

Robbie Williams: la sua vita in un biopic interpretato da… una scimmia!

Better Man è il titolo della pellicola che ripercorre la straordinaria vita di Robbie Williams, leggenda del pop ed ex membro dei Take That. Un biopic assolutamente sorprendente: Robbie è interpretato da una scimmia!

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    Better Man è un viaggio nell’anima di Robbie Williams. Uscito da pochissimi giorni, promette di raccontare la vita dell’ex membro dei Take That ed in seguito celebrata popstar, attraverso una lente intima e rivelatrice. Il titolo pone una domanda fondamentale: cosa significa davvero diventare un uomo migliore? Ma, oltre a questo, un vero e proprio colpo di scena sta facendo già discutere: a interpretare Williams non è un attore, bensì una scimmia!

    La mappatura a computer per rendere Williams uno scimpanzè

    Tutta la parabola dell’artista

    La trama segue una struttura classica, in grado di raccontare l’intera traiettoria artistica di Williams: dagli esordi come giovane promessa del brit-pop nella boyband dei Take That, fino al successo da solista. Lo spettatore vivrà i momenti chiave della vita del cantante, dalla rottura con il suo gruppo fino al grande successo internazionale, senza dimenticare il suo lato oscuro, fatto di dipendenze e successiva riabilitazione. Un viaggio che culmina nella ricerca di redenzione e del significato di trasformarsi, appunto, in “un uomo migliore”.

    L’idea che sorprende

    La novità sta nel fatto che nel ruolo principale non vi è un attore in carne e ossa, ma una scimmia in computer grafica, simile a quelle viste nei moderni remake di Il pianeta delle scimmie. Con gli occhi però di Robbie, quelli originali. Una scelta, apparentemente bizzarra, che attribuisce alla pellicola una profondità simbolica che va oltre la mera narrazione biografica. Il film è già nelle sale italiane, essendo uscito il 1° gennaio.

    Perchè l’idea di usare una scimmia

    Potrebbe sembrare un vezzo creativo, ma l’idea è tutt’altro che casuale. Lo stesso Williams ha dichiarato: “La scimmia sono io”. Una frase che può essere letta in molti modi… e il film lascia allo spettatore la libertà di interpretarla. La scimmia potrebbe rappresentare il senso di inadeguatezza che il cantante ha sperimentato nella sua vita, come se fosse “meno evoluto” rispetto agli altri. Ma c’è anche un’altra interpretazione, ancora più potente: Robbie simboleggia la scimmia ammaestrata dello show business, costretto a esibirsi per il divertimento del pubblico e il profitto dei suoi manager. Le sue performance sono quelle di un animale in gabbia osservato dai curiosi. E l’utiòizzo della scimmia amplifica questa metafora, inducendo lo spettatore a riflettere sul prezzo che bisogna pagare per essere famosi.

    La colonna sonora è tutta targata Robbie Williams

    A differenza di molti biopic che si concentrano su un momento preciso della vita del protagonista, Better Man abbraccia l’intera carriera del cantante inglese.. La colonna sonora è ovviamente composta dai suoi successi più iconici. Dal punto di vista visivo, il film richiama i musical classici che raccontano il dietro le quinte dell’industria dello spettacolo, come Cantando sotto la pioggia o All That Jazz. Ma naturalmente con un approccio estetico moderno, con colori saturi, luci sognanti e una fotografia che simula la grana della pellicola: in perfetto stile videoclip anni ’90.

    Nel film vengono citati gli Oasis

    Un momento chiave del film è l’incontro-scontro) simbolico con i fratelli Gallagher, che fanno . una breve ma memorabile apparizione, raffigurati con un’attenzione ai dettagli che li rende immediatamente riconoscibili, persino dalla loro camminata.


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      Cinema

      Eva Murati, la prima attrice italiana creata con l’intelligenza artificiale: debutta sul red carpet di Roma e parla ai giornalisti

      Occhi magnetici, sorriso perfetto e voce sintetizzata: Eva Murati è la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale. Il progetto, sostenuto da EDI Effetti Digitali Italiani, esplora il confine tra creatività umana e tecnologia.

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        Ha calcato il red carpet come una star consumata, sorridendo ai flash e concedendo interviste come se fosse nata per questo. Ma Eva Murati, protagonista del cortometraggio The Last Image, non esiste. O meglio: non esiste in carne e ossa. È la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale, una creazione che segna un nuovo capitolo nel rapporto tra cinema e tecnologia.

        Dietro di lei c’è HAI – Human & Artificial Imagination, il laboratorio creativo che ha realizzato il progetto con il supporto di EDI Effetti Digitali Italiani, una delle aziende leader europee nel campo dei visual effects.
        Il cortometraggio, diretto da Frankie Caradonna e prodotto da Film Affair, è il primo esperimento nazionale in cui l’intelligenza artificiale è coinvolta in tutte le fasi: scrittura, fotografia, montaggio e post-produzione. Ma non per sostituire l’uomo — per affiancarlo.

        Sul tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma, Eva Murati si è comportata come una vera interprete: ha rilasciato dichiarazioni ai giornalisti («Sono felice di essere a Roma, città della Dolce Vita, film preferito di mia nonna») e ha posato per i fotografi con un’eleganza quasi inquietante nella sua perfezione. Un esercizio di stile che lascia intravedere il futuro del cinema digitale.

        The Last Image racconta un mondo prossimo al collasso, dove le immagini diventano l’ultimo ricordo dell’umanità. Un tema che dialoga con la stessa esistenza della sua protagonista, nata da un algoritmo ma modellata da mani umane. Oltre cinquanta professionisti — sceneggiatori, artisti visivi, tecnici e programmatori — hanno lavorato fianco a fianco con le macchine, dimostrando che la creatività artificiale può essere uno strumento, non un rivale.

        Il risultato è un cortometraggio che interroga, più che stupire: quanto è reale ciò che ci emoziona? E quanto siamo pronti ad accettare un volto sintetico sullo schermo, se riesce a farci sentire qualcosa di autentico?

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          Cinema

          Johnny Depp e Tim Burton: l’amicizia che ha resistito al dolore

          Durante le riprese di Sweeney Todd nel 2007, la figlia di Depp, Lily-Rose, si ammalò gravemente. Il regista interruppe la produzione per stargli accanto. Oggi, una docuserie racconta quell’episodio che ha cementato un legame umano oltre il set.

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          Johnny Depp e Tim Burton

            Johnny Depp e Tim Burton condividono da oltre trent’anni uno dei sodalizi più affascinanti del cinema contemporaneo. Ma dietro le atmosfere gotiche e visionarie dei loro film, si nasconde una storia di amicizia profonda, segnata anche dal dolore.
            A raccontarla è Depp nella docuserie in quattro parti Tim Burton: Life in the Line, diretta dalla regista Tara Wood, che esplora la carriera e l’universo creativo del cineasta americano.

            Nel terzo episodio, l’attore ricorda il 2007, anno in cui la sua vita si fermò bruscamente. Durante le riprese di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, sua figlia Lily-Rose — allora di appena sette anni, nata dalla relazione con Vanessa Paradis — fu colpita da una grave infezione da Escherichia coli che compromise i reni, costringendola alla dialisi.
            “Tim ha fatto enormi sacrifici durante Sweeney,” racconta Depp. “Lo consideravo già parte della famiglia. Quando gli dissi che dovevo lasciare il film, lui mi fermò subito: ‘Non dirlo nemmeno, amico. Troveremo un modo’.”

            La produzione si fermò per quasi un mese. “Siamo rimasti in ospedale più di tre settimane,” ricorda l’attore. “Tim venne a trovarci il giorno dopo la telefonata, portando fiori. Si comportò da vero zio, da padrino amorevole. Non lo dimenticherò mai.”

            Derek Frey, storico produttore di Burton, conferma l’episodio nella docuserie: “La malattia di Lily-Rose cambiò l’atmosfera sul set. Era un film oscuro, e Johnny stava vivendo il suo personale incubo. Credo che quel dolore autentico abbia influenzato la sua interpretazione.”

            Fortunatamente, la storia ha avuto un lieto fine. Lily-Rose Depp si è completamente ristabilita e oggi, a 26 anni, è un volto emergente del cinema. Dopo il successo della serie The Idol, sarà tra le protagoniste del nuovo Nosferatu di Robert Eggers, in uscita nel 2025.

            “Quell’esperienza ci ha segnati per sempre,” ha dichiarato Depp. “Tim è rimasto vicino a me quando tutto sembrava crollare. Da allora, ogni film con lui è anche un atto di gratitudine.”

            La docuserie, che include interviste a Helena Bonham Carter, Danny Elfman e Michael Keaton, mostra un Tim Burton più umano che mai — e un Johnny Depp finalmente disposto a ricordare che, dietro il mito, c’è un uomo che ha imparato a sopravvivere anche grazie all’amicizia.

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              Anthony Hopkins, il silenzio degli abissi: “Quando bevevo parlavo con l’oceano. Ora dico a me stesso: è andata bene, ragazzino”

              “Quando bevevo avevo esperienze semi-religiose. Parlavo all’oceano di Malibu e lui mi rispondeva”, racconta Sir Anthony Hopkins nella sua autobiografia in uscita il 4 novembre per Longanesi. Smette di bere nel 1975: “Ovunque vada, l’abisso mi segue. È carburante per razzi, ma può distruggerti”.

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                A 87 anni Sir Anthony Hopkins si racconta senza filtri, con l’ironia e la profondità che hanno segnato ogni suo ruolo. Il due volte premio Oscar pubblica il memoir We did ok, kid (È andata bene, ragazzino), in uscita il 4 novembre per Longanesi. Un viaggio tra ricordi, fragilità e rinascita, dove il genio si intreccia al dolore e la gratitudine alla sopravvivenza.

                “Quando bevevo avevo esperienze semi-religiose. Pensavo di essere Giovanni Battista, parlavo all’oceano a Malibu e il mare mi rispondeva”, confessa l’attore, ricordando gli anni più bui della sua dipendenza. Hopkins smette di bere nel 1975, dopo aver toccato il fondo: “Ovunque io vada, l’abisso mi segue. È carburante per razzi. Ma può farti a pezzi e ucciderti”.

                L’alcol distrugge i suoi primi due matrimoni e mina il rapporto con l’unica figlia, Abigail. “Non abbiamo più rapporti, è la sua scelta. Dico ai giovani: se i vostri genitori vi fanno soffrire, andatevene. Vivete la vostra vita”. Oggi Hopkins parla di sé come di un uomo “semplicemente grato di essere vivo e di lavorare ancora”.

                Nel libro, tradotto da Alberto Pezzotta, l’attore ricorda la sua infanzia a Port Talbot, piccola città siderurgica del Galles: “Tengo sul telefono una foto di me e mio padre in spiaggia. Ogni tanto la guardo e mi dico: è andata bene, ragazzino”. Figlio di un fornaio, con una dislessia mai diagnosticata e un talento vorace, Hopkins costruisce la sua leggenda a forza di disciplina: legge ogni copione 250 volte ad alta voce e memorizza una poesia nuova ogni settimana per tenere viva la mente.

                Nel volume non mancano gli aneddoti sul set de Il silenzio degli innocenti, il film che gli regalò il primo Oscar. “Non so perché Jonathan Demme mi scelse, ma si fidò di me. Trovava divertente quanto fossi oltraggioso. L’idea che Hannibal Lecter fosse già in piedi nella cella fu mia: Clarice può sentire il suo odore, dissi a Jonathan. Mi guardò e rispose: sei davvero strano, Hopkins”.

                La voce di Lecter, spiega, è ispirata al “cinguettio tagliente” di Katharine Hepburn, unita alla freddezza ipnotica di Charles Manson. Un mix che lo rese immortale. E oggi, tra un dipinto e una nuova poesia imparata a memoria, il vecchio Anthony guarda il mare senza più parlare da solo — ma con la serenità di chi, dopo l’abisso, ha imparato ad ascoltare solo il silenzio.

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